Tutti al mare!
Le valigie erano già state sistemate nel bagagliaio.
Il pieno l’avevo appena fatto, cinquanta euro cinquanta che ancora facevano piangere il portafogli.
Mancavano solo i miei, che stavano ciabattando in casa, immersi negli ultimi preparativi prima della partenza.
Dopo un quarto d’ora, finalmente, uscirono in militaresca fila indiana, con stampato in faccia il contagioso sorriso dell’italiano in ferie.
Capeggiava l’allegra brigata mio padre Giovanni, il ‘Clooney dei poveri’, come lo chiamavo io: un metro e ottanta e qualcosa, occhio glauco, capello brizzolato, pancetta prominente che cercava di ammazzare sul tapis-roulant e un’aria da distinto commercialista di provincia, che non dispiaceva affatto alle signore.
Lo seguiva mia madre Lucia.
Che dire di lei? Una vaga somiglianza con la Deneuve , restando in ambito cinematografico. Appena lasciata la quarantina, si era addentrata a testa alta nella maturità incipiente.
Curava la propria persona in modo maniacale, come una giovincella da marito, e gli effetti delle attenzioni che si concedeva saltavano subito all’occhio. I lunghi e lisci capelli biondi incorniciavano un volto dalle perfette proporzioni, appesantito in modo impercettibile dagli anni che avanzavano inesorabili. La pelle bianchissima esaltava gli splendidi occhi scuri, che colpivano per l’espressione di estrema dolcezza, quale si può vedere in certe madri intente ad allattare il loro bambino.
Le sue forme erano piene, rassicuranti,come nelle Madonne del Cinquecento.
Veniva per ultima, barcollando su dieci centimetri di tacco, mia sorella Roberta: diciott’anni, alta e spigolosa come una puledra, una cascata di riccioli biondi su un viso sbarazzino, che mette allegria.
Ah, scusate, ci sono pure io’piacere, Davide’
Io non assomiglio a nessun attore americano (a parte forse John Holmes’ah’ah’ah’, ma questa è un’altra storia), e quindi non vi tedierò ulteriormente descrivendomi.
-Finalmente il re, la regina madre e la principessina si sono degnati di scendere!-, sbottai, appena li vidi. Fui completamente ignorato.
Salimmo velocemente in auto e partimmo: papà alla guida e mamma di fianco a fargli da navigatore, mentre io e la mia sorellina srotolammo le nostre lunghe gambe nell’ampio spazio posteriore della monovolume.
Circa trecento chilometri, tre caffé, due coche, quattro panini con la porchetta, cinque sigarette, due pisciate, due uscite sbagliate e un numero indefinibile di bestemmie più tardi, arrivammo finalmente alla ‘Pensione Pinuccia. Gestione famigliare e cucina casalinga’, come recitava la triste e sbiadita insegna che campeggiava vicino all’ingresso.
L’odore penetrante del mare, che a un centinaio di metri di distanza insisteva nel suo eterno mormorio, ci accarezzò le narici, appena scesi dall’auto.
Scaricammo i bagagli ed entrammo in quella che, un po’ pretenziosamente, mio padre chiamava hall.
Le ‘esse’ e le ‘zeta’ della signora Pinuccia, zuccherose e amabili come solo in Romagna si possono sentire, ci investirono come una raffica di bora.
-Mo’ buongiorno, signori B****o’ mo’ bene arrivati anche quest’anno. Viaggiato bene?-,ci salutò, da dietro il bancone.
-Ottimamente, grazie-, rispose papà , posando le valigie.
-Mo’ che bella famigliola’e che bei ragazzi! Come si son fatti grandi-, cinguettò la vecchia albergatrice, osservando me e mia sorella. ‘Del resto, hanno preso dai genitori’-, proseguì maliziosamente, occhieggiando i miei.
-Mah’non esageriamo’-, si schermì mia madre, arrossendo visibilmente.
La signora Pinuccia, grassa e allegra come me la ricordavo negli ultimi vent’anni, di un’età indefinibile tra le trenta e le settanta primavere, si voltò verso la griglia alle sue spalle, dalla quale prese tre paia di chiavi.
-Allora-, disse sorridendo ai miei genitori,- alla coppietta in luna di miele’ la camera numero quattro, come tutti gli anni.
-Al ragazzone-, continuò porgendomi un’altra chiave,- la numero cinque, mentre alla signorina la numero sei-, terminò, consegnando l’ultima chiave a mia sorella.
-Meno male!-, miagolò Roberta,- quest’anno ho voluto a tutti i costi una camera tutta per me. Sono stufa di passare le notti in bianco, a sentir russare mio fratello!
Mi rifilò una non molto amichevole pacca sul sedere, mostrandomi la lingua.
E portammo finalmente le valigie in camera, risparmiando la fatica al vecchio signor Felice, il tuttofare della pensione, che probabilmente avrebbe reso l’anima dopo la prima rampa di scale.
La prima giornata di mare fu di un’appiccicosa e rassicurante banalità , che sarebbe piaciuta a Gozzano: pomeriggio in spiaggia, ad abbrustolire al sole i nostri pallidi corpi cittadini ; cena alla pensione Pinuccia, tra cappelletti, fritturina e lambrusco ; gelato e passeggiata serale sul lungomare del vicino paese, ad ingrossare il gregge dei turisti.
Verso le undici di sera, stremati dal riposo, il rossore sul viso che tradiva, neanche fosse una colpa, il primo giorno di ferie, ce ne tornammo in albergo e ci rintanammo nelle nostre camere.
La quiete assoluta, disturbata solo dal bisbigliare lontano della risacca e da qualche grillo che amoreggiava nella vicina pineta, non durò a lungo, al primo piano della pensione Pinuccia.
Dopo circa un’ora, passata a rigirarmi nel letto, oppresso dal caldo e da altre incontenibili esigenze, mi alzai.
Aprii piano la porta e uscii nel corridoio, appena rischiarato da una falce di luna calante, i piedi silenziosi sulla vecchia moquette odorosa di pioggia e sale.
Mi avvicinai furtivamente alla camera n’6, bussando piano.
-Si?-, rispose una vocetta squillante,- chi è?
-Sono io’-, mormorai, con le labbra che sfioravano la porta.
-Che vuoi ?-, rispose mia sorella, con tono beffardo, conoscendo benissimo i miei desideri.
-Ci facciamo un po’ di’di’di compagnia? Vuoi?-, balbettai, cercando le parole che meno l’avrebbero indisposta.
-Uffh’è tardi, ho sonno, e poi la conosco la tua compagnia’-, borbottò sospirando forte, scocciata.
-Dai sorellina’-, sussurrai, l’erezione indomabile che mi rendeva temerario. ‘Questo pomeriggio-, proseguii, – in spiaggia, avevi quel due pezzi nero’mi stavi facendo impazzire. Daiii, fammi entrare, ti prego!
Il tono della mia voce, zuccheroso e patetico, incrinato come quello di un bimbo che ha appena combinato qualche marachella, dovette convincerla.
Sentii un felpato rumore di passi all’interno della camera, la serratura che scattava e mia sorella che squittiva piano: -Entra! Ma non stare qui molto, ho sonno!
Mi fiondai nella cameretta, in tutto e per tutto uguale alla mia, eccetto per l’odore di vaniglia che l’impregnava, e chiusi a chiave la porta.
-Sempre arrapato’-, miagolò Roberta, in slippini e reggiseno rosa, gettandosi sul comodo letto matrimoniale.
La raggiunsi, con la rapidità di un cane da punta che senta vicina la lepre, lo stomaco in subbuglio per l’eccitazione.
-Oggi, in spiaggia, non ce la facevo più: sarò andato a farmi dieci bagni, per calmarmi’eri fantastica’-, bofonchiai, iniziando a carezzarle le cosce.
Lei lasciava fare, lusingata dal complimento.
Avvicinammo le nostre bocche e prendemmo a baciarci piano, languidamente, guardandoci negli occhi.
-Mmh’sei buona, sorellina-, mormorai, staccandomi un attimo per slacciarle il reggiseno.
I piccoli seni, pallidi e sfrontati, svettarono in tutta la loro freschezza.
I capezzoli, se confrontati alle dimensioni delle mammelle, erano enormi, rosei e carnosi come tulipani.
Le nostre lingue giocarono a lungo, nella penombra della stanza, pregustando ben più intensi piaceri. Abbandonai la sua bocca solo per scendere dolcemente lungo la delicata pelle del collo, e raggiungere il tenero petto impaziente.
Iniziai a succhiarle delicatamente. i seni, bambinone di due metri immerso nella poppata, cullato dai gemiti soffocati della mia sorellina, che ad occhi chiusi si beava delle mie attenzioni.
La lingua guizzante orchestrava la sua sinfonia, sulle acerbe mammelle di Roberta: i capezzoli divennero ben presto turgidi ed eretti, mentre lei, il rossore del viso intensificato dal piacere, mi carezzava la schiena.
Scesi con la bocca lungo il petto e lo stomaco, con la barba che solleticava la sua pelle setosa e profumata, facendola ridere piano.
Arrivai al pube, dove un rado boschetto castano invitava a proseguire verso il fiore sottostante, rorido e socchiuso, invitante.
V’insinuai la lingua, incamminandomi tra le morbide labbra, che si aprivano come una gemma al primo sole del mattino.
Trovai ben presto il bocciolo più sensibile, celato nella profondità delle sue carni, che iniziai sapientemente a stimolare con la lingua, instancabile. Roberta mugolava sempre più forte, carezzandomi e tirandomi i capelli, quando le ondate di godimento si facevano insopportabili.
Balbettava parole incomprensibili, ad occhi chiusi, sospirava, roteava il bacino, lanciava gridolini, sbuffava: godeva’come un’invasata, tormentata dal pungente piacere che le procuravo.
Con la lingua ormai dolorante ed il membro in fiamme, stavo per sollevare la bocca dal fiero pasto (ahh’Dante!), cercando altri sentieri che la portassero all’estasi, quando avvertii un cambiamento, brezza improvvisa sul mare in bonaccia.
Roberta si irrigidì, iniziando a tremare, stringendomi la testa tra le cosce bollenti.
Mi piantò le unghie tra i capelli, da farmi male, e lanciando un grido strozzato, che risuonò nel silenzio sepolcrale come un colpo di pistola, intravide il solo paradiso che a noi mortali è concesso su questa terra.
E sentii, finalmente, l’inconfondibile afrore del suo nettare pervadermi la gola.
-Oddio è’è’sìì’basta’-, miagolava , la voce rotta come se piangesse.
Toc-toc’toc-toc’toc
Qualcuno bussava alla porta, timidamente.
‘E che è’, pensai, già colto dal panico, ‘avremo mica svegliato qualcuno?’.
-Si, chi è ?-, rispose prontamente mia sorella, con la rapidità e la finta noncuranza che solo una donna sa mostrare, lasciando l’empireo e tornando alla scialba realtà della pensione Pinuccia.
-Sono io, papà ’-, sentii sussurrare dolcemente,- ho voglia della mia bambina’
-Ma papà , è tardi-, rispose Roberta, guardandomi con indifferenza.
Io ero allibito, rintronato da quella inaspettata rivelazione, timoroso di essere scoperto e anche, a dire il vero, piuttosto eccitato: me ne stavo a bocca aperta a fissare alternativamente la porta e mia sorella, come un idiota.
-Solo un po’, Robertina’-, guaiva il vecchio, la voce concitata che tradiva l’impazienza. ‘Mi avevi chiesto la macchina nuova. Se fai la brava’
‘Hai capito’, pensavo, ‘il papino e la sorellina scopano, e vantaggi per tutti, come ai grandi magazzini !’.
A quelle parole l’incertezza di Roberta si dissolse, come brina a mezzogiorno.
– Va’ sotto il letto’e zitto-, sibilò,- o la rivedi quando i peli saranno bianchi, che papà non sa niente di noi due !-, terminò, guardandosi la micetta che avevo appena soddisfatto.
‘Avida di una troietta!’, pensai furioso; ma non protestai, timoroso di perdere le sue grazie.
Mi rintanai sotto il letto, pavido, il membro ancora teso e affamato, bestemmiando tra i denti.
Mia sorella si alzò, si guardò un attimo allo specchio, ravvivandosi i capelli (la puttanella !), e andò ad aprire.
Udii lo schiocco di un bacio, mentre mio padre entrava.
Ad un tratto vidi le gambe affusolate di Roberta sparire: il vecchio l’aveva presa in braccio, e raggiunto barcollando il talamo peccaminoso sotto il quale origliavo, ve l’adagiò.
-Mmh’la mia Robertina-, sospirava,- che fa la ritrosetta, e vuole lasciare solo il suo papà , la prima notte di vacanza’
-No, non è vero-, uggiolò la cagnetta, odorando l’osso (ovvero una fiammante cabriolet che la tentava da qualche mese, dalla vetrina dell’autosalone).
Dalla posizione in cui mi trovavo non vedevo nulla, ma i suoni inequivocabili che udivo, amalgamati alla mia fantasia galoppante, mi permettevano di leggere la scena che, pochi centimetri sopra la mia testa, i due attori stavano interpretando.
Piccoli schiocchi, rumore di baci, fruscii di corpi nudi che si accarezzavano, parole incomprensibili sussurrate con voce roca: tutto questo contribuì a portare all’apice la mia eccitazione.
L’erezione si era fatta dolorosa, mi mordeva il cervello, spronandomi al rischio.
Mi spostai verso la parte del letto più lontana dalla coppia in amore, e allungando la testa fuori, come una testuggine, guardai verso l’alto, cercando di vedere qualcosa.
Niente!
-Dai amore, ciucciamelo un po’-, sentii mio padre mugolare, con voce supplichevole.
Era troppo. Dovevo ad ogni costo rubare qualche immagine di quel proibito amplesso. Ormai ragionavo solamente col bastone di carne fremente che scalciava furioso negli slip.
Mi spostai ulteriormente verso l’esterno, e allungando il collo all’inverosimile, sollevando al contempo il capo, vidi appena in tempo mia sorella inghiottire la tutt’altro che disprezzabile verga paterna, nella penombra della stanza rischiarata dalla debole luce dell’abat-jour.
Dall’espressione estatica di mio padre, che ad occhi chiusi gustava la sapiente bocca della figlia, capii che difficilmente si sarebbe accorto della mia presenza.
-Oh cazzo! Come lo ciucci, bambina’-, biascicava il vecchio porco.
-Mmh’aggh’per la macchina’quando ci andiamo, dal concessionario?-, farfugliò mia sorella, facendo uscire l’asta tesa dalla bocca, e lasciandola sapientemente a fior di labbra.
-Quando vuoi amore’quando torniamo a casa! Ma succhialo’così, dai, continua’-, ansimava mio padre.
La troietta aveva il coltello dalla parte del manico, ora.
Ingoiò nuovamente l’impaziente virilità che l’aveva generata, fino in fondo, lambendo con le labbra il peloso pube di papà .
Cominciò a muovere la testa con arte sopraffina (anch’io ne sapevo qualcosa!), frullando la linguetta impertinente su ogni centimetro della tesa e paonazza asta del vecchio, che grugniva come un porco al trogolo.
-Basta, basta’-, balbettò mio padre, ad un tratto. ‘ Sei troppo brava, devi aver imparato da tua madre’così vengo subito!
Spinse bruscamente indietro la testa di Roberta, e l’adagiò supina. Prendendola per le caviglie, le spalancò le cosce, mentre mia sorella gli sorrideva maliziosamente, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Fece per avvicinarsi all’ancor acerba fanciulla che gli si offriva, quando la sciacquetta mormorò, timidamente: -Aspetta papà ’il preservativo’sai, non vorrei che’sono nella mia borsetta.
-Certo, certo tesoro. Dopo la paura che ci siamo presi l’anno scorso’meglio non rischiare ! -, convenne mio padre, che doveva aver passato parecchie notti in bianco, terrorizzato.
Mi rintanai nuovamente quando, dopo che fu sceso dal letto, lo vidi armeggiare nella borsa posata su una sedia vicina, estrarre un dischetto di lattice e infilarselo impaziente.
Ritornò dalla cagnetta in attesa, l’asta baldanzosa e dondolante, con un ghigno stupido e cattivo che gli deformava il volto.
Si spostarono al centro dell’ampio letto matrimoniale, in una posizione in cui, pur con tutti i miei sforzi, era impossibile scorgere qualcosa.
Dopo pochi secondi padre e figlia aprirono l’antica danza dell’amore.
La camera fu presto invasa dagli ansimi e dai gemiti soffocati dei due amanti, accompagnati dall’allegro cigolio delle molle del letto, che a pochi centimetri dal mio naso si alzavano ed abbassavano ritmicamente, ad ogni affondo di mio padre.
-Oddio bimba, sei bollente’-, latrava il vecchio, la voce concitata, galoppando nei dolci pascoli della figlia.
Immaginavo il suo corpaccione peloso e sudato avvinghiato alle delicate ed immature carni di Roberta; la sua bocca avida che si abbeverava ai piccoli seni; le mani impazienti che saggiavano ogni recondito anfratto di quel giovane corpo fremente.
-Mmh’ahh’piano’male’-, mugolava intanto la mia sorellina, lanciando piccoli strilli, quando i fendenti che le laceravano il grembo si facevano particolarmente violenti.
Presi a masturbarmi piano, pungolato dalle volgarità che i due si sussurravano durante l’amplesso e dagli schiocchi dei corpi in amore, che risuonavano nella stanza come colpi di frusta.
Ma quando sentii mio padre mormorare:- Girati bambina, che voglio assaggiarti il culetto!-, il piacere che covava nelle viscere del mio corpo divenne famelico, incontrollabile.
Il ritmo della mano si fece frenetico, convulso: il seme non tardò a sopraggiungere, opponendosi alla mia volontà , che cercava di prolungare ulteriormente il piacere che mi avvolgeva.
Violenti getti di viscido magma biancastro m’inzaccherarono la mano, mentre soffocavo un gemito di soddisfatto godimento.
All’acme del piacere, istintivamente, alzai di scatto la testa, nell’attimo esatto in cui un affondo particolarmente brutale del vecchio faceva abbassare la rete del materasso.
Un dolore lancinante m’incendiò la parte destra della fronte, poco sotto l’attaccatura dei capelli: sentivo il bozzo crescere e deformarmi la pelle del viso, nel punto in cui il metallo mi aveva colpito.
Fu un miracolo se riuscii a trattenere un grido di dolore, limitandomi ai sanguigni improperi che vomitai a denti stretti, raggomitolato come un verme.
Mi toccai la parte ferita: vi spuntava già un maestoso e dolorante bernoccolo, mentre da un piccolo taglio fuoriusciva del sangue.
Pulii la mano ancora sporca di sperma sulla moquette, ed attesi, sperando che il vecchio finisse al più presto e se ne tornasse in camera sua.
Niente da fare! I due al secondo piano avevano intenzione di tirarla per le lunghe!
Dopo almeno un quarto d’ora, la foga di papà e i gemiti della mia sorellina non avevano perso nulla del loro iniziale afflato.
Al dolore alla testa si era aggiunto un impellente bisogno d’orinare: l’avrei fatta lì, sul pavimento, se l’odore pungente non avesse rischiato di allarmare i due amanti.
La luce dell’abat-jour rischiarava con un debole cono di luce giallognola solamente una parte del grande letto matrimoniale. Il resto della camera era immerso in un’oscurità quasi completa che, pensai, mi avrebbe avvantaggiato nella ‘fuga’.
Mi feci coraggio, e spostandomi di lato, sbirciai sul letto.
Mia sorella, carponi sulle candide lenzuola disfatte, stava accogliendo nelle sue viscere l’insaziabile verga del vecchio, che la stava cavalcando con una lena degna d’ammirazione, mentre le baciava furiosamente il collo e le spalle.
Grugnivano e sbuffavano come maiali nel brago, i corpi sudati e arrossati che si schiaffeggiavano nell’amplesso.
Volgevano le spalle alla porta, il viso a pochi centimetri dalla testiera del letto, avviluppati nella calda placenta dei sensi.
Strisciai fuori e gattonai lentamente verso l’uscita, trattenendo il respiro per evitare ogni rumore.
Non resistetti alla tentazione di voltarmi un attimo: vidi il corpo possente di papà , al cui cospetto la gracilità di Roberta ricordava quella di una bambina, dimenarsi furiosamente tra le morbide natiche della figlia, il membro implacabile che le scavava il ventre accogliente.
‘Non si accorgerebbero di me neanche se cominciassi a fischiettare’, pensai, avvicinandomi alla porta.
Ricordavo che il vecchio non l’aveva neanche chiusa a chiave, ansioso com’era di assaggiare il frutto proibito che solo pochi anni prima giocherellava allegro sulle sue ginocchia.
Abbassai lentamente la maniglia, sperando che il grufolare della coppia in amore coprisse eventuali rumori. Fortunatamente era ben oliata: socchiusi la porta quel tanto che mi permettesse di uscire, e sgattaiolai fuori.
Il corridoio era completamente buio. Nessun pericolo che della luce penetrasse nella stanza, disturbando i due amanti.
Richiusi la porta e mi alzai finalmente in piedi, con la vescica urlante, trotterellando verso la mia camera.
Psss,psss’psss
‘Porc’me la sono fatta addosso!’, bestemmiai tra i denti, toccandomi l’inguine.
Asciutto.
Psss’psss’
Una lama di luce lacerò l’oscurità , come un colpo di mannaia. Usciva dalla camera n’4.
-Psss’sono io, la mamma-, udii una voce miagolare,- vieni qua un attimo’
Mi avvicinai alla porta , col basso ventre in fiamme.
-Che c’è mamma-, bisbigliai,- devo andare a pisciare, me la sto facendo sotto.
-Vieni in camera mia, che ce la spassiamo un po’!-, sussurrò lei, la voce impastata dal desiderio, prendendomi per un gomito e strattonandomi all’interno.
Corsi in bagno e liberai la vescica, appoggiato alle fredde mattonelle celesti.
Mamma mi osservò preoccupata, quando tornai in camera, con la testa martoriata da un sordo dolore pulsante.
-Che cavolo ti sei fatto in faccia?-, chiese con tono allarmato, osservando la ferita.
-Solo un bernoccolo’ho battuto la testa contro il letto. Piuttosto, papà dov’è ? -, replicai con la faccia più tosta di questo mondo, fingendo di non saper nulla.
-Oh’tuo padre è andato giù in salotto a leggere qualcosa, ha detto che non riusciva a dormire’dice lui’Come se non sapessi che è andato a scoparsi quella puttanella di tua sorella ! E’ andato giù di sotto e dopo cinque minuti è risalito e ha bussato alla sua porta, credendo che
dormissi, il porco !-, ringhiò di rimando, buttandosi a sedere sul letto.
-Vuoi dire che sai che’-, blaterai incredulo.
-Sì, sì, non fare il finto tonto !-, mi interruppe bruscamente. ‘Ti ho visto uscire dalla camera di quella cagnetta in calore!
-Ma..-, cercai di rispondere, arginando il fiume in piena .
-Ma un cazzo !-, sibilò come una biscia. ‘ So benissimo che già da qualche anno ve la passate a turno, la sgualdrina, tu e tuo padre. Ma stavolta ti è andata male eh, di’ la verità ’hai dovuto nasconderti sotto il letto, immagino-, disse, scoppiando sorprendentemente a ridere.
-Beh, a dire il vero’-, farfugliai, piacevolmente colpito dal fatto che conoscesse quelli che, a torto, ritenevamo fossero i nostri segreti.
-Del resto-, continuò,- non posso farvene una colpa eccessiva’anche noi due ce la intendiamo’
Con una mano prese a massaggiarmi la patta rigonfia, dalla quale la verga, nuovamente inturgidita, faceva capolino.
-Che ne dici di fare un po’ di compagnia alla tua mamma, stanotte ?-, mi sussurrò sorridendo.
-No!-, obiettai. ‘E’ troppo rischioso. E se papà ritorna, che facciamo? Non saprà mica qualcosa di noi due, spero?
-Certo che no, ci ammazzerebbe. Sai com’è’il sultano non permette a nessuno di intrufolarsi nel suo harem-, mormorò beffardamente, andando a chiudere a chiave la porta.
Tornò da me roteando i fianchi sinuosi e leccandosi le labbra, sensuale più che mai.
-Ma è troppo rischioso, ti dico ! -, insistetti. ‘Se il vecchio ritorna prima, cosa cavolo gli raccontiamo ? Che sono venuto a giocare a carte?
-Oh, di questo non ti devi preoccupare. Quando se la spassa con tua sorella ci mette delle ore, abbiamo tutto il tempo. E poi, il mese scorso, quando era andato a cena coi suoi colleghi e poteva tornare da un momento all’altro, non avevi mica tanta paura’-, replicò, riprendendo a solleticarmi l’inguine.
Con la mente tornai a una dolce serata di tarda primavera di qualche settimana prima.
Appena tornato a casa dal lavoro, mia madre mi chiamò dal bagno.
Il vecchio era uscito, impegnato nell’ennesima cena aziendale, seguita solitamente dalla meno ufficiale puntatina in qualche night. Roberta, invece, era andata a studiare da un’amica.
Mamma era immersa nella grande vasca, la pelle bianchissima e liscia come la ceramica sulla quale poggiava, morbida e soffice al pari della schiuma con cui stava giocherellando.
Ci guardammo un attimo negli occhi, con complicità : senza pensare al pericolo che correvamo, accecati dallo scintillio dei sensi, ci unimmo.
Una delle migliori scopate della mia vita’
Quel ricordo mi assalì con la vividezza di una reminiscenza proustiana.
Nuovi orizzonti di desiderio si dischiusero ai miei occhi, latori di rinnovati ed intensi piaceri.
Con gesti ansiosi, quasi brutali, la spogliai. La vestaglia di seta rosa che copriva la superba nudità materna cadde ai suoi piedi, rivelando l’abbagliante e proibita fucina dalla quale tutto ebbe inizio.
La sollevai, le bocche allacciate che assaporavano antichi e sorprendenti aromi, e la posai sul letto.
Indugiai a lungo sui grandi e tiepidi seni, sul ventre pallido, sulla femminilità accogliente che si arrendeva amorevolmente alla mia lingua impaziente.
Quando gridò tutto il suo piacere, folle e tremante, strattonandomi i capelli, anch’io mi arresi all’istinto primordiale.
-Posso andare tranquillo ?-, le chiesi, prendendola per le caviglie e dischiudendo le cosce opulente.
-Certo amore, ho ricominciato a prendere la pillola, non ti preoccupare’-, sospirò, attirandomi a sé.
Affondai nel bollente magma del suo ventre: presi a penetrarla con frenesia, quasi dovesse svaporare da un momento all’altro, come un sogno piacevole all’alba.
Mamma mi stringeva tra le gambe, leccandomi il collo ed il petto: ci muovevamo all’unisono, celebrando l’antico rito, come marosi che si frangono su una spiaggia deserta.
Nei suoi occhi, solitamente così dolci e protettivi, guizzavano abbaglianti le fiamme dell’inferno, mentre all’orecchio mi sussurrava parole dannate, che in qualsiasi altro contesto l’avrebbero per sempre allontanata dal mio cuore di figlio.
-Mamma ti’-, le mormorai, deciso a raggiungere il piacere’
Toc-toc-toc’toc-toc
-Lucia apri, sono io! -, latrò il vecchio, dal corridoio. ‘Apri! Perché diavolo hai chiuso a chiave?
Ci bloccammo, l’aria imprigionata nei polmoni, mentre abbandonavamo gli inferi (o il paradiso?) e la pensione Pinuccia si rimaterializzava lentamente intorno a noi.
-Oh cazzo, ha già finito, il porco! -, mormorò mamma , pallida in volto, cercando di riprendere il suo abituale autocontrollo.
– Va’sotto il letto, non c’è altro da fare’-, farfugliò, tremando. ‘Arrivo subito, caro!-, terminò invece a voce alta, rivolta verso la porta.
Mi imbucai nuovamente là sotto, così incazzato da dover trattenere una risatina isterica.
Le caviglie e i polpacci di mia madre andarono ad aprire.
-Ma si può sapere perché hai chiuso a chiave? -, borbottò mio padre, appena fu entrato.
-Scusa, ma non mi fidavo a restare sola in camera con la porta aperta. Va be’ che siamo in pochi in albergo, ma non si sa mai’-, mentì mamma.
Sentii la chiave girare nella toppa.
‘Porca puttana’, pensai furibondo, ‘adesso non poso più uscire, hanno chiuso a chiave!’.
Si sdraiarono sul letto e spensero la luce. Dopo pochi secondi accesero l’abat-jour sul comodino.
-No dai’adesso no’-, biascicò papà , seccato.
-Come no? E’ una settimana che non si fa nulla! Che ti credi, non sono mica di ferro !-, lo interruppe lei in malo modo, cercando qualcuno che finisse il lavoro che io avevo lasciato a metà .
I due parlottarono un po’, così piano che non mi riuscì di cogliere nemmeno una parola.
Poi l’arte eccelsa di mia madre dovette avere la meglio, risvegliando l’ormai cinquantenne virilità del marito, che già si era saziato al desco della figlia.
Qualche minuto dopo, infatti, le molle del letto iniziarono a cigolare allegramente, quasi ridessero delle mie sventure.
Mi rassegnai ad aspettare che si addormentassero, all’alba forse, per poter tornare finalmente in camera mia. Impossibile sgattaiolare fuori prima senza che se ne accorgessero, con la porta sprangata.
Raggomitolato tra moquette e materasso, con la fronte ancora dolorante, stilai un bilancio della serata.
‘Dunque: due mezze scopate, una sega e un bernoccolo’, rimuginavo, imprecando silenziosamente, ‘che nottata di merda!’.
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