“Ho sempre pensato che fosse stata questa garanzia a farvi dire di sì, che aveste immaginato la scena, anticipato il gioco, mentre invece state improvvisando…”
Gli tendo la mano senza varcare la soglia. La stretta è appena
esitante sulle prime, poi progressivamente più salda. Ha aperto lui la porta, benché sia casa tua. Si muove sicuro in un territorio che ha delimitato nel tempo.
Mi invita a entrare indicando con la mano aperta in direzione della cucina. Sei in piedi appoggiata al lavandino, ti vedo ondeggiare di schiena, assorta nel compito. Interrompi un istante per lanciare un saluto poi ti volti di nuovo, ma ti vedo sorridere perché stringi le spalle e ci racchiudi dentro la testa.
Lo spazio è importante. Lo spazio è parola. Ci disponiamo ai vertici di un triangolo: tu al lavello, io con la schiena appoggiata al muro vicino alla porta, lui in piedi nei pressi del mobile alto. Slitti verso il fornello con un mazzo di basilico appena sciacquato in mano; ad ogni tuo spostamento ne corrispondono altri due a compensare il beccheggio emotivo.
Anche il tempo è importante: ha come frenato da quando ho salito le scale troppo velocemente. Immaginavo il citofono riecheggiare in ingresso, congelare l’azione. Cosa stavate facendo un istante prima che io suonassi? Ti avrà visto vestirti? Avrà scelto con te questo vestito nero a pieghe, ampio e arioso? Scommetto di no. Ti sei preparata da sola, assortendo con cura i capi da indossare, ma senza troppo indugiare, seguendo un’idea che avevi covato nel tempo, scartandoli o estraendoli da un cassetto immaginario. Così, in questo, siamo pari. Partiamo da una stessa, parziale immagine di te e dei tuoi preparativi.
Sono importanti anche i preparativi. L’attesa è parte dell’atto.
Mentre leggevo i cognomi sulle targhette dei citofoni ho cercato di immaginarvi qualche piano più in alto. Dietro una finestra con le tende tirate e la luce, calda, accesa. Forse lo baci perché non sai se poi potrai farlo in mia presenza. Respiri con lui la stessa ansia di questo momento voluto e temuto insieme. Quello che non so, che non so nemmeno immaginare, è come vi siate decisi, se ne abbiate parlato a lungo, dopo l’amore; o se l’abbiate costruito, per così dire, mediante sottrazione, evocando dettagli e lasciando alle vostre fantasie di colmare gli spazi.
So solo che qualche giorno fa mi hai scritto: «Verresti a cena mercoledì alle otto? Ci sarà anche lui». Per te “lui” ha certamente un nome, che scatena emozioni quando ti attraversa la gola o la mente. Per me, è semplicemente “lui”: esiste perché esisti tu.
Formalmente era un invito. In realtà, una risposta. E la domanda stava sommersa indietro nel tempo, confitta tra frasi di conversazioni, e risate e confidenze. Affondata nel denso nero sessuale di un caffè espresso – io -, nella schiuma ambigua di un cappuccino – tu. Avevo alzato gli occhi dalla tazzina e sorriso come quando un bambino ha un segreto che brucia e spera solo che qualcuno glielo faccia svelare.
Chissà se ci pensi, a quella conversazione, ora che lui ha rotto lo spazio e ti ha appoggiato una mano sul fianco. Continui a rimestare nelle tue casseruole, come se la mano non fosse dov’è, o non fosse parola, anch’essa. Soprattutto, non mi guardi.
Mi porgi una teglia di ceramica bianca coi bordi rialzati e due piccoli manici curvi. Fuma di un cibo che non so decifrare. Mi chiedi se posso posarla sul tavolo. Nel passarmela, le nostre dita si sfiorano in un gesto ordinario, imprevisto. Si aggrappano al contatto come alpinisti a cui manca improvvisa la presa. Si sfiorano, indugiano, si lasciano, amanti di una notte che ripartono prima dell’alba.
Eseguo il mio compito; la tavola è candida, preparata con gusto. Mentre cerco di indovinare il punto esatto in cui posare il mio piatto, osservo le simmetrie di questi tre coperti che hai disposto con cura. Prefigurano posizioni, e distanze reciproche, e sapori e appetiti. E’ tutto scritto in questo ikebana di bicchieri, tovaglioli e posate. Nell’oscena vicinanza di cucchiaio e coltello, accogliere e ferire, suggere e infilzare. Nel riflettersi circolare dei calici da vino. Nella liscia carezza del risvolto della tovaglia bianca che ricadrà a sfiorarci le cosce, una volta seduti.
Quando torno in cucina ti ritrovo in ginocchio, la bocca ad anello intorno al suo sesso. Lo trattiene alla base con la mano rugosa, come se il tuo succhiare potesse strapparlo dal corpo. La mano sul cazzo era stata la foto che mi avevi mostrato, sfogliando tumblr erotici ai bordi di un bar fin troppo affollato. E’ quasi un’icona offerta al mio sguardo. Tu compi devota un rito sacro. Hai assunto una cadenza regolare, dosata. Infondi passione soddisfacendo la fame, ma al tempo stesso sei calma e controllata.
Immobile nell’angolo in cui lo schermo del lampadario proietta un cono d’ombra, osservo emozionato la vostra progressione. Nulla sembrerebbe poterti distogliere dal compito in cui sei immersa. E i suoi occhi strizzati imprigionano le paure di un uomo di fronte a una fantasia che si muta in realtà. Noi siamo forse più disinibiti nel lanciare provocazioni. Voi più pronte a raccoglierle.
Non è solo la posizione, il tuo essere inginocchiata a un metro da me, ad aver segnato una svolta. Sono altri dettagli. L’odore acido che si snoda tra i profumi del cibo. Il frusciare discreto di labbra su pelle. Una goccia di saliva che brilla sul tuo pavimento, al centro esatto dei piedi di lui.
Non esisto. Non respiro. Non penso.
Non ho odore né colore né consistenza.
Eppure ci sono. Il tuo spingere indietro il sedere, ruotando il bacino, espondendo la fessura nera del perizoma di lycra solcato da una lama di voglia bagnata, è per me. Il gemere ingolfato di quando il suo sesso si arena in gola, quel respingere un conato trattenendo il respiro, è per me. Per me anche il suo dischiudere in un lampo quegli occhi smarriti, cercarmi nello sfocato della penombra, distinguermi appena, o forse confermarmi al mio posto. Per me l’ondeggiare implacabile del capo. Per me la mano sulla tua testa. Per me il suo frugarti il seno senza dolcezza, il tuo aprire le cosce, il tuo sollevare il vestito sui fianchi.
Ed ecco che una voglia più possente vi prende. Il bisogno irrinunciabile di essere dentro l’uno nell’altra. Le sue mani sui fianchi, le tue come quelle di un cieco protese in avanti. Scosta l’elastico. E’ dentro, deciso.
Quale fosse l’attesa, quale fosse il timore, ora ti fai scopare in piedi sotto i miei occhi. Non c’è altro nome, non c’è eufemismo. I colpi che assesta ti fanno tremare sui tacchi, producono piccoli stridii della suola sulla piastrella. Non più palpebre strizzate a serrare paure. Non più mani discrete a frugare sotto le pieghe. Ora godi di essere esposta. E lui gode di fotterti in piedi. Accogliete la luce puntata sul viso e lasciate che l’onda vi travolga con la sua forza.
Tu, ancora vestita, aspetti ora da me un segno. Accendi nella notte i fari dei tuoi occhi, li punti nei miei. Le pupille si stringono a spillo.
E vorrei vederti nuda. Vorrei essere nudo anche io con voi.
Lo sguardo è parola. La parola, quella detta, è la grande assente di questa cena. La sussurri a lui nell’orecchio, la liberi nella stanza sotto forma di gemito. La imbrigli nelle frasi banali delle conversazioni educate, ma è incapace di dire il desiderio profondo. Quello è lasciato ai gesti e al gesto dei gesti, lo sguardo. Come un marinaio provato dal viaggio, getto l’ancora nel luccichio dei tuoi occhi. La sento affondare mentre do di catena.
Ho la mano appoggiata indecente sul pacco, la schiena inclinata al sostegno del muro, le gambe allargate. Mi chiedi un gesto che mi comprometta. La mia mano afferra tremante il bottone dei pantaloni, li slaccia, li allarga, li divarica, infine li cala. Risale a seguire il profilo rigonfio del boxer, si tuffa all’interno, riemerge stringendo la preda e la libera, la espone e la offre al tuo carniere.
Il cazzo è parola. E’ un ordine gridato nella notte.
Senza smettere di toccare, prendere e penetrare, gemere e vibrare, ci liberiamo di ogni vestito e di ogni timore. Cadaveri di stoffa scomposti ai nostri piedi, allontanati con un calcio perché non disturbino. Perché ora la distanza è un disturbo, e mi faccio vicino. Ti affacci sull’erezione che ti offro sguainata. Lui non smette di prenderti, più sudato, più convulso di prima. Alza ogni tanto la testa, mi sorride da amico. Un estraneo con cui fai un lungo viaggio e che, arrivando in stazione, senti fratello più di chi ti conosce.
Stai respirando il mio odore, la prima goccia di piacere che affiora alla punta. Inspiri profondo, socchiudi la bocca. Certamente è diverso dal suo, che ben conosci. Una freccia di lingua si affaccia tra i denti. Poi ti sollevi e avvicini la testa alla sua. Sussurri qualcosa. Annuisci contenta.
Realizzo solo ora che di questo non avete parlato. Che non c’è un accordo, un confine tracciato. Ti rivedo negli occhi di quel pomeriggio al bar, quando scostando le tazzine avevo lasciato cadere la mia proposta. Il tuo sorriso che diceva «Mi fido. Lo vorrei veramente. Stasera gliene parlo». E io a precisare probabilmente di troppo: «Vorrei solo guardarvi. Non vi tocco nemmeno».
Ho sempre pensato che fosse stata questa garanzia a farvi dire di sì, che aveste immaginato la scena, anticipato il gioco, mentre invece state improvvisando per me e la vostra spontaneità mi sommerge di emozione.
C’è un solco, ed è questo, tra desiderio e compimento. E’ una linea della vita incisa nel cuore, che segna il confine tra ciò che siamo e ciò che possiamo essere, uno dei mille, dei milioni di possibili uomini che sarei potuto diventare se anche solo a una svolta avessi cambiato direzione.
Ora che dovrei solo chiudere gli occhi e fare un passo in avanti, mi blocco. Non è il pudore, nemmeno paura: sono afferrato da una mano che mi trascina sull’orlo della faglia. Vi scivolo dentro affondando in un liquido denso e caldo, che sa i sapori della mia adolescenza: il calore del corpo di quando uscivo di casa in maglietta incurante del freddo, lo stupore di sentirsi gonfiare di voglia per un segreto regalato o per uno sbirciato di frodo, il fremito del corpo nell’istante in cui è bruciato dall’immaginazione. Quell’essere preso e condotto dalla fantasia senza nulla poter opporre, figurarsi la volontà; senza poter negoziare pensieri o azioni ma solo seguire e lasciarsi plasmare.
E’ esattamente la stessa sensazione che provo adesso, quando tu mi guardi e sussurri «Vuoi?», e lo chiudi scivolando su un grido perché lui ha punteggiato la stessa domanda, che è anche la sua, con un colpo più forte di reni.
Dico solo «Vorrei».
Il desiderio è parola.
E solo adesso posso chiudere gli occhi.
Faccio un passo in avanti.
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