Io ero appena entrata nella sala, dove tra pochi istanti sarebbe iniziato un concerto d’un noto musicista, giacché sapevo cominciando bene ad apprezzare, che avrebbe eseguito quel brano free-jazz dalle note penetranti e infinitamente sensuali che io adoro, per il fatto che porta il nome di “Old School” di Everette Harp, con gli assoli sempre omogenei e trascinanti assieme alle note che ti riscaldano appieno rincuorandoti l’anima, ascoltatelo, perché ne vale la pena. Ero da sola, nel frattempo a mio fianco, a luci già spente, si sedette un uomo e tra un applauso e l’altro i nostri gomiti vicini per naturali ragioni di spazio si sfioravano.
Di colpo io pensai che incredibilmente quello era il primo contatto con un rappresentante dell’altro sesso, dato che non avevo più avuto da un sacco di tempo e quella curiosa circostanza mi fece sorridere. Alla fine del concerto m’alzai lentamente dalla mia poltroncina, prendendo adeguatamente tempo per osservare il mio vicino di posto: a dire il vero lui non era particolarmente attraente con un’età indefinita tra i trenta e i quarant’anni, unitamente a uno stile di proposito disordinato, distratto e intemperante, così mi girai per avviarmi verso l’uscita e sentii distintamente la sua voce apostrofarmi da dietro le spalle:
“Lei applaudiva spesso, dev’esserle piaciuto parecchio a quanto pare. Le va di discuterne, frattanto che sorseggiamo qualcosa qui nei paraggi?”.
Cielo riflettei io, ci risiamo, ci sono ancora in voga certi accorgimenti e certi artifizi per abbordare trainandosi in seguito una donna anonima qualsiasi? Io mi voltai pronta per rifiutare quell’invito respingendolo con qualche frase a effetto, però riuscii soltanto a rispondere con un debole: no grazie. Ritornai al garage, ripresi la mia autovettura e me ne tornai verso casa pensando che anche questa volta avevo lasciato uno dei soliti galletti metropolitani a mani vuote, quando però infilai la chiave nella serratura del portone sentii due forti colpi di clacson, mi voltai di scatto in modo automatico notando che lo sconosciuto del concerto mi guardava dal finestrino della sua automobile, giacché m’aveva accortamente seguito. Lui m’aveva spiato e quella faccenda sarebbe potuta diventare pericolosa, eppure, stranamente mi sentii più adirata e furibonda che spaventata. Come si permetteva, infatti, lui da perfetto estraneo qual era di seguirmi, d’introdursi nel mio percorso scoprendo in ultimo l’indirizzo di casa mia?
“Credo che lei stia esagerando, la prego d’andarsene”.
Io non avevo paura, perché anche se ne avessi avuta avrei certamente fatto di tutto per non farglielo capire, che diamine. Repentinamente lui uscì dall’autovettura e si collocò stando in piedi dinnanzi al cofano, nel tempo in cui m’osservava in modo costumato e perbene mi riferì:
“Non mi dare del lei, queste formalità si usano con gli estranei”.
Lui sennonché risalì sulla vettura, mise in moto e mi salutò con la mano senza guardarmi in faccia, io decisi di non pensarci più dimenticando alla svelta l’accaduto, malgrado ciò non riuscivo a prender sonno. Che significato poteva avere quella sua frase? Che cosa voleva quell’uomo da me? Avrei dovuto chiamare qualcuno? E se fosse stato realmente un individuo poco di buono? Con questi tentennamenti m’addormentai, risvegliandomi m’accorsi che era già quasi mattina, mentre la luce dell’alba filtrava dalle persiane, eppure persino nella dimensione dei sogni ricomparve lui: vestito come la sera del nostro incontro. Lui stava dritto di fronte a me, invece io ero nuda con le spalle appoggiate a un muro in un luogo imprecisato, in una stanza bianca e pulita d’una casa di campagna, mi toccava i capezzoli con le dita, mi baciava con irruenza tenendomi ferma la testa e trattenendomi dai capelli. Io ero visibilmente agitata e impensierita dal sogno e indagando tra le mutandine scoprii d’essermi eccitata bagnandomi notevolmente. Com’era possibile, provare una tale sensazione per una persona mai vista in vita mia?
Io non ero adatta alle storie consumate e vissute velocemente, ai rapporti d’una notte nello stile “usa e getta”, quindi mi convinsi sincerandomi di dimenticare insabbiando rapidamente tutto l’accaduto per iniziare la mia fresca giornata. In fondo, che cos’era poi successo? Un dongiovanni da strapazzo m’aveva seguito e mi era apparso ancora in sogno, non valeva nemmeno la pena di raccontarlo alle amiche. Mi vestii, uscii da casa, sennonché nel girarmi per chiudere la serratura notai un CD appeso allo stipite con del nastro adesivo: era l’ultimo disco suonato dal jazzista che avevo ascoltato la sera prima: non c’erano dubbi: quel CD era stato appeso alla mia porta dallo sconosciuto. A quel punto mi sentii davvero violata, visto che lui m’aveva trovato, sapeva esattamente dove abitavo, mentre io non sapevo nemmeno il suo nome, dato che non m’interessava nemmeno saperlo, questo era il punto. Affrontai la giornata sfidandola, cercando di non preoccuparmi più di tanto della singolare esperienza che stavo vivendo. Non ero una ragazzina pensavo dentro me stessa, avrei saputo come sostenere e trattare la faccenda, eppure nonostante il mio coraggio quando rincasai m’accorsi che salivo guardinga e sospettosa le scale, però non ero certa di trovare ulteriori sorprese, anche se in cuor mio avrei preferito non trovarne alcuna. Era un’audace e bizzarra situazione, perché non ero che sceglievo, ma lo stava facendo lui per me, infatti trovai una busta sotto la porta di casa che conteneva un biglietto scritto a penna:
“Fatti trovare alle ore ventidue, perché ascolterò il CD mischiato al suono dei tuoi intemperanti e lussuriosi gemiti”.
Che incontenibile e irrefrenabile rabbia, che dannata e scellerata situazione si stava creando. Io ero immobile nel meditare, eppure i pensieri mi spingevano verso una direzione che sapevo d’essere sbagliata, folle, pazzesca e senza un barlume di senso né di significato: una donna normale avrebbe immediatamente chiamato la forza pubblica, pero io ero incuriosita e intrigata, più che allarmata e impaurita. Sapevo che lo avrei aspettato, mi sarei fatta trovare alle ventidue all’ora stabilita, ma che cosa ci saremmo detti? Che cosa avrebbe voluto farne lui di me? Inserii il CD nell’impianto stereo: era una musica grande, degna di nota, notevole, però un dato era certo: quel personaggio misterioso se ne intendeva eccome. Ecco, tutto quello che sapevo di lui, perché ascoltando la musica mi feci una doccia e mi preparai con minuziosa cura. Per che cosa? Per chi?
Io lo attendevo come una moglie adorante, dovevo essere impazzita, sennonché all’ora stabilita suonò il campanello. Cercai di non affrettarmi per aprire e iniziai a sentire le mie gambe cedere, avrei aperto bocca? Avrei almeno provato a chiedere spiegazioni? Aprii decisa la porta, in realtà me lo ricordavo più alto, ma molto meno attraente o forse erano i miei occhi a essere ormai completamente appannati da tutta una vicenda, che sembrava indistintamente uscita da un brutto romanzo, a quel punto gli chiesi:
“Come hai saputo qual era il mio cognome? Come hai fatto a entrare per lasciarmi il CD? Che cosa vuoi insomma da me? Sei il tipico individuo che non accetta un no come risposta, vero? Tu pensi che tutte le donne debbano srotolarti il classico drappo rosso?”.
Lui mi pose in mano un altro CD, mi sorrise rispondendomi con il suo naturale autocontrollo:
“Forse non tutte le donne come sostieni, però tu l’hai fatto. Io t’ho chiesto di farti trovare e tu sei qui. Dal profumo che emani capisco anche che volontariamente ti sei preparata per me: ascolta adesso questo disco e pensami come vuoi, come meglio credi”.
In seguito se ne andò, tenuto conto che la sua visita non durò più di tre minuti, però in quel minimo intervallo di tempo capii che lui m’aveva in pugno, in quanto avrei voluto che fosse capitato quello che avevo sognato. Come un automa, conquistata e raggiunta da un’eccitazione irrefrenabile, mi distesi sul letto ascoltando il nuovo disco che lui m’aveva regalato. Non era un disco di free-jazz, ma una specie di musica indiana suonata con il sitar e con una base ritmica assillante e crescente, impossibile e inattuabile non pensare a cose di sesso con una musica del genere.
Io mi spogliai già accaldata e incominciai a pensare a lui, come dal suo perentorio ordine. La mia mano placidamente arrivò tra le cosce, ero umida, ero eccitata, iniziai a masturbarmi seguendo il ritmo della musica, le mie dita premevano, si sfregavano, s’inserivano dentro di me, visto che non ci misi molto a lasciarmi andare in un orgasmo liberatorio tanto anelato confortandomi, che però non mi sarebbe bastato. Io pensavo a lui e lo desideravo dentro di me, lo volevo lì e ora, con me, su di me, io mi sentivo come una gatta in gabbia, però non capivo se volevo uscirne o se volevo essere chiusa là dentro a doppia mandata. Io avrei dovuto dapprincipio calmarmi, provando forse a bere qualcosa di fresco, volevo sentire il suo respiro sul mio collo, volevo toccarlo ovunque e farmi toccare da lui, volevo e basta, alla fine m’addormentai. Nel pieno della notte suonò il campanello, poteva essere soltanto lui, saltai con un balzo giù dal letto, mi coprii con la prima maglietta che trovai e aprii la porta, questa volta m’affrettai eccome, poi non dissi nulla. Sentivo il desiderio già salirmi dal ventre e mi girava la testa, lui entrò, trovò la camera e si sedette sul letto. Hai ascoltato la musica? Mi hai pensato? Io risposi di sì con un cenno della testa, però non riuscivo a guardarlo negli occhi e non riuscivo neanche a parlare:
“Fammi sentire se sei pronta, togliti la maglietta e stenditi sul letto a pancia in giù”.
Perché non riuscivo a dirgli di no? Avrei voluto dirgli di no, sennonché feci come mi chiese, mi stesi a pancia in giù mostrandogli le natiche alla luce dei lampioni che entrava dalla finestra. Io avevo il viso infossato nel lenzuolo, ero bloccata, non osavo ruotarlo per guardarlo in faccia, ma dai rumori che sentivo, captavo che si stava sfilando i vestiti. Lui si sdraiò al mio fianco, mi divaricò leggermente le gambe, inserendo la sua mano nella mia pelosa fica ormai totalmente inzuppata:
“Sei pronta per ricevermi?”.
Lui mi tirò a sé facendo scivolare le mie ginocchia sul pavimento, mi divaricò le gambe e si posizionò nel mezzo, aprì piano piano le mie labbra segrete con le mani e iniziò a sfiorarle con la punta del suo cazzo. L’attesa mi sembrava eccessiva, insopportabile, però non osavo chiedere d’essere penetrata. Lui mi stava manipolando con il suo cazzo e mi torturava facendomi delirare in maniera soave, meravigliosa. Io stringevo le lenzuola con le mani chiuse a pugno, cercavo di soffocare i gemiti nel cuscino, eppure non riuscivo più a contenermi, lui lo sapeva molto bene:
“Spingilo dentro, ti prego. Dai, infilalo fino in fondo”.
Lui in conclusione ascoltò accogliendo le mie lascive richieste assecondandole, tenendomi i glutei con le mani m’allargò bene e mi penetrò con un colpo secco. Io urlai dal piacere gemendo, strepitai di nuovo dimenandomi, lui affondava con dei colpi sempre più vigorosi, io avevo in quell’occasione le ginocchia che mi facevano male per il continuo sbattere sul pavimento, perché lui mi teneva per i fianchi con le mani, evitandomi di farmi avanzare, cosicché io gridai ancora. Quando lui gustosamente sborrò, sentii il suo seme inondarmi tutta, giacché ero totalmente esausta e sfibrata, però lo era visibilmente anche lui. Dopo si staccò da me, potei così voltarmi e risalire sul letto. Non dissi una parola e lo accarezzai sul petto, lui mi sfiorò le labbra con un dito e m’abbracciò teneramente, io non capivo, malgrado ciò mi sentivo candidamente e semplicemente bene:
“Adesso vado, al presente non ti servo più”.
“Dimmi almeno il tuo nome, dai aspetta” – lo invocai appigliandomi in tutti i modi.
“Vuoi realmente sapere chi sono senz’avere nessun’ombra di dubbio? Io sono il tuo dissoluto, istintivo e libertino inconscio”.
{Idraulico anno 1999}