“Il mio misterioso accompagnatore era né più né meno che il mio personalissimo Caronte…”
Sono passati molti anni ormai. Ripenso con tenerezza a ciò che ero.
Mi sentivo forte e maturo. Trasgressivo ed esperto. Ma con il senno del poi mi rendo conto che ero poco più di un cucciolo di lupo. Ero già cacciatore, sapevo già come vivere esperienze. Non avevo già allora paura di tutto ciò che è bizzarro. Mi mettevo già in gioco. I semi della perversione erano già germogliati nel mio cervello. Quel giorno stavo azzardando molto. Forse troppo. Mi chiedevo con un po’ di trepidazione e un pizzico di paura se non stessi facendo qualcosa di troppo pericoloso. Il demone però si era già impossessato di me. Quel demone che ti spinge sempre oltre. Quel demone che ti porta a inseguire i fantasmi senza briglie della tua immaginazione. Il percorso era stato lungo, iniziato ancora quando, ragazzino impacciato e introverso, sognavo di realizzare tutte quelle fantasie che prendevano corpo giorno dopo giorno. Dopotutto, perché no? Perché non cercare di vivere appieno, di gustare la mela del peccato senza fermarsi al primo morso? Era tutto così maledettamente fluido e naturale. Avevo scoperto che superare la linea d’ombra risultava molto facile. Dalla fantasia alla realtà . Bastava volerlo.
E così il demone si era lentamente impossessato della mia anima. La stava divorando morso a morso. Esigeva completa sottomissione. Riuscivo, sì riuscivo a mantenere controllo della mia vita. Avevo un lavoro, facevo sport, vivevo solo in un appartamento più che dignitoso nella grande città all’estero dove mi ero trasferito. Avevo fra 25 e 30 anni. Ed ero libero, indipendente, giovane. Però ero anche schiavo del demone. Lui mi spingeva a cercare ed accettare tutte le situazioni non banali, non scontate. C’erano anche gli incontri normali: un drink, il sesso a due che talvolta si prolungava e talaltra no. Ma non mi bastava; non mi poteva bastare. Volevo semplicemente trovare il limite. E non sapevo resistere una proposta ben formulata. Ero perfettamente conscio di tutto ciò. Mi ci abbandonavo senza resistere.
In quel treno mille pensieri mi attraversavano lo spirito. Quel treno regionale che di lì a poco mi avrebbe lasciato in una sperduta stazioncina alla periferia della grande e tentacolare città . Vi ero salito alla Gare Saint Lazare, alla fine di rue d’Amsterdam, che avevo raggiunto a piedi. Io amavo la faccia oscura di Parigi. Come sempre ero attratto dall’ombra. E mi ci stavo dirigendo. Dopo tanti anni, ricordo perfettamente il batticuore al momento di uscire di casa la sera. Era inverno, rivedo il buio. E avverto distintamente il batticuore, quel mix di euforia e paura che mi faceva sentire vivo. Nessuno sapeva dove stavo andando. Se mi fosse accaduto qualcosa nessuno avrebbe saputo come cercarmi. I miei amici storici e la mia famiglia erano a centinaia di chilometri. Non importava, non importava nulla. Pochi pendolari tardivi facevano ritorno nei loro dormitori di periferia. Io solo vi andavo con un obiettivo diverso.
Se chiudo gli occhi, rivedo perfettamente la stazioncina dove scesi. Anonima. Grigia. Pochi viaggiatori ne scesero e sciamarono via senza prestare attenzione a nulla. Persone normali che probabilmente tornavano a casa. Desideravano, o almeno così immaginai, solo il tepore ed il conforto delle proprie case. Tutti tranne me. Un uomo mi attendeva. Basso, insignificante. Era lì per me e mi attendeva. Un cenno di saluto sospeso fra l’imbarazzo e la timidezza. Salii con lui nella sua utilitaria malandata. Mise subito in moto e ci allontanammo. Fra noi poche parole furono scambiate. Probabilmente dopo essersi accertato che ero ben io quello che aveva visto in foto, non aveva bisogno di altro. Io non ero lì per lui. La strada divenne rapidamente una provinciale immersa nel buio. Ai lati argini boscosi e le fronde dei boschi intorno si stendevano su di noi. Poi, una luce. Un misero piazzale ospitava un modesto ristorante di campagna, poco più di una trattoria. Una banale trattoria di campagna con il suo parcheggio. Una sola finestra brillava. Una sola automobile era parcheggiata. Tutto intorno silenzio. Il ristorante era chiuso. Dentro c’era luce. Dentro c’era qualcuno per me. O, per meglio dire, io ero lì per qualcuno. Era la mia destinazione e la fine di quel viaggio. Il mio misterioso accompagnatore era né più né meno che il mio personalissimo Caronte. Certo, a modo suo era anche lui un diavolo. Ma in quel caso il suo ruolo era solo quello di traghettarmi dalla luce all’ombra. Di portarmi nel lussurioso inferno che mi era stato promesso. Aveva gettato lui l’esca, qualche giorno prima. Fra tutti i pesci caduti nella sua rete, aveva scelto me. Mi aveva giudicato, bontà sua, il pesce più interessante. Quello più agguerrito. Quello più adatto. Il Prescelto. Quello che intendeva offrire come regalo all’amica sua e della moglie
Cosa facevo lì? Perché ero in quel posto dimenticato da Dio e dall’aspetto vagamente equivoco. Chi mi attendeva all’interno? Avrei trovato ciò che mi era stato promesso? Avrei avuto brutte sorprese? Come unica magra precauzione avevo lasciato a casa portafoglio, orologio e catenelle. Pochi contanti nelle tasche. Che interesse avrei potuto rivestire per un ladro? Mi tranquillizzavo così. Ebbi tanti timori nei giorni precedenti. Ma non esitai mai. Non ebbi mai il minimo dubbio che sarei andato. Ero di fronte all’abisso? Certamente. Mi ci sarei gettato. Perché era la mia natura.
Ero stato contattato, come dicevo, qualche giorno prima. Il luogo dell’adescamento non poteva che essere il web, ricettacolo di ogni desiderio e di ogni trasgressione per coloro abbastanza coraggiosi o abbastanza folli da voler provare tutto. Era un mondo con le sue regole, dure e impietose. La crudele legge della domanda e dell’offerta obbligava ogni maschio a competere con le sue armi più affilate: bell’aspetto, brillantezza, sicurezza, sensibilità , ascolto, simpatia. Vae victi. Quel mondo non faceva prigionieri. Toccava indurirsi molto in fretta, capire come muoversi, capire come adattarsi istantaneamente alle situazioni ed alle persone che di volta in volta ci si presentavano. La concorrenza era spietata. Per ogni donna c’erano almeno 20 maschi. Vinci o muori.
Non era però una donna ad avermi abbordato. Era un uomo, il mio Caronte. E la sua sfida era di quelle che non si potevano in alcun modo rifiutare. Si poneva come intermediario per una sua amica. Anzi loro amica visto che a sua volta aveva una compagna. La loro amica era separata, così mi disse. Era forse troppo timida per esporsi in prima persona? Oppure era lei stessa intrigata dalla fantasia che mi illustrò? Ero solo uno strumento di un gioco da cui ero in realtà escluso? Benché fossi già esperto non avevo ancora del tutto acquisito la sensibilità di penetrare fino in fono le pieghe psicologiche del gioco. Mi bastava esserne co-protagonista. E non saprò mai la verità . Lui e la moglie si erano offerti come procacciatori. Cercavano un ragazzo che rispondesse ai suoi gusti. Per offrire a lei una serata di passione. Avevamo chiacchierato un po’ e lui aveva cercato di capire un po’ che tipo fossi al di là delle foto che gli mandai. Era questione di aspetto certo (nessuno fa beneficenza, tantomeno nel mondo scivoloso e superficiale delle chat). Ma era anche questione di modo di porsi. Era un vero e proprio casting: a quanto mi è dato di sapere fui prima inserito in un elenco ristretto, poi emersi quale incontrastato vincitore. Ignoro sulla base di quali caratteristiche. Io non vidi la donna, che chiameremo O come “Offerta” se non di spalle. Una massa di capelli biondi disordinati, una schiena sensuale. Mi bastò. Certo esisteva il rischio che di persona non mi fosse piaciuta. E sarebbe stato assai difficile tirarmi in dietro in una situazione come quella. Però ci andai perché era il gioco a intrigarmi al di là dell’aspetto di O.
Ma la cosa era ancora più perversa: O sarebbe stata bendata e non mi avrebbe visto. Capite ora perché il demone mi incitava così ferocemente? Come resistere a una sfida del genere? O per meglio dire, come poteva un uomo come me resistere a una tale sfida: Non ci provai neppure
Entrammo. Mi si presentò l’interno del locale, molto spoglio e semplice. Un divano letto aperto, bizzarramente incongruo rispetto all’ambiente. Non mi fermai però su questi dettagli; la mia attenzione fu calamitata dalle due persone che mi attendevano. Due donne. Una era una signora molto sensuale, la compagna del mio Caronte. Mi salutò gentilmente. L’altra era la donna per cui ero stato scelto come regalo. O indossava un vestito nero, degli stivali, quelle che mi sembrarono da subito delle autoreggenti. Era bendata. Sì, O era bendata perché questo faceva parte della fantasia e del gioco che i suoi amici avevano preparato per lei. Ero tutto surreale. Si alzò e ci stringemmo la mano. Capii ancora una volta ciò che davvero mi eccitava; il lato assurdo, il lato paradossale. Stringere la mano a una donna bendata, sapendo ciò che sarebbe accaduto. Lo sapeva lei; lo sapevo io. E la duplice consapevolezza mi dava le vertigini.
I due si dileguarono, dicendo di chiamarli alla “fine di tutto”. Scese il silenzio e fummo faccia a faccia. Chissà che pensieri attraversavano la sua mente? Chissà se era emozionata, se aveva paura. Chissà se era già eccitata. Lei voleva togliersi dall’imbarazzo e si avvicinò subito a me. Non era più tempo di convenevoli. Cosa avremmo mai potuto dirci? La sua bocca cerco subito la mia. Avida, intensa, divoratrice. La timida che si butta, perché non riesce più a gestire il turbine di emozioni che la squassa. Io ero lì per seguire la fantasia, e mi avventai con uguale foga. Le mani volavano in cerca di lembi di pelle scoperta. Doveva essere diretto e brutale e lo sarebbe stato. Mi alzai di fronte a lei, e il messaggio non avrebbe potuto essere più esplicito. Forse con l’esperienza che ho oggi le avrei ordinato di inginocchiarsi ma lì non osai. Andando a tentoni mi slacciò i pantaloni e iniziò a usare la bocca. Mi sorprese ancora la sua foga; e la sua profondità . Cercava di continuo di prenderlo fino in fondo. Non avvertii mai i suoi denti; la sua bocca rimase spalancata per farmi avvertire solo la morbidezza bagnata. Prima le labbra, poi la bocca infine la gola. Mi diede i brividi; presi sempre più l’iniziativa; sapevo di potermelo permettere. Le afferrai quindi la nuca con gentile fermezza e iniziai a spingermi. Non ebbe alcun problema ad assorbire e assecondare quell’assalto diretto. La trattenevo fino quasi a soffocarla, per poi darle tregua e vederla sbavare. Come una cagna. Poi toccò a me. La spogliai lentamente lasciandole solo le calze (sì, erano proprio autoreggenti!). Volevo essere all’altezza del piacere che mi era stato elargito. All’altezza della scelta. E, più banalmente, volevo darle piacere. Sentirla fremere. Volevo darle una serata che non avrebbe mai dimenticato; anche se solo una volta. Non smisi di tormentare il suo clitoride e la sua fessura. Continuai fino che i suoi spasmi si trasformarono in un orgasmo. O perlomeno quello che a me parve un orgasmo.
Quando la sentii completamente fradicia e aperta la volli penetrare. Le chiesi di mettersi a pecorina. Una frase breve e secca: “en levrette!”. Ho sempre adorato vedere quando la mia compagna di giochi si gira e si dispone in modo da essere montata. Adoro vederla offerta senza ritegno. Entrai senza fatica, le afferrai i fianchi… e iniziai a spingermi dentro di lei. Alternavo velocità e profondità . La possedetti senza ritegno, senza tregua. Fra noi c’era trasporto. Non potendo usare gli occhi, di certo gli altri suoi sensi erano amplificati. Odore, gusto, tatto, udito. Come le arrivavano i miei gemiti?
Quando venni uscii lentamente dal suo corpo e ci sdraiammo fianco a fianco. Le accarezzavo mollemente i fianchi mentre il nostro respiro lentamente rallentava. Colsi il suo tormento interiore. Cosa fare? Decisi di chiederglielo direttamente: “vuoi toglierti la benda?”. Silenzio. Esitò. Era così maledettamente paradossale. Lei doveva decidere se vedere il volto dell’uomo che l’aveva appena scopata. Poi lo fece. E il suo sguardo mi fece capire: i suoi amici avevano scelto bene.
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