“Era sera e non c’era nessuno…”
Paola aveva un bel culo. Gli uomini che si accorgevano della sua
presenza non potevano fare a meno di abbassare di sfuggita lo sguardo e accarezzarlo con un’ occhiata. Lei, che in adolescenza ne era imbarazzata, da adulta ne aveva preso coscienza e si muoveva in modo da rendere questo atto possibile, guardando altrove, ridendo, dicendo sciocchezze, girandosi… come se sapesse che la coazione era irresistibile e non volesse imbarazzare i suoi ammiratori guardandoli un po’ troppo fissamente negli occhi con il suo sguardo leggermente strabico. Non che si vestisse in modo appariscene, tutt’altro. Non era nemmeno bella. Ma aveva un bel culo. Largo, naturalmente vasto, rotondo, un po’ a chitarra ma quel tanto che basta. Un po’ di cellulite, ma davvero solo un po’. Quando metteva dei pantaloni leggeri, aveva cura di indossare, sotto, uno string praticamente invisibile, che valorizzava le sue rotondità. L’anello muscoloso fioriva in mezzo ad un piccolo ma fitto cespuglio di peli, simili a quelli due o tre che spuntavano da un neo al lato della bocca, quel tipo di difetto che di solito viene considerato grazioso. Lei non si curava di tagliarli spesso ed era impossibile non accorgersene, anche perché ogni tanto la punta della lingua appariva fra le labbra e si piegava a sentirne le punte, e aveva l’abitudine di spogere leggermente le labbra dopo questa operazione. Tutto questo contribuiva a svegliare l’attenzione che poi si indirizzava, in modo oscuro ma infallibile, verso la parte opposta del suo corpo; della quale anticipava in qualche modo il mistero. No, Paola non era bella. Ma il culo, il culo, il culo, appunto, in mezzo al quale un ciuffetto di peli appariva come un timido animale che voglia prendere aria.
Aveva sposato a ventisette anni un medico che ne aveva quarantatré. All’inizio si erano abbastanza divertiti a letto, poi le cose fra loro si erano calmate e il sesso era diventato sempre più raro. Continuavano a stare insieme più per abitudine che per interesse reciproco, e in lui anzi era nato un sentimento di distacco e quasi di repulsione per certe caratteristiche di sua moglie che dentro di sé considerava un po’ bestiali. Si contentava di godersi di tanto in tanto le grazie di qualche giovane infermiera dell’ospedale. Lei non diceva nulla, tanto poco ormai era l’interesse residuo che aveva per quell’uomo sulla soglia dei sessant’anni. Avevano provato ad eccitarsi con qualche giornale porno, ma era una cosa così noiosa…
Con gli estranei era l’esatto opposto. Quando usciva a fare la spesa sentiva gli occhi di maschi vigorosi e volitivi che la seguivano. Sapeva dove guardavano e, quando era giovane e paurosa, cercava di camminare in modo da non far ondeggiare troppo quella parte del corpo. Ma otteneva l’effetto di muoversi in modo leggermente innaturale e, come spesso succede quando Sua Maestà il senso partecipa al gioco, questo sortiva l’effetto opposto. Se guardava in una vetrina o passava davanti ad uno specchio vedeva con la coda dell’occhio gli sguardi dei maschi fendere l’aria come frecce. Acuminate e pericolose un tempo, erano diventate con gli anni simili ad innocue carezze che le infondevano una strana sicurezza.
Paola non poteva guardare dalla finestra della cucina il postino che spingeva sui pedali la sua bicicletta verso le case vicine senza che immediatamente, nel pensiero, apparisse la fantasia dettagliata di quel corpo e il ricordo del suo odore di sudato e poco pulito, che regolarmente si presentava alla porta della loro villetta. E si bagnava fra le gambe mentre abbassava lo sguardo sulla cipolla che stava facendo a fettine con un lungo coltello da cucina. Le lacrime agli occhi e quelle che scendevano verso le ginocchia -in casa il suo deshabillé non prevedeva mutande- le davano, insieme, una trasciante ventata di vita. Poi faceva il caffé di metà mattinata e lo portava al marito; se era in casa, o se lo beveva da sola.
Ma cos’avrà il mio sedere? era solita chiedersi quando era più giovane. Poi non ci aveva più fatto caso e, andando avanti con gli anni, ci aveva preso gusto. Nei discorsi delle sue amiche la preoccupazione delle rughe, l’ inesorabile afflosciamento dei seni, la lenta deformazione dei fianchi e del ventre, assieme ad una sottile ma tagliente venatura di rabbia per il tempo che passava, una ricerca vana di vittime femmine da aggredire, meglio se giovani, apparivano sempre più spesso. A lei bastava guardarsi allo specchio e non tardava a comparire una sua personale espressione di vittoria e di sfida. In lei persisteva la coscienza della coazione inesorabile che sapeva di generare nei maschi estranei quando entrava nel loro campo visivo. Questa segreta convinzione teneva a distanza il trascorrere del tempo.
Le conferme era quotidiane. Il tempo che passava era scandito dal suo progresso nella sapienza del governo del desiderio altrui. Non c’era altro, grazie al cielo. Nelle sue serate, le donne giocavano a canasta, gli uomini a bridge, Lei si divertiva con gli obblighi di padrona di casa, perfettamente a giorno di essere, o meglio di possedere l’oggetto della attenzione di tutti i maschi presenti. Le altre donne la detestavano per questo, ma nessuna aveva il coraggio di dirlo. Paola ne era ben cosciente ma non sospettava fin dove esse potevano spingersi.
Con tanti uomini che la guardavano a volte in modo del tutto sfacciato, il passaggio alle vie di fatto per lei non aveva sorprese. Quando lo desiderava, esso avveniva a colpo sicuro, seguendo di solito percorso simili. Come era stato tanti anni prima, quando il migliore amico del marito si era trovato con lei in un ascensore e le si era lanciato addosso mugolando, le aveva infilato le mani sotto la gonna, spingendo le dita nel solco profondo fra le vaste natiche, fino alla sua piccola foresta segreta. Un poco più oltre, quando le dita erano arrivate a frugare proprio quel punto fatale dell’ano che più è prossimo alla vagina e dove abitano spiriti festosi e violenti, lei non aveva potuto trattenere un suono del quale non si sarebbe detta capace. E l’uomo, mentre la guardava come se avesse ricevuto una coltellata improvvisa, aveva eiaculato lì, nei pantaloni. Si erano ricomposti e erano usciti dall’ascensore vergognandosi, lui certo più di lei, delle facce che li avevano sorpresi all’apertura delle porte automatiche.
Questo schema si ripeteva regolarmente e lei lo dominava ormai dall’inizio alla fine, come un domatore in un circo. L’attenzione dell’uomo magnetizzata dal culo, la sua corte immediata e di solito irragionevole, il tentativo di affondare le mani o certe volte il pene in erezione saltato fuori come per magia, in mezzo alle sue natiche. Aveva rapidamente imparato che, se non avesse fermato le cose prima di quel punto, il seguito sarebbe stato quasi sempre poco interessante. Se lui fosse arrivato a toccarla lì, lei non sarebbe riuscita a trattenere il suo gemito naturale, lui avrebbe perso del tutto la ragione e cercato di possederla lì per lì, col rischio di situazioni imbarazzanti o di scandali. Poi lui si sarebbe allontanato tristemente. Oppure, come succedeva spesso, sarebbe venuto al solo udire il suo segnale, e lei non avrebbe saputo trattenere un certo disprezzo che non voleva provare.
Quindi interrompeva il gioco con un comando espresso in un tono che rendeva la disubbidienza impensabile e che nella quale si sentiva la sua piena convinzione di essere lei, e solo lei, a prendere le decisioni del caso, e che il suo partner del momento l’avrebbe obbedita in tutto e per tutto. Allora le cose potevano farsi più interessanti. C’erano stati i regali, le richieste di appuntamenti, le serenate con accompagnamento musicale, le proposte di matrimonio o, dopo spostata, di divorzio dall’attuale marito e nuovo matrimonio. Fin qui le proposte erano abbastanza noiose. Ma fra quelli che il suo culo aveva magnetizzato e lei fermato in tempo c’erano poeti, navigatori, preti, intellettuali, attori di successo, uomini dolci e teneri, alcuni di loro dotati di una sorprendente fantasia. Ci fu uno che si arrampicava sul campanile di un villaggio dal quale guardava la finestra della sua cucina con un binocolo e le faceva segnali con uno specchietto. Ci fu un altro che entrò in casa sua travestito da operaio del comune, dicendo che doveva ispezionare il pozzo nero e la agguantò da dietro mentre risalivano le scale della cantina.
Se non poteva fare niente per impedire l’attenzione che il suo culo eccitava regolarmente sempre ovunque andasse, Paola tentava di recuperare il suo amor proprio esercitando il suo controllo sugli effetti della sua potenza attrattiva. Una volta, in treno, uno sconosciuto fece una sorta di danza attorno alle sue rotondità, parlando del più e del meno ed eccitandosi via via, come un satellite che sia sul punto di cadere sul piantea attorno al quale sta ruotando. Era nel vagone bar, sulla linea Roma-Venezia. Lei aveva preso un’aranciata e se la sorbiva appoggiandosi ad un alto strapuntino. Mentre il suo occasionale compagno di viaggio andava e veniva dal banco del bar, lei aveva trovato una posizione che le permetteva di appoggiarsi allo strapuntino con quella parte del corpo in lei così sensibile. E si masturbava senza pensarci, mentre parlavano degli ultimi film o di altre cose senza interesse. L’uomo diceva delle cose che non si tenevano insieme, ma aveva una voce dolce. Continuava quella danza da una ventina di minuti quando lui le toccò la mano, con gentilezza, e lei ebbe un tale rivolgimento interno che fu presa dal terrore che il liquido caldo che sentiva scorrere ormai da un bel pò non facesse macchia sulla gonna di jeans. Sentì la glottide contrarsi come una bestia selvaggia pronta allo scatto. Sorrise, ritirò la mano, lui la riprese con un tremito e in quel momento il treno passò su uno scambio, scuotendo il suo contenuto come dadi da gioco. Il culo di Paola si spostò sullo strapuntino, mentre lui cadeva in avanti, con la mano libera si aggrappava al bordo del tavolino. Senti che l’alta si posava sulla mammella e le dita prenderle il capezzolo. L’eccitazione fu tale che Paola emise il suo verso. E lui come quell’altro la guardò come se lei le avesse vibrato una coltellata all’addome e se ne venne lì, come quell’altro, nei pantaloni.
Paola aveva così iniziato a riflettere sull’altro attributo che il suo corpo nascondeva: il curioso verso che le veniva quando era eccitata, e al quale pareva che gli uomini non sapessero resistere. Cercò di imparare a controllarlo, ma non era sempre possibile. Una volta, in una gita del gruppo archeologico, un giovane studente di belle arti, con pochi peletti graziosi sul mento, aveva avuto nei suoi confronti attenzioni inequivocabili. L’aveva aiutata a salire e scendere le scalette di legno che portavano nelle trincee di scavo, le aveva spiegato il senso dei frammenti raccolti nella baracca dal tetto di lamiera che si trovava a margine dell’area, aveva bevuto esattamente le stesse cose che aveva chiesto lei al grill sull’autostrada e aveva preso un’ aria inebetita quando lei gli aveva annunciato che lo avrebbe lasciato solo per un momento, per andare alle toilettes. Nel gruppo delle donne che aspettavano lo aveva visto aggirarsi fra i banconi dell’autogrill come un cane randagio, lanciandole sorrisi al di sopra dei fogli di cellophane e delle uova di Pasqua. Aveva provato tenerezza per lui, e l’amica con la quale aveva deciso di partecipare a quella gita l’aveva osservata con aria complice di chi sa come va a finire. Aveva scherzato con lui in modo sempre più cordiale, come scaldandosi nel vedere il bel giovane completamente soggiogato dalla forza gravitazionale delle sue chiappe rotonde.
Nella corriera, sulla via del ritorno, lui, sedutole vicino, non aveva saputo immaginarsi niente di meglio che una viscida manomorta. Lei si era concentrata sulla sua voce, decisa a trattenere il verso fatale, e poi aveva scostato la mano, ma lui era ormai violentemente eccitato e l’atteggiamento di lei, specie nelle ultime ore, rendeva poco credibile anche a lei una tardiva ritrosia. Così la mano era tornata alla sua coscia, lei l’aveva lasciata vagare quanto bastava, poi l’aveva scostata di nuovo. Finì che lui si controrse fino a posare le sue labbra sulle sue, e iniziò un lungo bacio sempre più profondo, che lei interruppe per dirgli di non spingersi troppo il là con le mani, ma poi riprese, perché le piaceva, e poi interruppe di nuovo, perché il ragazzo ormai non stava più nella pelle. Allora lei pensò che se lui fosse venuto forse si sarebbe calmato, almeno per un pò. Nel buio si chinò verso di lui e infilandosi una mano sotto la gonna, stringendo sotto lo slip il grosso clitoride fra il pollice e l’indice. Era eccitata, cercò un pò più giù, trovò un laghetto, tornò al clitoride, strinse ancora un poco, e sentì il l’orgasmo risalirle in gola, mentre avvicinava la bocca all’orecchio di lui. Strinse più forse e il verso nacque improvvisamente dalle sue corde vocali come le altre volte: inaspettato, incredibile; selvaggio. Al sentirlo lui ebbe un soprassalto, aprì la bocca e strabuzzò gli occhi in modo inequivocabile, mentre lei contemplava il risultato delle sue attenzioni e veniva sua volta, piano, appoggiandosi al corpo di lui e senza che nessuno dei compagni di viaggio, nell’oscurità, si accorgesse di alcunché. Dieci minuti dopo il giovane aveva ripreso forza, ma lei aveva iniziato a maltrattarlo cercando argomenti che gli facessero passare la nuova erezione. Si sentiva un po’ come immaginava dovesse sentirsi un maschio quando ha appena posseduto una donna che in lui provoca ecitazione sessuale e niente altro. “Forse sono un po’ maschio”, si diceva pensando anche al suo clitoride decisamente grosso. Si buttò da un lato e fece l’atto di dormire, pur pensando che non ci sarebbe riuscita e lasciando la mano di lui farsi strada e prendere possesso della sua meraviglia vivente. Poi si addormentarono entrambi, lei covando come una chioccia la mano dello studentello domato.
Dimitri era un operaio ucraino che faceva lavori occasionali per imprese edili e volteggiava come una grossa scimmia sul ponteggio che fasciava la casa dirimpetto. Lei aveva pochi dubbi che quei volteggiamenti le fossero indirizzati, come una danza di corteggiamento. Sapeva che dal ponteggio lui poteva vederla in cucina e a modo suo rispondeva, roteando con maestria attorno le natiche come ormai aveva imparato. Lui le faceva saluti con la mano e quando passava davanti alla finestra dove lei tagliava le sue cipolle salutava sempre con molta cortesia. Uno strano essere, quel russo. Aveva modi fuori atmosfera, che pareva aver appreso in un’altra vita, che a lei sarebbe piaciuto immaginare in un contesto del tutto diverso da quello della Romania socialista negli anni ’60, che lei immaginava terribilmente deprimente, dopo aver letto alcuni giornali che raccontavano di bambini abbandonati e di minatori morti in miniera. La rigidità dei suoi modi faceva uno strano contrasto con l’agilità di cui dava prova quando saliva sui ponteggi. Pareva un essere con una doppia vita, un po’ un Dottor Jeckill e Mister Hide. “Grazie Signora, lei è mmolto bbona” -disse compunto, senza rendersi conto del doppio senso, quando lei mise sul davanzale della finestra una mezza torta di ricotta un po’ in là nei giorni, facendo segno agli operai di venirsela a mangiare. Gli operai, naturalmente, non si erano fati pregare, e lei aveva mietuto una camionata di sorrisi e di complimenti piuttosto volgari. Da quel giorno tutto il cantiere l’aveva eletta a protettrice e il ponteggio risuonava di saluti da mane a sera, tanto che alla fine aveva dovuto chiudere le tendine, dopo che un operaio albanese aveva tirato fuori l’uccello dal sommo del tetto e glielo aveva mostrato. L’ucraino se ne era accorto ed era nato un alterco in seguito al quale l’albanese era quasi volato dal ponteggio e poi era stato cacciato dal cantiere.
Un giorno l’ucraino passò davanti al cancelletto che chiudeva il passaggio che portava al giardinetto posteriore proprio mentre lei finiva di portar via con un rastrello un po’ di foglie secche che il vento vi aveva depositato. L’operaio sfoderò un sorriso vasto animato da denti d’oro e lei rispose ruotando su un piede, come ruota un mappamondo, mentre sentiva la forza gravitazionale che esercitavano le sue rotondità posteriori sull’uomo, sensibile come l’ ago di una bussola. Egli ne fu quasi risucchiato e entrò nel giardino. Lei sulle prime tentò di essere scostante, ma come al solito ottenne l’effetto opposto. Pareva che l’uomo fosse ormai entrato in un orbita dalla quale non poteva più liberarsi.
Iniziò a parlarle della sua terra natale e di sua madre, che era laggiù che lo aspettava. Lei pensò che il partito migliore da prendere era di lasciarlo parlare, e si sedette su un gradino. Lui le raccontò che la sua era una terra bellissima, piena di galline e di pecore e che se lei lo avesse sposato l’avrebbe portata là. Paola rimase un po’ interdetta a questa proposta, in nulla simile alla eccitazione animale che sapeva di provocare di solito. Lo lasciò svolgere la sua fantasia infantile di una casetta, con animali, e lei, e bambini, un quadretto felice che sembrava nato da un libro di fiabe e faceva un certo contrasto con la virile figura dell’uomo e i segni profondi e crudeli che la vita gli aveva inciso sulla faccia.
Era sera e non c’era nessuno. Per fare un po’ di luce provò ad accendere una grossa candela rimasta nel giardinetto dalla celebrazione del suo trentottesimo compleanno, due mesi prima. Tirava un po’ di vento e l’uomo colse l’occasione per avvicinarsi, cercò di proteggere la fiammella del fiammifero con le mani e lei sentì che, là sotto, stava eccitandosi. Finalmente la candela fu accesa, ma piuttosto che illuminare la scena la luce traballante, riflettendosi sulle sue ginocchia, rese la situazione ancor più oscuramente sensuale. “Ora devo andare”, fece lei, sentendosi quasi presa in trappola da sé stessa, e si sollevò in piedi, girandosi verso la porta, e pensando troppo tardi all’ombra dei suoi due globi alla luce della candela, e al suo effetto irresistibile. Mentre girava la maniglia lo sentì infilarle le mani sotto la gonna e spingerla dentro. La porta si richiuse e lo sentì nel buio frugarle il seno dicendole nell’orecchio parole incomprensibili, e mordendola delicatamente sul collo. Poi le mani cominciarono a scendere verso il basso. Fra loro si era eretto, presuntuoso, il membro dell’uomo, di misure relativamente normali ma con un odore piuttosto forte. Lei cercò ancora di sottrarsi. “Va’ via, non ti voglio”. Ma ormai il russo l’aveva spinta sul tavolo da cucina, freddo sotto le natiche nude, e sembrava completamente fuori di sé. Le guardò il sesso per qualche secondo, poi lo prese con la mano come avrebbe potuto fare un gorilla con il ramo di un albero, mettendo dentro il pollice e chiudendo le altre dita sulla sua folta foresta. Paola si sentì un rigurgito e l’urlo nacque istantaneo, e questa volta fu belluino, acuto, terribile. L’uomo si irrigidì, la guardò ritirò la mano e le fece una domanda incomprensibile, dura. Sentì fremere il corpo fra le sue gambe e, decisa a sottrarsi a quella stretta, gli prese il polso dicendo: “Ora basta”. Lo respinse ma lui tornò alla carica, immobilizzandola e gridando frasi incomprensibili che non avevano niente di dolce o di amichevole. Sembrava furioso. Paola ebbe paura. Percepì un bagliore nelle sue mani. Poi lo sentì muoversi in modo inconsueto, come se remasse con le braccia. Sentì una strana sensazione all’addome ed un improvviso conato di vomito, e si vide le mani coperte da un liquido caldo. Riconobbe la lama del coltello delle cipolle che appariva e scompariva. Lui intanto continuava a colpirla, con uno sguardo da pazzo. Le diede sette o otto coltellate, una delle quali spezzò l’arteria femorale. Fuggì senza dire una parola quando lei cadde a terra. Nei venti minuti che rimase in vita le passarono davanti tutti gli altri che il suo culo aveva soggiogato, mentre con gli occhi chiusi e i denti stretti pensava che era brutto e ingiusto morire così, per mano di un imbecille.
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