Brevi, improvvise realtà, vissute come in sogno.
1 UNA DONNA’ ALLA MANO
Avevo preso la decisione, senza troppo pensarci, di andare a dormire a casa di zia Maria, nella casa dove, adolescente, avevo vissuto per un anno.
Non c’era un motivo per quella scelta, di nessun tipo, ed era contro ogni logica. Potevo, dovevo, andare in un comodo albergo, anche perché viaggiavo per motivi di lavoro ed ero rimborsato generosamente a pié di lista.
Era già abbastanza tardi, la sera, e non m’era venuto in mente neppure di telefonare per preavvertire. Sarei capitato inatteso ma sarei stato accolto affettuosamente, come sempre.
Il piccolo paese era distante pochi chilometri da Napoli, ed era collegato da un servizio di autobus che partivano da Porta Capuana.
C’era gran folla ad attendere al capolinea, evidentemente c’era qualche ritardo. L’autobus non era ancora giunto.
Avrebbe scaricato i passeggeri, ricaricati quelli in attesa, e sarebbe ripartito subito. Era una delle ultime corse, prima dell’interruzione notturna.
Ecco l’autobus.
Tutt’altro che nuovo, quasi asmatico.
Si fermò con stridore di freni, aprì le porte.
Le grida di quelli che non riuscivano a scendere e degli altri che volevano salire erano aspre, piene di improperi.
In questa baraonda, riuscii a inerpicarmi, con la piccola valigetta, ed anche a sedere su uno di quei sedili lunghi che correva sul fianco della vettura.
Valigetta sulle ginocchia, mani sulla valigetta, tenuta ben stretta, con le nocche delle dita in fuori.
Era buio, nessuna luce interna, solo il chiarore che filtrava dai fiochi lampioni esterni.
La gente era moltissima. Non tutti riuscirono a salire, malgrado si andassero ammassando in modo incredibile. Eravamo stipati come in un barile di alici. Nel lungo sedile eravamo strettissimi, incastrati.
Qualcuno, qualcosa, pigiava sulle mie mani, sulle mie nocche.
Finalmente, l’autobus, tra proteste e sollecitazioni, cominciò a muoversi, lentamente. Girò a sinistra, e la pressione sulle mie mani aumentò sensibilmente. Cosa era? Aprii una mano e le allungai per cercare di spostare quel fagotto che mi stava addosso, attaccato alle ginocchia.
Non era un fagotto, erano gambe.
La mano era andata a infilarsi tra esse.
La stoffa era alquanto grezza, e certamente una gonna.
Ora, pensavo, avrebbe cercato di tirarsi un po’ indietro, ma non era facile in quella calca.
Guardai in alto.
Il volto di una donna, di quelle che usano definirsi ‘del popolo’, non giovanissima ma dai tratti piacevoli, incorniciati da lunghi capelli neri. Era tutto quello che potevo scorgere nella poca luce che penetrava dai finestrini. Si era attaccata con entrambe le mani agli appositi sostegni, e aveva una borsa di pezza, semivuota, a tracolla. Mi fissò per un istante e nel contempo aprì le gambe perché la mia mano vi si inserisse.
L’autobus aveva affrontato la salita che l’avrebbe condotto al grande piazzale dove inizia la strada statale. La vetustà del mezzo e il peso dei viaggiatori lo costringevano a una andatura ridottissima.
La donna, ora, aveva stretto le gambe, dopo averle piegate un po’ per accogliere meglio la mia mano che, di taglio, si era inserita con la parte superiore tra le cosce, col pollice ben curioso’
Con naturalezza e indifferenza, e con la massima rapidità, la donna staccò una mano dal sostegno e con gesto repentino alzò la sottana e la fece ricadere sul mio braccio. Un gesto rapido, come quello dei giocolieri che tirano di colpo la tovaglia da una tavola imbandita ma lasciano al loro posto piatti e bicchieri.
Ora sentivo la stoffa delle sue mutandine.
Cominciavo ad eccitarmi. La valigetta che tenevo sulle ginocchia ne è testimone.
Scostai le mutandine, infilai la mano, decisamente, incontrando un cespuglio folto di ricci che si schiusero per farmi procedere oltre, tra le grandi labbra, tiepide, bagnate.
La donna profittava degli sbalzi dell’autobus, per piccoli movimenti che dicevano del piacere di quel toccamento pirata.
Ecco il turgido clitoride, il rorido ingresso della vagina. Il mio dito vi si inserì, sentivo stringersi e allargarsi le gambe della donna, e procedetti sempre più energicamente quell’avanti e dietro che diveniva frenetico.
Il grembo della donna palpitava, i suoi movimenti erano convulsi, non riuscivo a comprendere come riuscisse a controllarsi, a muoversi in quella folla.
Strinse le gambe, sentii calde gocce che rigavano la mia mano.
D’un tratto, si accasciò su di me, per un istante.
Si rialzò, mentre sfilavo la mano da sotto la gonna.
Credo che mi sorrise, quando mi mormorò, rialzandosi:
‘Scusate, nu’ giramiento e’ cape!’
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2 WIDOWHOOD INTRODUCTION (INTRODUZIONE ALLA VEDOVANZA)
Davide Stein non aveva mai goduto di ottima salute, né, per la verità, aveva sempre seguito diligentemente le cure prescrittegli.
Rimaneva ore ed ore alla scrivania, a studiare, leggere, mettere a confronto, fin da quando era ragazzo.
Non molta attività fisica, aveva perfino cercato di essere esonerato dall’ora di ginnastica.
Venne anche dichiarato non idoneo al servizio militare, e ne fu felicissimo, così poteva dedicarsi anima e corpo alla sua materia preferita: letteratura anglosassone.
Se gli si chiedeva quale religione praticasse, rispondeva che era ebreo, figlio di ebrei, ma che era molto distratto da altre cose, per cui gli adempimenti formali erano stati messi da parte.
Assistente appena laureato, a trenta anni era ordinario.
Un po’ misantropo, ma non orso.
Le sue lezioni erano affollatissime, perché sapeva coinvolgere e motivare i suoi allievi, rendeva viva e attuale la materia, ed era riuscito a spiegare come la ‘letteratura’ fosse l’espressione dell’essere umano legata non solo alla mente e allo spirito, ma alla concretezza della vita.
Anche le opere più popolari dicevano i sentimenti, le lotte, i tormenti, le vittorie degli uomini, le loro grandezze e le loro piccolezze, poche bontà, molte cattiverie. Senso di grandezza, o miserie dell’animo.
Versi magnifici, o espressioni, a volte, avvolte in un ermetismo che non sapevi se fosse incapacità di esprimerle o di comprenderle.
Citava ora questo ora quello: Shakesperare, Milton, La Capanna dello zio Tom, I Tropici di Miller, Radici’
Era chiamato in varie Università, o Fondazioni Letterarie, per tenere le sue dotte ma mai noiose conferenze.
Cercava di combattere alla meglio, e disordinatamente, il diabete che lo affliggeva.
A cinquanta anni, incontro Gaia, la giovane consulente legale dell’Università, e due giorni dopo le chiese di sposarlo.
Gaia credette che fosse uno scherzo. Il professor Olivieri, che sembrava più vecchio dei suoi anni, del quale non si sapeva nulla in merito alla vita sentimentale, aveva chiesto a lei, che doveva compiere ventotto anni, ed era una gran bella figliola, di sposarlo.
‘Mi risponderà quando vorrà, avvocatessa Lolli, e il suo silenzio sarà indice di rifiuto. Lo comprenderei benissimo.’
Gaia non ci dormì la notte.
A pranzo ne parlò coi genitori.
Aveva avuto qualche flirt, ma niente di serio o impegnativo. Anche lei, fino ad ora, aveva anteposto la carriera a qualsiasi altra cosa.
Cosa poteva significare divenire la moglie di Davide Olivieri?
Per quell’uomo poteva nutrirsi ammirazione, devozione, affetto, ma era difficile attendersi passione, coinvolgimento erotico.
Ascoltò il parere dei suoi, dei vecchi genitori, del fratello che era di passaggio in Italia, risiedendo da anni in Canada.
Due giorni dopo bussò alla porta dello studio di Davide, all’Università. Entrò, lui era intento a scrivere qualcosa, al portatile, sedette di fronte.
‘Allora, Davide, quando dovremmo sposarci?’
Davide tolse gli occhiali, la guardò fissamente.
‘Quando vuoi, Gioia. Ci ha pensato bene?’
Lei annuì.
‘Io sono cattolica, Davide, tu ebreo, i miei desiderano che io sposi in chiesa.’
‘Nessun problema.’
‘Dovrai impegnarti ad educare gli eventuali figli secondo il cattolicesimo.’
Sulle labbra di Davide si delineò un leggero sorriso, e alzò le spalle.
‘Non ho motivi per non farlo.
Tu sai, Gloria, che fra due mesi compio cinquanta anni?’
‘E tu, Davide, sai che fra una settimana ne compio ventotto?’
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Nozze con pochissimi intimi: i genitori di Gloria, il fratello, che ne fu anche il testimone, il Magnifico Rettore, amico e testimone di Davide.
Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, al Foro Romano, pranzo sulla terrazza del Forum, partenza per Londra.
Gloria gli disse di dare a lei le confezioni di ipoglicemici e ipotensivi, perché ne avrebbe curato la somministrazione nelle ore prescritte.
La ‘consumazione’ del matrimonio fu preceduta da commoventi tenerezze, da parte di Davide, e la sua premura fu quella di non deludere la moglie.
Gloria era gradevolmente emozionata per il comportamento del marito, e fece del tutto per manifestargli il gradimento di fare l’amore con lui. In effetti la sua femminilità poté considerarsi appagata.
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Vita improntata all’aurea mediocrità quotidiana.
Anni trascorsi, discretamente, fino al giorno in cui Davide dovette essere trasportato d’urgenza in ospedale.
Diagnosi, IMA, infarto del miocardo acuto, in soggetto iperteso e diabetico. Angiolpastica, inserzione di stents nelle coronarie. Qualche giorno dopo, minaccia di embolia polmonare, posizionamento di filtro cavale, attraverso la giugulare.
Tornato a casa, riprese i suoi studi, le sue letture, i suoi articoli.
All’Università non andava quasi più.
Paolo Mancini gli era stato sempre vicino sin dal primo anno di corso, si era laureato discutendo la tesi con lui, e ora ne frequentava la casa, assiduamente, anche perché sperava di intraprendere la carriera universitaria. Si avvicinava il settantesimo anno di Davide, quando avrebbe lasciato la cattedra.
Gloria conservava la sua vivacità, la sua dinamicità, e non trascurava di assistere amorevolmente il marito. Era lei stessa che portava le bibite, un tè, e qualche volta il caffè, agli uomini che lavoravano nello studio.
Era sempre una gran bella donna e gli anni non l’avevano appesantita, anzi sembrava che non fossero trascorsi per lei, ormai sola, avendo perduto i genitori, e col fratello sempre in Canada.
Non era la prima volta che Davide rimaneva quasi tutta la notte nel suo studio. Gloria infilò la vestaglia, guardò l’orologio, erano le sei del mattino, stava facendosi giorno. Andò nello studio, Davide aveva poggiato la testa sul braccio, sul piano della scrivania.
Si avvicinò al marito, voleva svegliarlo con una carezza.
Lo toccò.
Era freddo. Immobile.
Le cose, da quel momento, si erano succedute come se rispettassero un protocollo stabilito: prima di tutto, Gloria, ricordando che Davide era ebreo, telefonò al rabbino per farsi indicare una impresa di onoranze funebri legata a quella religione; poi chiamò l’impresa stessa che le assicurò un immediato intervento e che avrebbero pensato loro a tutto, adempimenti formali compresi; quindi informò il Rettore, pregandolo di non comunicare ad alcuno il decesso di Davide, perché si erano sposati tra pochissimi e il saluto ultimo voleva darglielo solo lei e, appunto, qualche intimo; per ultimo, ritenne di dirlo a Paolo Mancini.
Per circa venti anni Davide era stato suo marito, tenero e affettuoso e lei, in un certo senso, gli aveva voluto bene e aveva compreso e accettato quando i mali aveva cancellato, tra loro, ogni rapporto sessuale.
Paolo giunse in casa Olivieri quando i necrofori erano all’opera.
In cucina, in silenzio, c’era la domestica, Ilaria, che di solito veniva al mattino e andava via nel pomeriggio.
Il Rettore giunse verso le dieci, la camera ardente era stata allestita nello studio, vicino alla porta di ingresso. Espresse il suo dolore a Gloria, e la pregò di permettere che almeno i suoi più intimi colleghi potessero venire a rendere omaggio alla salma, sarebbe stato certamente loro desiderio poterla vegliare, in attesa dei funerali che si sarebbero svolti l’indomani trasportando Davide al cimitero ebraico.
Gloria si lasciò convincere, ma chiese che il numero dei visitatori fosse ridotto al minimo, e li attendeva per il tardo pomeriggio.
Paolo era rimasto molto colpito dall’improvvisa morte del suo Maestro. Accompagnando alla porta il Rettore gli assicurò che sarebbe rimasto vicino alla vedova.
Gloria era nello studio, seduta in poltrona, ai piedi della bara.
Paolo la raggiunse e sedette su una sedia, poco discosto.
Erano loro soli.
Ilaria si affacciò alla porta, fece un cenno a Paolo che si alzò e andò da lei.
Aveva preparato un tè, voleva sapere cosa doveva fare per il pranzo.
Paolo prese dalle mani della domestica la tazza di tè e si avvicinò a Gloria. Gliela porse. La donna fece un gesto di diniego col capo, ma Paolo insisté, le mise in mano la tazza, le dette una leggera carezza sul volto.
Gli occhi di Gloria erano asciutti, ma si vedeva che stringeva le mascelle.
Aveva indossato un abito nero, abbottonato davanti, e non si era truccata. Comunque, le sue belle fattezze erano sempre evidenti, anche nel pallore del volto. Finì di bere, restituì la tazza a Paolo, con un lieve sorriso.
Paolo si chinò, parlottò con lei, e riuscì a convincerla che doveva alimentarsi.
Tornò da Ilaria e le disse che Gloria avrebbe gradito un brodino, verso le quattordici. Certo, lui le avrebbe fatto compagnia.
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Il Rettore tornò, nel tardo pomeriggio, col Preside della Facoltà e due vecchi colleghi di Davide.
Dopo le condoglianze, rimasero seduti, in silenzio.
Era abbastanza tardi quando il Rettore si alzò, andò da Gloria e disse che voleva parlarle.
Gloria uscì nel corridoio, seguita dal Rettore. Con la mano fece cenno a Paolo di seguirla.
‘Signora, comprendo il suo stato, ma lei deve assolutamente mangiare qualcosa e riposarsi, altrimenti domani non sarà in grado di accompagnare Davide alla sua ultima dimora.
Lei è tesa, come medico le darò un ansiolitico che le consentirà di rilassarsi. Riposi solo un po’. Deve farlo.
Io e gli altri colleghi abbiamo deciso di vegliare Davide, a coppie, ci alterneremo in due turni.
Adesso, la prego, vada a prendere qualcosa e a riposare.
Mancini, ci pensi lei.’
Paolo prese sottobraccio Gloria e andò verso il tinello, dove Ilaria aveva preparato una minestrina e una fettina di carne.
Scambiarono poche parole, vuote, senza senso.
Nessuno parlò di Davide.
Terminata rapidamente la parca cena, Paolo mise alcune gocce, prelevate dal flacone che gli aveva dato il Rettore, in un bicchiere, e lo porse a Gloria.
La donna cercò di rifiutarle, ma Paolo la forzò dolcemente, portandole il bicchiere alle labbra e aiutandola a bere.
‘Ora, signora, vada a sdraiarsi un po’.’
‘Si, ma non voglio svestirmi.’
‘D’accoro, si sdrai sul letto, si copra con una coperta, cerchi di riposare.’
‘Non mi lasci dormire troppo, venga a chiamarmi”
‘Va bene.’
‘Per favore, mi accompagni, ho quasi paura ad entrare in quella camera, al buio..’
Paolo l’accompagnò, accese la luce del comodino.
Gloria sedette sul letto, Paolo si chinò a toglierle le scarpe, lei alzò il vestito per abbassare le calze autoreggenti che le stringevano le cosce. Si sdraiò. Pregò Paolo di prendere la coperta che era nell’armadio a muro.
Paolo la prese, coprì la donna che si era messa sul fianco destro, quasi nel centro del letto.
‘Non spenga la luce, Paolo, e non mi lasci subito, aspetti che mi addormenti’ per favore’ mi dia la mano”
Paolo sedette sul letto, tese la mano alla donna che la prese e se la strinse al seno.
Poco dopo, il respiro disse che Gloria dormiva. La tensione aveva ceduto.
Paolo si accorse che la sua mano era su una mammella della donna. Fu istintivo stringere un po’. Era abbastanza prosperosa e ben solida. Il giovani tornò ad accertarsene. Ormai la stava carezzando, palpeggiando, e quel contatto lo aveva eccitato.
Pian piano, si sdraiò sul letto, si voltò dalla parte di Gloria, alzò un po’ la coperta e con l’altra mano cominciò a carezzare le belle natiche che rivelarono la stessa compattezza delle tette.
L’eccitazione montava, premeva nei pantaloni.
Paolo alzò il vestito di Gloria: un magnifico sedere, appena solcato dall’invisibile striscetta del perizoma.
Il fallo di Paolo urlava desiderio.
Abbassò la zip dei pantaloni, lo mise in totale libertà, eretto e rubizzo e lo piazzò tra i glutei caldi di Gloria, che non si mosse.
Dilatò quelle belle masse calde, scostò il filetto del perizoma, indirizzò, con la mano, il glande tra le grandi labbra, poi spinse. Ecco la vagina, si muoveva, era lubrificata. Spinse, la penetrò, per quanto poté Rimase fermo per un istante, poi, abbrancandole le tette, cominciò a stantuffare.
Gloria cominciò a muoversi, dapprima debolmente, poi sempre più freneticamente, spostò dietro le mani per stringere più forte a sé il giovane, e iniziò a gemere, sommessamente, fino a quando fu scossa da un orgasmo travolgente, proprio nel momento che Paolo svuotava in lei la testimonianza del suo godimento.
Rimasero abbracciati.
Piero era ancora in lei.
Gloria, si riaddormentò.
Pesantemente.
Ci voleva ancora tempo per i funerali.
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3 NELLO STESSO MOMENTO’
La vita scorreva abbastanza serena, forse un po’ troppo abitudinaria in casa Molino.
Sveglia sempre alla stessa ora, ognuno disponeva di un proprio bagno, quindi nessuna fretta, poi, quasi sempre in accappatoio o vestaglia, a colazione, nel tinello, dove Pilàr preparava tutto con molta cura: spremuta d’arancia, caffè, latte, burro, marmellata. Ognuno prendeva quel che voleva. Qualche volta c’era anche frutta fresca.
Poi il rito della ‘vestizione’, quindi saluto a Pilàr, discesa in autorimessa e via al lavoro. Prima scendeva Mariella, al liceo classico dove insegnava, e Luigi proseguiva per il palazzo di giustizia, dove era magistrato.
Il rientro era diverso, dati i differenti orari dei due coniugi.
Era così da più di cinque anni, da quando si erano sposati, e le cose scorrevano tranquille e serene, salvo le solite disparità di vedute su quasi tutto.
Mariella era graziosa, un visetto da bambina, un personalino ben proporzionato, con belle tettine e un sederino da sballo.
A scuola, gli alunni del quinto, in genere aitanti giovanottoni, la chiamavano ‘micina’ e i loro sguardi non nascondevano il desiderio di poter sentire il loro uccellino (tanto per minimizzare) divorato dalla splendida gattina, certo tiepida e vellutata, che si nascondeva tra le cosce di quella bella figliola che, pur controllatissima, sculettava deliziosamente per i corridoi.
”Micina’, dunque, la prof di latino e greco, ‘miciona’ la imponente Dora Bosio, insegnante di matematica, alta quasi uno e ottanta, senza scarpe, con tutto in proporzione e bene in evidenza, detta anche Pomona, per le rigogliose e svettanti tette sacrificate nelle attillate magliette..
Nella classifica delle ‘bbbone’, micina e miciona, a pari merito, venivano prima di tutte le compagne di scuola, anche se molte di esse erano delle vere e proprie ragazze da sogno.
Il pari merito era dovuto al fatto che una metà degli arrapati allievi aveva eletto ‘ina’ e l’altra aveva preferito ‘ona’. Va sottolineato che a schierarsi a favore di ‘ina’, erano stati i più atletici, certi tocchi di marcantonio che non avevano niente da invidiare agli atleti di Olimpia.
La statuaria ‘ona’ era stata entusiasticamente votata anche da Pino, il ‘piccoletto’ del liceo ‘fisicamente parlando- che, però, assicurava che non era troppo sviluppato in altezza (168 centimetri) perché la natura aveva privilegiato il suo pisellone.
Per questo suo concupire ‘ona’ Pino era detto lo ‘speleologo’, perché se ci fosse andato a letto si sarebbe smarrito nelle profonde caverne boscose che s’aprivano nell’immensa valle di Pomona che partiva dal pube e finiva al terminar della schiena.
‘Non preoccupatevi’ ‘replicava Pino- ‘ le vostre sorelle sanno bene che ho tutto l’occorrente per l’esplorazione, e un alpenstock adatto a quelle montagne, a parte che ci sono sempre i capezzoloni a cui sorreggermi’.
Da come ne parlavano, sembrava che ‘ina’ e ‘ona’ fossero a portata di mano’ e soprattutto di pisello.
Fu Pino a dare la notizia:
L’adesione alla gita dei ‘maturandi’ fu quasi unanime, e non ci voleva neanche l’autorizzazione dei genitori essendo tutti maggiorenni. Comunque, nessuna famiglia rifiutò al figlio la quota di partecipazione. Gli esami prossimi non consigliavano di ‘irritare’ i giovani. Le ragazze rimasero deluse perché ‘scamorzone’ era quanto di meno attraente e vivace potessero desiderare, ma la presenza dei loro compagni di cui alcuni veramente ‘fichi’, poteva rivelarsi molto interessante.
Giorno della partenza, l’autobus attendeva nel cortile della scuola, arrivarono tutti prima dell’orario, tenuta, in genere, casual, sacche da viaggio, molto vociare, e tanta attesa.
Ventiquattro partecipanti: ventuno alunni, dodici maschi e nove ragazze, tre prof accompagnatori.
Dora apparve in jeans aderentissimi e una maglietta di lana stretch che mozzava il fiato. Molte patte erano sensibilmente lievitate.
Duilio Perri, ‘scamorzone’, sorrideva ebeticamente, come sempre, e indossava pantaloni e giubbotto blu su tshirt bianca.
L’ancheggiante Mariella, accompagnata dal marito fino al cancello del cortile, era pimpante e affascinante più che mai, e sulla gonna ampia e lunga, aveva una blusetta annodata in cinta.
Un lungo bacio col marito, una affettuosa pacca di lui sulle meravigliose natiche, ed eccola arrivare.
Mauro Rotili, detto Riace per la sua corporatura, suo alunno, le andò incontro, prese la sacca e la mise nel bagagliaio dell’autobus.
Era il momento di avviarsi a Fiumicino.
Perri aveva i documenti di viaggio, il programma, l’elenco dei partecipanti, la suddivisione nelle camere dell’albergo.
Furono abbastanza tranquilli e ordinati gli esuberanti ragazzi, e a bordo ognuno sedette nei posti loro assegnati, salvo a scambiare qualche sistemazione per stare vicino al compagno, o compagna, preferito.
Mariella disse a Dora che lei si sarebbe seduta in fondo, così poteva vedere i ragazzi.
Dora, invece, andò a sedere nella seconda fila e’ guarda caso’ si trovò a fianco Pino lo speleologo.
Il premuroso Mauro sistemò la sacca della prof nell’apposito vano bagagli, e chiese il permesso di occupare il posto accanto a lei, che già sedeva dalla parte del finestrino.
Decollo perfetto, raggiungimento della quota di crociera.
Mariella si alzò, voleva andare dalla collega.
Mauro si alzò anche lui ma non uscì nel corridoio, sì che le sode e tonde natiche della prof lo strusciarono incantevolmente, provocando le immaginabili conseguenze.
Mariella tornò presto al posto suo e, forse memore del precedente strofinio, peraltro non spiacevole, questa volta passò restandogli di fronte. Così, Mauro poté constatare che anche le tettine erano della stessa pasta del sederino.
Il giovane mostrava di interessarsi a ciò che si vedeva fuori dal finestrino, e avvicinandosi alla prof, con le ginocchia le premeva le gambe e ne sentiva il tepore.
Doveva cercare di distrarsi, di evitare che l’eccitazione lo tormentasse in quel modo.
Atene.
Albergo nella Assomaton Street, al centro.
La sistemazione alberghiera studiata da Perri andò a farsi benedire.
Erano state messe a disposizione, oltre le tre singole per gli accompagnatori, cinque triple e tre doppie, e lui le aveva distribuite, dopo lungo pensamento, dando ai maschi quattro triple, e alle femmine le restanti.
Come, in effetti i ragazzi si distribuirono non fu mai cosa certa.
Le singole per i prof, tra l’altro, erano, in effetti, delle matrimoniali, sullo stesso piano, dalla parte opposta alle camere degli alunni.
Avevano consumato a bordo un pessimo snack, ma nessuno aveva fame.
Qualcuno prese un panino al bar, la maggioranza andò subito in camera e, in verità, furono abbastanza quieti e anche il girovagare da una parte all’altra non fu chiassoso.
Un autobus li attendeva, dopo un’ora, per un giro in città, il primo contatto con Atene.
Mariella e Dora, ognuno nella propria camera, ne profittarono per darsi una rinfrescata e rassettarsi un po’.
Autobus da quaranta posti, i passeggeri erano ventisei, compreso autista e guida parlante un perfetto italiano.
Ognuno cercò di sedere vicino al finestrino.
In prima fila, Duilio Perri e la graziosa guida, una brunetta abbastanza giovane, insegnate di storia dell’arte e laureata in lettere italiane a Perugia. Dall’altra parte del corridoio, Pomona vicino al finestrino e Pino, che non la lasciava un momento e non trascurava espediente per strusciarsela a dovere e anche abbastanza arditamente.
Ultimi posti, Mariella con appiccicato il premuroso Riace, ormai in preda a un vero e proprio incantamento: natiche e tette della prof.
Giro in città.
Poi alla Taverna dei Sette Fratelli, Epta Adelphos, nella città vecchia, per cena greca e balli caratteristici.
Due lunghi tavoli, uno sotto gli occhi attenti di Duilio Perri, l’altro con le ormai inseparabili coppie: Dora e Pino, Mariella e Mauro.
Pietanze tipiche: mezedes, souvlaki, moussaka, olive nere e feta. E il dolce melomakarona, il tutto annaffiato con la gradevolissima retsìna e un ouzo finale, mentre i bouzuki suonavano il syrtaki.
Mauro non lasciava mai vuoto il bicchiere di Mariella, e Dora ci pensava da sola a gustarlo.
Un tentativo di Mauro di poggiare il braccio sulle spalle di Mariella non venne respinto, neppure quando l’altra mano andò a sistemarsi sulla coscia della bellissima prof.
Dora era abbastanza accesa in volto, e con una certa nonchalance ogni tanto si accertava della consistenza della patta del suo vicino, di Pino, che le dette motivo di non essere delusa.
Tutti cercarono di ballare il syrtaki, poi si passò a musica diversa, fino al liscio che dette modo a Mauro di invitare Mariella, di stringerla sempre più audacemente e di farle sentire l’evidenza della sua prepotente mascolinità.
Era abbastanza tardi quando rientrarono in albergo.
Nell’autobus, Mariella aveva appoggiato la testa sul petto di Mauro e lui l’aveva carezzata. Poi era sceso a palparle le tette, ed aveva cautamente proseguito fino al grembo.
Il capo di Pino riposava sulle tettone di Dora.
Gli altri, più a meno a coppia, non erano da meno nel pomiciamento.
La ‘distribuzione’ nelle camere, era prevedibile, avrebbe subito modifiche.
Ognuno si ritirò subito, augurando buonanotte e raccomandando di non far tardi, al mattino.
Dora sussurrò qualcosa a Pino.
Mauro disse a Mariella che non era prudente chiudersi a chiave, poteva incastrarsi e in caso di necessità’
Fu così che quando i corridoi erano deserti, e dalle camere sortivano rumori vari, due ombre sgattaiolarono verso l’ala opposta del piano.
Mauro trovò Mariella a letto, con solo la giacca del pigiama e per giunta sbottonata. Lui era in pantaloncini. Li tolse subito.
Mariella lo guardò, eccitata, con le nari frementi.
Mauro si chinò a baciarle i capezzoli e carezzarle il grembo, era umido, fremente, capì che non era necessario attendere, la trascinò sulla sponda, le alzò le gambe le mise sulle sue spalle, poggiò il glande del suo poderoso fallo tra quelle piccole labbra, che lo attendevano, lo baciarono, lo ingurgitarono golose e palpitanti in un crescendo voluttuoso che Mariella terminò con un soffocato urlo di piacere, liberatorio, mentre sentiva l’inondarsi dell’incandescente colata seminale del suo vigoroso amante.
La vigorosa e accesa virilità di Mauro, la sua giovane età, la lunga attesa, fecero conoscere a Mariella un’esuberanza ignorata, e l’alba la sorprese sazia come non mai per la abbuffata di sesso che aveva fatto.
Quando Pino entrò nella camera di Dora, era acceso solo il lume del comodino.
Dora era supina, completamente nuda, con le sue tettone che Pino battezzò subito le colline fatate, e i capezzoli scuri e turgidi. Ventre piatto un folto bosco ricciuto tra le gambe, lievemente dischiuse, che per Pino era la foresta incantata, con la grotta del paradiso. E qui era proprio lo speleologo.
Come fu vicino al letto, lasciò cadere i pantaloncini, e apparve in tutto il suo prepotente splendore la evidente manifestazione della sua virilità.
Dora lo chiamo per cognome, come faceva in classe.
‘Accidenti, Rossi, ma dove l’hai preso quel po’ po’ di palo? Non crederai certo che riuscirai a infilarlo tutto! Ma come fai a contenerlo nei pantaloni quel coso così lungo e così grosso!’
Intanto, però, alla sola vista di quell’arnese esagerato, s’erano increspati i peli del pube, le grandi labbra inturgidite e la vagina inumidita.
‘Sei uno spettacolo, prof, i vestiti nascondono il meglio.’
Salì lentamente sul letto e non sapeva da che parte cominciare.
Dora lo trascinò su di sé.
Lui iniziò a ciucciarle i capezzoli.
Dora gli afferrò il glande, divaricò le gambe, lo poggiò all’orificio rorido della sua vagina.
‘Fa piano, bello, non farmi male.’
Pino entrò lentamente, si sentiva accogliere bramosamente, voluttuosamente, le pareti della vagina lo fasciavano, lo mungevano. Le gambe di Dora si incrociarono sulla sua schiena. Quando si accorse che non poteva, e non doveva, procedere ancora, prese a fare un avanti e dietro che scatenarono il bacino della donna che andava movendosi sempre più convulsamente.
‘E’ bellissimo’ piccolo’ sei splendido’ dai’ dai’ eccomi tesoro’ eccomi’ ecooooooooooooooo!’
Si abbandonò stringendolo a sé, lui continuò ancora un po’, poi si ritrasse appena e dal suo idrante poderoso uscì un violento fiotto di seme che lui sparse dappertutto con la grossa cappella che giunse fino all’inizio dell’utero.
Dora ebbe ancora travolgenti sobbalzi, con gli occhi semichiusi, le labbra appena aperte, le nari frementi. Gli afferrò la testa e lo baciò appassionatamente, cercandogli la lingua, succhiandola e godendo delle contrazioni che ciò produceva all’ancora rigido fallo di Pino.
Giacquero disfatti.
Il loro silenzio lasciò intendere che nella camera accanto, quella di Mariella, le cose non andavano diversamente.
‘Mauro, sei una potenza della natura!’
Dora pensò che quella era una vera e propria gita ‘scopastica’.
Luigi fece una leggera colazione poco dopo mezzogiorno, riprese l’udienza e riuscì a chiuderla solo a sera inoltrata.
Una giornata faticosa.
Pensò di telefonare a Mariella, gli rispose che era in autobus e disse che fino allora andava tutto bene.
Non, la donna, sapeva che il meglio doveva ancora venire.
Luigi andò a casa, lasciò l’auto nella rimessa condominiale, salì nel suo appartamento, aprì la porta.
Pilàr gli andò incontro, gli tolse la borsa dalle mani e gli disse che era già tutto pronto per la cena, aveva preparato qualcosa caratteristico del centro america, Arroz con pato, anatra rosolata al riso, del Perù, il suo paese, e fragole alla tequila, tipico dolce del Panama.
Luigi ringraziò. Desiderava, però, prima fare una doccia. In un quarto d’ora sarebbe stato pronto.
‘A proposito, Pilàr, non mi faccia cenare da solo, mi faccia compagnia.’
‘Come comanda, Don Luis.’
Pilàr lo chiamava all’antico modo che i Castigliani usavano vero i laureati, quelli che sentivano essere i loro ‘don’, i signori.
Quando Luigi tornò in camera da letto, in accappatoio, Pilàr era li, e gli aveva preparato il cambio della biancheria.
‘Desidera un vestito, don Luis, o preferisce stare più comodo in vestaglia da camera?’
‘Forse meglio la vestaglia, che pensa?’
‘Certo, meglio. Allora le prendo le scarpe da riposo.’
Si chinò per ritirarle dal piano basso del mobiletto portascarpe, mostrando in tutto il suo fulgore il magnifico posteriore che Luigi aveva spesso ammirato.
Pilàr era una Peruana (lei diceva così, non Peruviana) alla vigilia dei suoi quaranta anni. Un volto regolare, ovale, con occhi nerissimi, incorniciato da lunghi capelli più neri dell’ala del corvo, lisci. Un personale gradevole, non magrissimo ma molto bel proporzionato. Un seno prosperoso, fianchi aggraziati e, soprattutto, un posteriore statuario.
Pilàr si rialzò, portò quanto aveva preso vicino alla sedia a piedi del letto, dove era seduto Luigi, e s’abbassò per metterle sul tappeto.
L’attraente esibizione del sedere, ora, aprendosi la scollatura del grembiule, era sostituita da quella di un florido paio di tette a pera, scure, e da quanto si vedeva ben sode, con certi lunghi capezzoli a oliva che ti veniva voglia di snocciolarli con le labbra.
Luigi aveva sempre apprezzato la prestanza di Pilàr, ed anche pensato a chissà come sarebbe stata nell’intimità, ma non gli era mai capitato, come in quel momento, di essere costretto a restare seduto per nascondere la sua violenta erezione.
Pilàr alzò il capo, lo guardò e gli sorrise.
‘Posso aiutarla a vestirsi, don Luis, noi aiutiamo i nostri uomini, mettiamo loro calze e scarpe, e anche il resto se lo agradan. Mi dia il piede.’
Luigi allungò il piede, Pilàr, in ginocchio, lo massaggiò delicatamente, come se lo carezzasse, se lo pose in grembo per prendere la calza, e il piede era proprio lì, tra le sue gambe. Infilò la calza, poi la scarpa. Fece lo stesso con l’altro, e certo notò che Luigi aveva un po’ spinto tra le sue gambe la pianta del piede, come volesse restituirle il massaggio, la carezza.
Durante questo tempo, le tette di Pilàr erano comparse e scomparse allettantemente. Era forte la tentazione di allungare una mano e stringerle.
‘Grazie, Pilàr, ora faccio io. Tra cinque minuti sarò a tavola, può preparare.’
Pilàr uscì.
Luigi entrò nella sala da pranzo dove la tavola era stata imbandita con cura, anche con le candele.
Pilàr aveva tolto il grembiule e, certo, s’era data una ravviata ai capelli e forse un filo di rossetto sulle labbra.
Luigi la guardò con insistenza.
Si, Pilàr era una bella donna quella che, in genere, si definisce una gran bel tocco di’. Per limitarsi a quella cosa lì.
‘Si segga, Pilàr.’
Quanto aveva preparato Pilàr era veramente delizioso, e le fragole con la tequila raccolsero il plauso di Luigi.
Quando la donna si alzò per toglierli il piatto, Luigi la ringraziò e nel contempo le pose una mano, ben aperta, sulla natica. Era veramente soda, e ben tonda. E’ logico che per accertarsene Luigi dovette muoverla. E la donna attese che l’ispezione fosse finita e la mano tornasse al suo posto.
Al termine della cena, Luigi andò a sedere in salotto. Accese la TV.
‘Desidera il suo cognac, don Luis?’
‘Si, grazie. Per favore ne prenda anche lei, venga a sedersi qui, al resto penserà dopo.’
Pilàr apparve subito con due balloon e la bottiglia del cognac.
‘Aqui, Pilàr, sul sofà, proxima!’
Pilar riempì i bicchieri, ne porse uno a Luigi e, preso il suo, andò a sedersi vicino all’uomo, tanto vicino che i corpi si toccavano.
Luigi armeggiò col telecomando. Un canale trasmetteva un film, certamente passionale, perché la coppia era a letto e chiaramente intenta a fare l’amore. Lei era voluttuosamente presa dal suo cavalcare impetuoso e l’uomo le teneva le mani sui glutei.
‘Cosa pensa dell’amore, Pilàr?’
‘Che noi siamo qui per un atto d’amore, che, de consecuencia, l’amor es la vida e la vida es por l’amor.’
‘Claro.’
La scena sullo schermo indicava che la coppia stava raggiungendo il massimo del godimento, e fu istintivo per Luigi cingere i fianchi di Pilàr con un braccio e di accostarla ancor più a sé.
Pilàr era calda.
La mano cercò una tetta, la palpeggiò a lungo, s’infilò nella scollatura.
Luigi pensò che ormai era’ partito’.
Si voltò verso Pilàr, le sbottonò il grembiule, le tirò fuori il petto e si mise a ciucciarle golosamente i capezzoli.
La donna era esitante, indecisa.
Lui le introdusse una mano sotto il vestito. Lei dischiuse un po’ le gambe. Mutandine scostate, e introduzione delle dita nel solco delle grandi labbra, delle piccole, nella vagina rugiadosa e accogliente.
‘Vieni, Pilàr.’
Andarono nella camera da letto, volle essere lui a spogliarla.
Pilàr nuda era molto più bella di quando era vestita.
Poco lanosa tra le gambe, con un personale delizioso.
Luigi sedette sul letto, nudo anche lui.
Pilàr lo spinse dolcemente, lo fece stendere supino, col pene svettante, e gli si mise sopra, dolcemente, lasciandosi impalare con grande godimento. Iniziò con movimenti lenti e sensuali, guardandolo negli occhi, poi la cavalcata proseguì sempre più freneticamente. Le mani di Luigi le artigliavano il seno, i fianchi. Quella donna era meravigliosa, un fuoco. Lo stava mungendo voluttuosamente.
Pilàr seguitava a guardarlo, aveva le narici dilatate, dalle labbra le sortiva un mugolio interrotto continuamente da querido’ querido’ bueno querido’ bueno’ paraìso’ paraìso’ estoy viniendo’ he aqu’ he aqu’
Magistralmente calcolò l’istante preciso in cui le linfe del loro piacere si fusero e confusero in un travolgente gorgo di voluttà.
Si gettò su di lui, palpitante, andante, disfatta.
Quando Luigi, guardò l’orologio, erano quasi le quattro del mattino.
La splendida Pilàr dormiva, supina e appagata, col volto sorridente e le gambe dischiuse.
‘Povera Mariella’, pensò Luigi.
Mariella aprì gli occhi. Mancava poco alle quattro del mattino.
Mauro dormiva, supino, appagato, col volto disteso e le gambe dischiuse.
‘Povero Luigi’, pensò Mariella.
4 FRIGORIFERO ROVENTE
Partire dal Ben Gurion di Tel Aviv richiede molta buona vontà.
Le norme di sicurezza impongono per i voli internazionali di presentarsi 180 minuti prima della partenza (tre ore!) per il check in.
Quindi, per il volo delle 06.05 per Roma FCO, bisogna essere in aeroporto poco dopo le tre di notte.
Un tour de force non indifferente per chi, poi, deve raggiungere Tel Aviv da Mitzpe Ramon, settantacinque chilometri a sud di Be’er Sheva (Bershena) che a sua volta dista altri cento chilometri.
Comunque, Aaron ed io avevamo deciso di non allontanarci prima del decollo, non si sa mai, di questi tempi, se vi sia o meno una improvvisa cancellazione del volo.
Quindi, ore di auto per l’aeroporto, ore di bighellonaggio nell’aeroporto, ed altre ore per tornarcene a casa. Poco distante da Mitpez Ramon, come dicevo, dalle Colonne di Salomone, nel Negev.
Giungemmo a casa stanchi morti, e necessitanti di una bella doccia.
Ci eravamo alternati Aaron ed io nella guida. Mio fratello era più bravo di me, certamente, ma volli lo stesso dargli la possibilità di non stare sempre con gli occhi fissi sulla strada.
Mi aveva detto, con la sua affettuosa aria protettrice: ‘Sara, non ti preoccupare, posso ben guidare io. Questo è nulla di fronte alle smazzate del servizio militare.’
Comunque, eccoci a casa.
Tra una piccola colazione poco distante dal Ben Gurion e una sosta a Be’er Sheva, s’era fatto mezzogiorno. Sole a picco, caldo asfissiante.
Aperta la porta ci stupimmo del calore dell’appartamento.
Niente.
Il climatizzatore era fermo, spento.
Provammo a farlo ripartire.
Nulla da fare.
Eppure il gruppo elettrogeno era in funzione, la pompa dell’acqua marciava. Provammo ad accendere alcuni ventilatori ma muovevano solo aria calda.
Decidemmo subito per la doccia, poi avremmo mangiato qualcosa e per quello che mi riguardava sentivo proprio la necessità di un riposino.
Aaron fu subito d’accordo.
Mezz’ora dopo, col ventilatore puntato su noi, facemmo un leggero spuntino. La stanchezza prevaleva.
Ci salutammo. Il letto ci attendeva.
Si, ma il calore era insostenibile.
Aprire la finestra era peggio.
L’unica cosa era restare fermi, immobili.
Mi spogliai completamente e mi sdraiai.
Credo che mi assopii ben presto.
Non dormii a lungo, però. Mi svegliò la bocca secca, la sete.
Nel frigo ci doveva essere del succo di pompelmo. Aprii la porta, andai verso la cucina. Non pensai neppure a mettermi qualcosa addosso. Del resto non ci voleva molto tempo per bere e tornare a letto. Avrei sudato, lo so, ma la sete era molta.
Avevo aperto il frigo ed ero china a guardare dove fosse il tetrapak col succo cercato.
Sentii alle spalle alcunché di strano, la presenza di qualcuno, di qualcosa.
Mi voltai.
Aaron, nudo come me, era lì per lo stesso motivo.
Lo guardai, sorpresa, e notai subito che il suo sesso era prepotentemente eretto e gagliardo, col turgido glande, tipico dei circoncisi, che sembrava vibrare nell’aria.
‘Aaron!?’
‘Sara, che vuoi, con uno spettacolo così”
‘Ma sono tua sorella”
‘D’accordo, ma sul tuo magnifico sedere non c’è scritto.’
Mi voltai verso di lui. Non l’avessi mai fatto. Il pene ebbe un sobbalzo.
Aaron seguitava a fissarmi.
‘Come faccio, Sara, a dirgli di star calmo, hai un corpo meraviglioso, un visetto tirabaci, certe labbra che’ lasciamo stare, e quel boschetto incantato che nasconde chissà quali delizie. Deve essere stata una visione del genere a ispirare il Cantico dei Cantici a Salomone.
I tuoi occhi sono colombe’
Le tue labbra come un filo scarlatto’
I tuoi seni come due caprioli’
Tutta bella sei’
La mia vigna’ è dinanzi ai miei occhi
Aaron mi guardava con occhi di fuoco, andava avvicinandosi a me, con la sua asta ben puntata.
Mi voltai per tornare in camera mia. C’era il tavolino, vi urtai, vi caddi sopra, in quel momento sentii lo scettro di Aaron tra le mie natiche, lui che me le dilatava, afferrava il suo glande e lo puntava all’orificio della mia vagina, mi afferrò il seno, spinse, mi penetrò.
Sentii il mio grembo contrarsi, distendersi, accoglierlo gradevolmente.
Neanche sul suo sesso era scritto che era mio fratello.
Era un maschio, bello, aitante, gagliardo, poderoso, ardente, splendente, infuocato e infuocante che si accoppiava con me, ed era delizioso.
Aaron era maestoso, magnifico, voltai il capo, per quanto potei, per guardarlo.
Aveva la testa lievemente rovesciata indietro, gli occhi socchiusi, i lunghi capelli biondo-rossicci che si muovevano come una criniera leonina al vento del deserto. Le sue mani mi avevano afferrato il seno e lo strizzavano, tormentavano soavemente i capezzoli. Fece scendere una mano tra le mie gambe, la intrufolò delicatamente, trovò il fremente clitoride e cominciò a titillarlo, accelerando l’orgasmo che andava crescendo in me, che mi invadeva dal cervello agli alluci, che si ripercuoteva nel grembo, nel buchetto del sedere che sentivo contrarsi languidamente.
Una sensazione neanche immaginata, una completezza neppure sognata. Sentì certamente che avevo raggiunto l’acme del piacere, percepì il mio rilassarsi ma proseguì instancabile, e fui di nuovo eccitata, agitata, fino all’inebriante allagamento del suo seme che sembrò salirmi fino in gola. Anche il mio utero diede l’impressione di dilatarsi per accogliere quel flusso tiepido, come la zolla arida anela la pioggia e il germe che la feconda.
Ero sazia di lui e nel contempo ancora golosamente affamato di lui.
Lo sentii sgusciare da me, lentamente.
Eravamo sudati, ansanti.
Forse per sentire il refrigerio del pavimento, Aaron si sdraiò per terra, a braccia larghe.
I folti ricci del suo pube sembravano fiamme erompenti da un cratere, e da essi si ergeva, imponente come un obelisco, la grandiosità del suo fallo.
Sentii di nuovo contrarsi il grembo, mi accosciai su di lui, presi il grosso glande e lo indirizzai alla mia gocciante vagina che lo ingurgitò fremente e golosa.
Mi sembrava di dover cavalcare nel deserto, in fondo al quale c’era il pozzo dove avrei potuto dissetarmi.
Non sapevo chi ero, una Walchiria, una Furia, una Odalisca.
No, ero io che stavo correndo rapidamente verso il piacere.
Il mio palpitante vasello che bramava il pestello della voluttà.
Aaron era in me, carezzavo, suggevo, la primula rossa che lo impreziosiva; il mio scrigno del colore dell’ala del corvo custodiva uno scettro più prodigioso di quello di Davide, della verga di Aronne.
Si, era il serpente di Aronne, Aaron, trasformatosi in nodoso randello, che mi frugava, fino a morire di voluttà.
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