“Per questo motivo il genere è diverso in ogni capitolo, ma per tenerlo tutto insieme inserirò tutti i capitoli nel genere “prime esperienze, anche se avremo…”
Questo è un romanzo, e, come tale, di fantasia. Ma dentro ogni
capitolo è stata inserita una storia autentica ed autobiografica. Per questo motivo il genere è diverso in ogni capitolo, ma per tenerlo tutto insieme inserirò tutti i capitoli nel genere “prime esperienze, anche se avremo esperienze di altro genere. Spero che vi piaccia.
Capitolo 1 – Amore fraterno.
Un grande affiatamento aveva sempre legato Anita e Guido, fin da quando erano molto piccoli. Quando poi lui aveva tre anni, e lei ne aveva già otto, mentre giocava con gli altri bambini dell’asilo, Guido era scivolato in spaccata su qualcosa di scivoloso (dissero un pezzettino di scorza di banana) e si era rotto il femore della gamba destra. In quei tempi, la medicina non aveva ancora fatto i progressi di oggi, e nel loro piccolo paese, poi, era già tanto che ci fosse un Ospedale circondariale. Lo portarono in quell’ospedale e gli ingessarono la gamba. Dovette stare per quaranta giorni immobile, a letto.
Alla fine venne a casa il medico di famiglia. Di solito era un buon medico che conosceva il suo mestiere. Aveva buone capacità diagnostiche ed una consolidata esperienza operativa, purché lo si utilizzasse nella mattinata. Ma era pomeriggio e, come al solito, costui aveva consumato, a casa sua, un lauto pranzo abbondantemente innaffiato da vino della sua campagna, vino rosso che, nelle annate discrete, raggiungeva un tenore alcolico di sedici-diciotto gradi.
Non era la prima volta che si presentava in tale stato, di pomeriggio. Ne aveva fatto le spese una cuginetta di Anita e Guido, Sara, che aveva accusato dolori nella zona destra del ventre. La bimba aveva dieci anni ma era assai più matura della sua età; dopo aver dichiarato al medico i sintomi, aveva azzardato l’ipotesi che si trattasse di appendicite. Il dottore la prese un po’ in giro, pensando che la bambina volesse darsi delle arie con una malattia importante. Le chiese se avesse mangiato della frutta acerba, e malgrado la sua risposta negativa le aveva prescritto: “prenditi una bella purga, e vedrai che domattina non avrai più nessun dolore”. Il pomeriggio del giorno dopo Sara moriva per un attacco di peritonite. Allora non era di moda denunciare i medici per errori letali, e quello continuò ad essere il medico di fiducia della famiglia.
Trascorsi, dunque, i quaranta giorni di prammatica, il medico venne per togliere l’ingessatura a Guido. Forse non si fidava della stabilità della sua mano, per cui non adoperò, come solevano fare tutti, la lametta da barba. Ma si fece dare una forbice da potatore e, inseritane una punta nell’orlo alto dell’ingessatura, cominciò a tagliare verso il basso. Tutto andò quasi bene: solo due volte il dottore riuscì ad infilzare la punta della forbice nella coscia del bambino, ma alla fine il gesso venne via e le ferite furono medicate e tamponate con un po’ di cotone idrofilo e di garza.
Sennonché, vuoi per la forzata immobilità di quaranta giorni, vuoi per il fatto che, non usandosi allora di mettere l’arto in trazione, la riduzione della frattura (come poi si scoprì col tempo) non era stata perfetta, malgrado la tenerissima età del bambino, comunque Guido, quando tentarono di rimetterlo in piedi e farlo camminare, non ci riusciva più da solo. Dovettero rieducarlo a camminare, come quando aveva un anno, e tale compito venne assunto dalla sorella maggiore, Anita appunto, che già aveva i suoi otto anni e che era legatissima al fratellino.
Si creò un sodalizio ammirevole tra i due. Ogni volta che usciva a passeggio o per altro svago, Anita si portava dietro Guido, anche se doveva uscire con le sue amiche. E se queste si lamentavano per la pastoia che il piccolo rappresentava ai loro divertimenti di signorinelle, Anita decisamente si schierava dalla parte del fratello e dava alle amiche l’ultimatum: o con Guido o facessero a meno di lei. E siccome Anita era l’anima della comitiva, quelle a malincuore cedevano.
Ed infatti, da piccolo, Guido crebbe quasi sempre in compagnia di bambine più grandi di lui, amiche della sorella, oppure giocava con lei a casa. Stavano sempre insieme. Avevano anche scoperto come andare nei solai di casa, dove, in particolare, c’era una stanza col pavimento diritto (le altre lo avevano a volta, ma quella stanza era stata costruita posteriormente) ed il tetto abbastanza alto da poterci stare in piedi. Lì avevano trovato anche un rimasuglio di piastrelle per pavimento ed Anita che, incoraggiata anche dalla mamma, era istintivamente portata ai lavori casalinghi, aveva combinato una specie di stanzetta per le bambole, che lucidava a specchio, sulla quale sistemava i mobili giocattolo che esistevano in abbondanza perché il papà era stato un esperto di traforo e di bricolage (anche se allora non si chiamava ancora così), ed aveva costruito bellissimi mobili in miniatura: un armadio con l’anta artisticamente traforata e lo specchio, un salotto composto da divano, due poltrone, un tavolinetto ed un mobiluccio intagliato; una stanza da letto che, oltre al suddetto armadio, comprendeva un letto a due piazze, due comodini e due sedie in tutto legno.
Poi Anita aveva combinato un fornello a carbone, come usava allora, con due blocchetti di mattone ai lati e due spiedini in ferro appoggiati trasversalmente, sul quale fornello, regolarmente acceso, poneva un tegamino con dell’acqua a bollire nella quale poi cuoceva un po’ di pasta. Insomma, una casa giocattolo in miniatura, con la quale i bambini passavano il tempo lietamente, senza sentire la necessità di andare troppo spesso a giocare fuori di casa.
Passavano gli anni, e loro crescevano sempre insieme, legatissimi nei giochi e nelle cose serie.
I genitori lavoravano entrambi, e quindi assai spesso i due ragazzini restavano da soli in casa, ma tutto procedeva con sicurezza e tranquillità, perché Anita cresceva assai giudiziosa e sapeva badare al fratellino come una brava mammina.
Un pomeriggio d’estate, dopo pranzo, i genitori erano entrambi al lavoro. Loro erano da soli in casa. Faceva caldo ed erano stanchi dei giochi della mattinata. Anita prese una morbida coperta matrimoniale e, ripiegatala un paio di volte, apparecchiò un comodo giaciglio sul pavimento della sala, dove c’era spazio a sufficienza. Si sdraiarono entrambi e si addormentarono. Avevano, a quel tempo, lei dodici o tredici anni, lui setto od otto.
Ad un certo punto Guido, che nel sonno era sempre irrequieto, si ritrovò appoggiato addosso alla sorella, la quale, per non svegliarlo, non si mosse ed anzi fece in modo che il bambino continuasse a stare comodo. Un ginocchio di lui era andato a finire tra le gambe di lei, la quale, forse istintivamente, le tenne leggermente larghe, in modo che quella gambetta potesse salire ancora più in alto, forse anche per farla stare più comoda, appoggiata sul morbido della coscia. Ma anche lui, nel sonno o nel dormiveglia, sentì il bisogno di accostare la propria coscetta sempre più in alto, fino a strofinarsi al cavallo delle mutandine di lei. Lei strinse le gambe istintivamente, sentendo una gradevole sensazione che quel contatto provocava da qualche parte nelle sue viscere.
Probabilmente qualche amica le aveva parlato dei piaceri del sesso; forse qualche ragazzino le aveva già fatto provare qualche gradevole struscio o l’aveva abilmente accarezzata; il bambino, peraltro, non era nuovo a questi giochetti sessuali. C’erano infatti due sorelline, figlie di un vicino di casa, una di sei anni (Laura) ed una di otto (Pina; lui allora ne aveva sette) che a turno gli avevano insegnato il gioco del dottore. E la più grandicella, un pochino ritardata e che parlava biascicando, gli diceva sempre, mentre lui la … visitava: “a mia mi piraci!” [a me mi piace].
Lui, dunque, sapeva quello che stava facendo, ma non si rendeva conto se il comportamento della sorella fosse involontario o era un incoraggiamento a proseguire. Ambedue facevano finta di dormire e, intanto, lo struscio continuava, anzi andava avanti con sempre maggiore intensità, finché lei, non resistendo più, gli tirò fuori il pistolino, eccezionalmente voluminoso e duro per un bambino di quell’età, e, scostato il cavallo delle sue mutandine, se lo infilò dentro la vulva, muovendosi avanti e indietro e realizzando una autentica scopata. A quel punto non potevano più far finta di dormire e di non capire. La cosa divenne palese fra di loro e, da quel giorno, ogni volta che fu loro possibile, fecero l’amore.
Di solito era lei che prendeva l’iniziativa. Gli aveva insegnato a sdraiarsi supino e lei si sdraiava sopra di lui e dirigeva le operazioni, anche perché lui, che era abituato a procurarsi l’orgasmo già dall’età di cinque anni masturbandosi (glielo aveva insegnato un ragazzo diciottenne, un certo Bruno, che gli aveva anche insegnato a masturbare lui, ma che molto prudentemente non lo aveva mai violentato), con quell’andirivieni lento che usava lei, non provava nessun piacere, se non uno stato di continua eccitazione che glielo teneva perennemente duro; lei, invece, sapeva bene come dirigere il bastoncino di lui nei punti giusti e, con quel movimento lento ed esasperante, dopo alcuni minuti si trasformava in viso, diventava paonazza, gli occhi le si illanguidivano e si buttava di lato stanca e soddisfatta.
La cosa durò alcuni anni, e forse sarebbe potuta andare avanti per parecchio, se motivi familiari non avessero indotto i genitori ad invogliare Guido ad andare in collegio, dopo le scuole elementari.
Lo stare in collegio, dove, fra l’altro, imparò tante altre malizie sessuali da fare con i compagni (ce n’era uno, che si chiamava Nino, che lo faceva impazzire di desiderio), lo allontanò dalla sorella non solo fisicamente, ma anche perché cominciò ad imparare che certe cose non si devono fare con la sorella, perché è peccato mortale e si va all’inferno.
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