“Così avvenne che un giorno di un mese di giugno mi ritrovai davanti una Silvia sempre ben paffuta ma con una luce diversa negli occhi, un modo un po’diverso…”
galleggiavo in quel mare vasto fatto di odori muscosi, sapori aspri, sudore
scivoloso. Galleggiavo tra la veglia e il sonno e allungando una mano trovai il corpo forte di Silvia; lo scorsi con le dita come a sincerarmi che non fosse il solito sogno fatto tante volte nel sonno e anche durante le ore di veglia.
Eravamo poco più che bambini, Silvia ed io, abitavamo in case adiacenti e giocavamo insieme.
La figlia dell’oste e il figlia del sarto di un paesino dell’Emilia che avrei presto abbandonato.
Lei paffutella e mora, io biondino e smilzo. Lei diavoletta indisciplinata io che le stavo dietro a fatica e che condividevo le sgridate e le punizioni per le marachelle che insieme combinavamo ma, quasi sempre, erano frutto della sua fantasia.
Dopo il mio trasferimento in città passavamo insieme un paio di mesi in estate.
Io venivo mandato dalla zia che abitava la stessa casa che avevano abitato i miei e così proseguiva quel contatto, passavano gli anni, l’infanzia, cambiavano i giochi fino a quando non cominciò a cambiare anche lei.
Così avvenne che un giorno di un mese di giugno mi ritrovai davanti una Silvia sempre ben paffuta ma con una luce diversa negli occhi, un modo un po’diverso di muoversi. Non quanto lei ma ero cambiato anche io e non mi sfuggirono le sue tette prorompenti sotto il tessuto delle magliette e, oggetto delle mie inquietudine da cui quasi non riuscivo a staccare gli occhi, due larghi capezzoli che si vedevano in trasparenza e che si inturgidivano spesso tendendo il tessuto offrendosi sfacciati alle mie occhiate.
I giorni che passavamo insieme erano un tormento. Avevo il cazzo tutto intorpidito dalle numerose seghe che mi facevo pensando a lei. Quante ore passate in bagno! Quante volte la zia veniva a bussare chiedendo cosa diavolo facessi, se c’ero cascato dentro e amenità simili.
Poco più che bambino, non riuscivo ad immaginare una richiesta chiara, una strategia di seduzione, qualcosa, insomma che potesse confermare le mie speranze o levarmele e così i giorni passavano con lei che, chiaramente, troieggiava con me ma senza dare mai un appiglio sicuro per la mia scarsa intraprendenza.
Il pomeriggio, subito dopo pranzo, gli adulti sprofondavano nel sonno della calura padana. Il paese intero sembrava fermarsi e noi due ci trovavamo nell’osteria che suo padre le affidava per quelle ore morte. Tanto non ci veniva nessuno. Ci mettevamo ad un tavolo e giocavamo a carte accarezzati dalla penombra verdognola donata da una tenda appesa sull’uscio del negozio. Un giorno finalmente i nostri piedi si sfiorarono sotto il tavolo e rimasero a contatto. Col cuore impazzito prolungai quel momento con un carezza, piede contro piede, e poco dopo lei interruppe la vicinanza per levarsi i sandaletti estivi. Continuammo ad accarezzarci i piedi e… a giocare a carte come se nulla fosse. La nostra difesa verso l’emozione che ci travolgeva. Non credo che il gioco fosse molto attento, di sicuro il MIO non lo era. Sentivo la sua pelle morbida tanto a lungo desiderata, sentivo che accettava questo nuovo gioco, sentivo il mio cazzo farsi sempre più duro e sentivo che le carezza dai piedi erano passate ai polpacci, che il terreno dei sensi si allargava sempre più fino a che lei, con mossa veloce portò il piede sul mio pacco.
Avevo perso ormai la testa, tremavo, era la prima persona da me desiderato e che mi riservava delle attenzioni esplicitamente sessuali e tutto il mio corpo si tendeva verso ciò che era quasi sconosciuto ma esercitava un’attrazione potente, istintiva, animalesca.
Lei disse, un po’ roca: “Senti come respira…” parlando del mio cazzetto impazzito sotto i calzoni corti e io portai il mio piede verso il suo inguine. Allargò appena le gambe, si spinse un po’ in basso col culo sulla sedia per facilitarmi e per la prima volta sentii, sotto il tessuto delle sue mutandine la morbidezza di quello che doveva essere il suo acerbo cespuglietto e, istintivamente, cominciai a carezzarla con movimenti rotatori del piede .
Zitti, ammutoliti dalla scoperta del piacere, dalla emozione devastante della scoperta dei corpi, ci guardavamo negli occhi e continuavamo a reggere in mano tre carte per uno per un gioco che non ci interessava più.
Rumore! I passi di suo padre che rientrava dopo il riposo! Sobbalzammo come percorsi da una scarica elettrica e le nostre gambe tornarono in un istante dove “dovevano stare”. Il cuore in bocca, i volti infiammati dall’eccitazione scoppiammo a ridere un po’ isterici e il padre di lei ci guardò con aria un po’ severa… ma non eravamo che due pre adolescenti che giocavano a carte. Nei giorni seguenti…. continua?
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