Cammino lungo questo sfondo di stelle e mi lascio guardare, tra gli spacchi più chiari della gonna che s’apre, tra quelli più scuri che stringo ed allargo, per ogni uomo che passa e vorrebbe vedere, se oltre l’incavo c’è una femmina calda, più nuda di quanto mi stia già sognando, dentro una macchina poco più avanti, al riparo da occhi e mogli indiscrete. Cammino tra i banchi di un mercato notturno, tra arabi e indiani che vendono spezie, ti spacciano firme che giurano vere, borse di tela che dicono pelle. A mente conto i miei averi e mi sento padrona, di tutte le voglie che pagherebbero cara, la brama di starmi vicino, il desiderio recondito di strapparmi i vestiti, e leccare i miei tacchi all’aperto di notte fino a sentirli più dritti nel segreto di un letto, nell’unico albergo aperto d’inverno.
Potrei vivere al sole per tutta la vita e d’autunno migrare in qualche posto più caldo. Ma è quello che voglio? A vent’anni mi sento già vecchia, come se mai avessi avuto un’infanzia, e ogni notte rinasco tra le cabine dei Bagni Giuditta, su questo lungomare dove ancora ci batto, e poco più avanti dove il buio m’inghiotte, consumo le voglie sopra un fascio di luna, che per quello che faccio non mi serve davvero. Mi guardo indietro e la fila s’ingrossa, sembro una sposa con uno strascico di mani, che aspettano il momento per essere i primi e cogliere a terra i fiori d’arancio.
Questi stivali di raso fanno più effetto di qualsiasi seno, qualsiasi faccia più bella di quella che porto, che trucco convinta che non sia necessario, perché tanto non serve all’amore che offro. Consumo le suole per il gusto di essere al centro, d’ogni voglia che fugge da una notte normale, da una moglie che in bagno si toglie il rossetto, ed a letto si volta e pensa a dormire. Li adoro questi uomini con gli occhi delusi che cercano ricovero in questi stivali, in questi tacchi che luccicano e si fanno seguire, senza offrire nient’altro che sappia d’amore.
E’ passato del tempo quando a torto credevo, che solo un seno scoperto facesse folla nel ventre, che una donna più nuda fosse appetito per desideri affamati. E’ passato del tempo quando m’appartavo da sola, perché nessuno avesse dei dubbi, perché io stessa li andassi a cercare, dentro le macchine piene di fumo, dietro barconi dove luccicavano sessi. Ora non c’è ora del giorno e di notte che non sia quella buona, non c’è luogo che non sia quello adatto, come ora in questo mercato pieno di gente, come di giorno seduta in un bar con una gonna qualunque. Mi riempie di fiato lasciarmi guardare, davvero sento ancora emozione, più di quanto nel ventre qualcuno s’affanna, più di quanto due mani mi cercano in fondo, tutte uguali perfino nel tatto, nel percorso che inizia dalle parti del seno e finisce alle gambe per ricominciare daccapo.
Stasera per sentirmi diversa ho rubato il reggiseno a mia madre, due misure di troppo che ho riempito di sogni, per sentirmi più grande con un maglione aderente, come un nido di lupupa adatto a chiunque, ad ogni uccello che migra o rimane a svernare.
Per sentirmi più viva ho bisogno di occhi, e ringrazio mia madre d’avermi fatto più bella, di qualsiasi donna che suo malgrado vorrebbe, competere al meglio con i miei fianchi di seta. Cammino e mi fermo perché la scia che segue si ricompatti, ed apprezzi queste gambe di nylon che mi fanno più vecchia, che mi fanno all’altezza di qualsiasi età che stasera abbia voglia, di scoprire che porto sotto la gonna. Cammino e mi fermo perché di null’altro potrei essere fiera, potrei essere sazia, come questi occhi che mi squadrano dalle scarpe ai capelli, di dietro e di fianco per vederci le forme, la posizione più adatta ai loro bisogni.
Poi immancabilmente solo uno imperterrito continua a seguirmi, e sento il caldo del fiato più grosso, le parole che nel freddo si fanno vapore, m’invita e mi guarda in un posto. M’invita e mi vuole come se la risposta che aspetta fosse un dettaglio scontato, come se due stivali che luccicano siano accessibili a tutti, e dentro non ci fossero gambe ma quello che conta, un prezzo sparato per sentire il possesso. Immancabilmente sto zitta perché dentro il mio cuore rimbomba volgare, cammino e mi fermo e frugo con gli occhi, un vestito qualunque per dare del tempo, a questo uomo di ripensarci un momento, perché torni deciso a riproporre l’invito, a farmi un’offerta che sveni le tasche.
E torna, certo che torna, più convinto di prima, perché l’idea che lascio è un misto insapore di studentessa borghese e mignotta di strada, che studia tra due corse di giorno per il prossimo esame.
Ma stasera è diverso, s’accalcano uomini per essere i primi, li sento, ma quello più vicino sa di famiglia, il suono dei passi ha la stessa cadenza dei miei senza tacchi. Oddio no! Che ci fa mio padre in città questa sera, in un luogo lontano dalle sue serate mondane, in un mercato di negri, di pulci e d’indiani? Che ci fa mio padre dietro una gonna, che fa dieci passi e poi si ferma, gli stessi che a me servono per catturare la voglia, misurare l’intenzione d’avermi, quando l’ultimo banco finisce e non rimane che luna. Lui m’ha sempre vista in jeans e scarpe di gomma, non credo che sappia che dietro questi capelli c’è sotto sua figlia, una figlia che batte di notte e di giorno fa finta.
Affretto il passo, ma di nuovo lo sento, alla stessa distanza, ora è certo mi segue, sta seguendo due tacchi che bucano asfalto, un piacere che è nato dalla stessa sua voglia. Tento d’infilarmi in un cunicolo di gente, se davvero mi raggiungesse non avrei più scampo, non saprei che scusa inventarmi all’istante, che sto aspettando un’amica vestita da troia. Non voglio scenate dentro questa bolgia, m’affretto e cammino per uscire all’aperto, perché se davvero dovesse dirmi puttana lo voglio sentire quando m’ha offerto un passaggio o da dietro mi tocca ed ha in mano il mio seno.
Ora sono fuori e mancano dieci passi prima che s’accorga chi sta seguendo. Nove ora mentre ammira il mio culo e l’illusione d’entrarci. Otto passi e preparo la faccia per rimproverarlo d’averlo pensato, di pensare solo a sé stesso, di non curarsi di ciò che passa ogni giorno sotto il suo naso.
Sette passi per veder le mie labbra, rosse quanto il suo sogno che ancora s’illude. Sei per gridargli che non è mai stato un marito e distratto non s’accorge di nulla neanche quanto traspaia la gonna di mamma. Cinque passi per sperare che possa ripensarci un istante, per cambiare verso ai suoi occhi, perché se non fosse per i chili di trucco che porto potremmo scambiarli di posto. Quattro passi per finire di colpo il suo sogno incestuoso, d’esplorarmi come un cecchino proprio nel punto che fissa da tempo. Cerco di camminare più dritta che posso, perché la mia forma non l’inviti e lo chiami, perché la mia colpa non abbia più colpe oltre a quella di essere bella.
Tre passi e m’illudo che tutto finisca, che magari m’abbia già riconosciuta e non mi segua per voglia, che creda davvero che aspetto un’amica conciata nel modo per andare a ballare. Ma che dico? Come faccio a fargli credere che lo spacco che offro, che arriva e mi sfiora nell’anima calda, sia adatto ad una ragazza che studia da sette anni il latino.
Camminiamo sull’asfalto crepato dove non cammina nessuno, dove i ciuffi secchi d’erba affiorano ed ammorbidiscono i miei tacchi. Se fosse un cliente normale ora sarebbe il momento, dove il parapetto muore sopra gli scogli, e un muro di cinta d’una villa sul mare ci copre da sguardi, da voci e da luci. Se fosse un cliente avrei già un prezzo e prima del sesso tirerebbe fuori il compenso. Se fosse normale non ci sarebbero dubbi che queste gambe gemelle vanno pagate quando la strada finisce e ora ferme servono ad altro.
Due passi e lo sento, sento l’odore del suo shampoo alle erbe, vedo il tappo verde sul piano del bagno. Mi fermo e lascio che mi raggiunga, a questo punto non ho più pensieri per difendermi ancora, per difendermi meglio quando vedrà il mio seno scoperto, il mio vestito scollato che lascia in penombra e copre per scusa la sua parte più scura. Un passo e ci sono, un passo soltanto e m’accarezza i capelli e fa parlare le mani che mi dicono ferme di non voltare la faccia. Chissà se ha capito che sta toccando sua figlia, forse è ubriaco o non vuole che il sogno si faccia reale affogando i suoi occhi dentro uno sguardo di troia.
Ringrazio la luna che stasera più amica s’è fatta da parte, trattengo il respiro perché non riconosca l’odore, lo sento ansimare mentre mi cala la gonna, mentre più deciso mi cerca da dietro il mio ventre. Oddio che vergogna! Appiattisco la faccia sul muro, che non gli venga la voglia di sapere quanto gonfie sono le labbra, quanto belle appannate al piacere, lo stesso che ora mi bagna e scalda i capelli. Oddio che vergogna! Ma qualcuno dalla villa dà un urlo, lui scappa ed io mi rivolto, l’uomo inveisce chiamandomi troia, ma tiro un respiro e gli regalo un sorriso, mentre cammino e m’alzo la gonna, mentre il buio m’inghiotte e scontorna i miei fianchi.
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