“Il viaggio fu un vero spasso e le due ore volarono velocemente grazie a una chitarra e l’allegria tipica degli adolescenti…”
Quando frequentavo il liceo, era tradizione che tutti gli anni si passasse
una giornata in montagna, la cosiddetta “giornata bianca”. Durante questa mini gita ognuno di noi poteva scegliere quale attività svolgere lungo l’arco del mattino e del pomeriggio: slittino, discesa, sci di fondo e/o snowboard (si poteva scegliere di fare uno sport prima di pranzo e un altro dopo). Ora, qui lo ammetto e qui lo scrivo, io sono sempre stata una frana con ogni attività sportiva. Da vera snob, posso al massimo tollerare il tennis o il golf, gli unici hobbies che la mia famiglia ha tollerato vedere. In tv, bien sur. Dalla corsa alla pallavolo, per me erano veri incubi. Odiavo, in particolar modo, gli sport che prevedevano l’uso del pallone perché temevo che questo si impattasse contro il mio povero corpo (che ho sempre amato, ma ho sempre temuto che si potesse rovinare con ferite, contusioni, traumi…).
L’anno in cui frequentavo il secondo trimestre di quinta liceo, i docenti ci portarono a trascorrere la giornata bianca a Sestriere, in provincia di Torino. Ovviamente tutti i miei compagni avevano stabilito lo sport a cui dedicare le 6 ore sulla neve. La sottoscritta aveva optato per la sedia a sdraio (che avrei noleggiato in loco) e tanta lozione solare (poi con aria distrutta e consumata avrei raggiunto i compagni al bar per la cioccolata calda con panna). Il viaggio fu un vero spasso e le due ore volarono velocemente grazie a una chitarra e l’allegria tipica degli adolescenti. Per gli altri, non per me. Mio vicino di posto sul pullman fu il bel Francesco, talmente bello che era stato ribattezzato Francesso, per descrivere la sua latrinità estetica. Ogni 5 minuti mi chiedeva: “Letizia, ma quando arriviamo? “ e io a rispondergli: “Mica sono la cartina Michelin!”… E via per le due ore di viaggio. Arrivammo e vidi i miei compagni scaricare le loro attrezzature come delle furie: come giustificare tanta foga verso lo sport se non il desiderio di scaricare le energie e lo stress accumulati nei mesi di scuola, banchi e lezioni (e culi piatti)? Lasciai che i miei compagni si allontanassero, poi afferrai il mio zainetto. Presi la cipria Dior per usarne lo specchietto e la crema solare Lancaster che mi spalmai copiosamente sul volto. Mi sedetti sul bordo del vano portabagagli, per intenderci, quello spazio della pancia del pullman dove i turisti scaricano i borsoni e le valigie. Mi sistemai per benino la sciarpa, i doposci in pelliccia sintetica e mi misi gli occhiali da sole per salvare le mie povere retine dall’ira funesta dei raggi UV.
Ero assorta nei miei pensieri, quando l’autista del nostro pullman si avvicinò e si sedette di fianco a me.
“Ciao, non vai con gli altri?”, mi chiese.
“No, non mi piace praticare nessuno sport, quindi oggi cazzeggio”, dissi.
“Piacere, Carlo”, disse lui. Decisamente un bell’uomo. Circa 35 anni, alto, magro, capelli scuri, sembrava un po’ a Bon Jovi, anche se aveva un che di Jim Carrey… “E tu, bella bionda, come ti chiami?”
“Letizia”, dissi. Il suo riferimento al colore dei miei capelli mi fece ricordare che avevo dimenticato l’olio protettivo per i capelli. Cavoli! Chissà quale danno!
“E così fai niente tutto oggi… Ti va di passare un po’di tempo con me?”, disse lui, appoggiando la sua mano enorme sulla mia gamba.
“A fare cosa?”, chiesi. La mia pigrizia stava scemando… Avevo una strana voglia… da saziare immediatamente!
Infilò la sua mano sotto il mio piumino, e di lì scese lungo la schiena nuda verso il perizoma. Sfiorò il mio stringato indumento intimo e mi disse:
“Secondo te?”, odio che a una mia domanda si risponda con una domanda, ma intuii i suoi programmi nei miei confronti.
Ero sola con un autista di pullman in un parcheggio tra altri veicoli abbandonati. Chi ci poteva vedere? Chi ci poteva udire? Chi mi poteva giudicare? Per un po’ potevo essere spontanea e meno snob…
Carlo mi slacciò il bottone dei jeans e lasciò scivolare giù la cerniera. Sollevò la parte anteriore del mio perizoma e sbirciò il suo contenuto.
“Mmmh, hai una bella fighetta. Scommetto che è pure odorosa!”, disse lui e infilò la sua mano nelle mie mutande. Con poca grazia ravanò e tirò fuori la mano. Se la annusò e il suo volto si illuminò.
“Ho proprio voglia di scopare oggi…”, disse, “mettiti coricata tutta distesa in questo vano e poi chiudiamo. Stiamo qui io e te soletti…”
“Ok” dissi io e mi sdraiai.
Carlo mi sfilò completamente i jeans e nella penombra vidi che si era tolto la sua divisa di autista.
“Prendilo in mano, dai, fammelo diventare duro, di marmo!”, mi sussurrò.
Io non avevo mai preso in mano un pene prima di allora. Avevo una vaga idea di come fosse fatto, delle sue funzioni, ma mai sapevo come trattare ‘sto muscolo. O in alcuni casi, come imparai dopo, spesso un misero lembo di carne.
Con le due mani lo strinsi delicatamente, avvolgendolo tra le mie dita e iniziai a muoverle su e giù. Distesi le dita in modo da avere come appoggio per il suo ammennicolo tutta la lunghezza delle mie mani e continuai a strusciare. Il pene di Carlo divenne duro e il suo volume, rispetto a quello di partenza, triplicò. Avevo tra le mani un bel cazzo eretto. Carlo frugò nelle tasche, tirò fuori il portafoglio e sfilò un preservativo. Aprì l’involucro e si infilò la guaina di lattice lungo tutta l’asta del pene.
Si mise sopra di me e mi disse di aprire le gambe, così avrebbe infilato il suo amichetto (si, usò questo termine) nella mia figa fino in fondo.
“Non è che sei vergine?”, mi chiese lui.
“Si, per me è la prima volta”, risposi io.
Con un colpo di bacino mi infilò il suo pene interamente in vagina. Sentii un dolore atroce, mi si strinse la bocca dello stomaco.
“Cos’hai, bionda?”, chiese lui.
“Niente, solo che sono scomoda…”, inventai. Mai e poi mai avrei ammesso che non stavo godendo.
Per magia qualche ghiandola nascosta nel basso ventre iniziò a produrre del liquido lubrificante e il pene di Carlo iniziò a scivolare dentro e fuori con meno fatica (e meno dolore per me).
Mi sfilai il piumino, il maglione, la t-shirt e il Wonderbra e Carlo iniziò a leccarmi le tette, nell’incavo tra i seni. Il suo respiro sulla pelle creava in me ancora più piacere.
Vidi Carlo contorcersi e ad un trattò cacciò un grido di piacere. Era venuto. Si allontanò da me e dal mio corpo.
“Ti è piaciuto?”, mi chiese sfilandosi il preservativo, annodandone l’estremità e cacciandolo nella tasca della giacca.
“Mmmh, si, direi di si”, risposi… ma poco convinta.
“Vieni qui… che ora ti metto io ko e ti faccio venire in quattro e quattro otto!”, disse e mi fece distendere di nuovo.
Tirò fuori un beauty case da uomo e Carlo afferrò uno spazzolino da denti elettrico (Cara Claudia Gerini, sei convinta che il tuo spazzolino da denti serva solo per un sorriso smagliante?) e me lo appoggiò sul clitoride. Lo azionò e con le dita della mano libera divaricò le mie grandi labbra. Dopo pochi secondi sentii una sensazione di calore in tutto il corpo, i miei muscoli iniziarono a tremare e persi il contatto con il resto del mondo. Un liquido mi uscì copioso dalla vagina (era pipi? Mi chiesi, ma solo con gli anni capii che era quel dono divino detto “squirting”) scendendo lungo le gambe e finendo sul pavimento del vano portabagagli.
“Mmmh, sei venuta. Ma era la tua prima volta per tutto?”, mi chiese Carlo.
“Si”, risposi, “E ho provato un enorme piacere grazie al tuo spazzolino elettrico”.
Iniziai a rivestirmi, certa di comportarmi in modo snob.
Mi infilai il perizoma, i jeans, il reggiseno, la t-shirt e il maglione. Afferrai il piumino e aprii il portello del vano portabagagli. Mi infilai i doposci che avevo lasciato fuori.
Grazie a uno spiraglio di luce vidi Carlo che ancora giaceva nudo. Si stava masturbando.
“Sto pensando alle tue tettine, a come mi piacerebbe sverginare il tuo bel culetto teen-ager…”, disse tutto infoiato.
“Ciao, io vado a prendere il sole”, dissi e, dopo essermi sollevata da seduta, tirai giù lo sportellone per lasciare lì il mio primo amante.
“Ciao”, disse lui.
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