Tu calcolavi attendendo che il gioco si sarebbe esteso prolungandosi all’infinito, perché il frugare e il perlustrare nel passato fosse soltanto un modo per comprovare e per giustificare il desiderio di scoprire e in qualche modo il netto rivelarsi dei pretendenti, per il fatto che si confessano elencando accorgimenti e scusanti per attuare cercando di plasmare una storia comune e perlopiù altamente diffusa. Tu accettavi per buono che io raccontassi in modo attendibile e preciso quando farfugliavo confusamente piegata sul tuo torace, confabulandoti dei versi di puro amore davvero formidabili, desunti dalle tante occasioni della nostra attività e della nostra esistenza quotidiana normale e per di più lungamente trascinata.
Io ammettevo tutto ciò che c’era nel tuo groviglio d’emozioni, mentre a fatica cercavo qualcosa che potesse avere un’ambizione e un ruolo, così come se tramite il tuo accorgimento e il tuo espediente si frapponesse piombandomi e scivolandomi in conclusione dentro un non so che cosa di te, quella fragranza per l’appunto arcigna, insperata e perniciosa della vita, del tuo modo di vivere adoperato nelle esperienze che t’avevano contraddistinto e marchiato con indelebili e indimenticabili cicatrici. Io ammiravo l’elevarsi giornaliero del sole, laddove tu m’accerchiavi abbracciandomi nel tempo in cui noi due lo ammiravamo simultaneamente dipingere con il suo disco di fuoco il confine fra il cielo e la terra, mentre le nostre bocche fameliche si smarrivano nei baci. Noi due in conclusione commentavamo vicendevolmente, che la felicità si potesse comperare con poche monete nella bottega all’angolo della vita, dove un rigattiere disattento e sbadato accatasta e mette insieme apparenze e indizi, aspirazioni e intenti accaparrati peraltro a buon prezzo da gente comune, che non può più permetterseli oppure che li giudica inutili scarti e invane paccottiglie, e ragionevolmente lo sono, qui e ora però io m’astengo e interrompo di commentarle.
Dalla quella via, nel frattempo, risalgono rumori e voci, suoni di clacson assieme al brusio continuo e vario della gente che passeggia. Io m’alzo, m’avvicino alla tapparella e scruto il defluire e il continuo trapelare dell’esistenza, nel momento in cui medito che questo sia il lasso di tempo definitivo e risolutivo, dal momento che domani me ne andrò, cancellerò e rimuoverò questi giorni dalla mia testa, dalla mia carne e in special modo dal mio sesso. Non occorrono infatti parole per i saluti, perché ci siamo già detti addio con gli occhi, con il fremito delle mani, con l’indugio e con la remora del nostro brandirci, con la complicazione e il groviglio nel gozzo che blocca e inibisce addirittura i piagnucolii.
L’energia vitale circola, guizza e scorre, visto che ci consumiamo e ci debilitiamo nella colata accanita e discontinua d’accadimenti, di peripezie e di vicende prive d’impronte, d’indizi e di segnali che si dissolvono e che spariscono, di spettri di carinerie distaccate e neutrali, d’auspici e di pronostici senza alcuna completezza né esuberanza né gratificazione. La mano si posa sopra la soglia della persiana, le terga sono percorse da un sobbalzo, visto che pare un’arietta quando tu mi bisbigli dietro l’orecchio, successivamente quel fluido della tua lingua rasenta la collottola e dopo s’insinua abilmente, nel frattempo tu astutamente mi sollevi la gonna:
‘Dio però che delizia, la cupidigia e il languore di te, è proprio magnifico. Lo sai questo?’.
Le tue mani si snodano tra i miei fianchi, m’aprono i glutei, scorrono sul ventre dove abilmente producono e suscitano fiamme nel sangue.
‘Come potrò cavarmela e resistere?’.
Adesso scendono dalle gambe fino alle caviglie, io colgo intercettando l’amorevolezza della tua testa sulle mie gambe, tenuto conto che le stai arruffianando e lustrando. L’ardore s’afferma, affluisce, aumenta e si diffonde nello stomaco, io resto immobile, tu mi spalanchi le gambe, risali ancora e attualmente la tua testa è lì in mezzo. Io ti sento mormorare allorquando tu mi tocchi di sfuggita la fica e picchietti il clitoride con la punta della lingua. Un fiotto di fluido cola nella tua bocca, al momento tu deciso assedi e foderi le labbra con la lingua, le prendi tutte dentro la tua bocca e succhi, per il fatto che mi stai bevendo con diletto facendo rumore ed eccitandoti. In questo momento sento le spinte violente dall’utero, gli spasmi intensi nella vagina, il tuo dito nell’ano mentre la lingua mi penetra, s’alterna dentro, mi coglie sino in fondo, s’infiltra e dopo fuoriesce, perché lappa, lusinga, flagella, rifinisce e va a tempo con il dito, giacché è un mancamento, un’alterazione della coscienza, allora io m’appoggio sulla soglia della persiana.
Tu stai al momento sragionando, stai esplodendo, ti stai svuotando sulla mia pelosissima e deliziosa nera fica, visto che stai sborrando pienamente di gusto, poiché emetti quasi un fragore d’estremo e d’incredibile piacere andando in visibilio, sennonché m’afferri per la vita, mi monti per terra, dato che m’agguanti, mi rovisti, mi rotei dentro, spingi e tra quelle continue contorsioni e quegli irrefrenabili fremiti, m’inondi tutta bollandomi e marchiandomi con il tuo bianco sperma.
Quelle botte tormentose e ripetute mi sconquassano smembrandomi l’addome, io sto godendo tantissimo, perché quegl’istanti sono inenarrabili e fantastici, in quanto si diffondono in consecutivi flutti di puro piacere dalla fica fino alle gambe, dopo digradano fluendo verso il basso in un ammasso di goduria esaltante sul clitoride, per concentrarsi al centro e all’interno fino all’utero, fino al cervello, dove deflagrano annientandomi e demolendomi. Il tuo cazzo adesso martella, pulsa dentro di me, mentre in quel preciso istante tu visibilmente apprensiva, stanca e visibilmente preoccupata, sennonché tangibilmente tormentata in maniera animosa sbraiti:
‘Amore, tu non puoi lasciarmi, neppure io posso però più mollarti’.
{Idraulico anno 1999}
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