Tortura cinese

“Troppi pensieri libidinosi per la mia mente…”

Paola era la classica donna che non passava inosservata. Seno
imponente, curve generose al posto giusto, non la vedevi mai senza trucco e abito coordinato; neppure se pur fosse uscita solo per gettare l’immondizia. Ma non dava l’aria di tirarsela, tutt’altro: molto espansiva, solare, sempre sorridente, la battuta pronta, ironica e a volte maliziosa. Tutto l’opposto del marito, che sembrava schivare ogni contatto umano per lesinare il saluto.
Eravamo vicini di casa ormai da tre mesi, da quando mi ero separato e trasferito in un appartamento ammobiliato, che prima di me era affittato a studenti, all’ultimo piano di una piccola palazzina in un quartiere residenziale dove le famiglie vivono nella stessa casa da generazioni. Paola era stata la prima a darmi il benvenuto, appena arrivato; ci teneva a raccontarmi vita, morte e miracoli del mio appartamento e dei precedenti inquilini. Dapprima la tenni un po’ a freno, temendo fosse la solita curiosona in cerca di novità per spettegolare col vicinato. Poi capii che era in cerca di amicizia vera. Pur essendo entrambi da un pezzo negli “anta” (e lei, probabilmente, da prima di me; anche se teneva gelosamente nascosta la sua età), avvertivo in lei una grande vitalità, molto in sintonia con la mia.
Continuavamo a darci del lei mantenendo una certa formalità, come se giocassimo ai bravi vicini educati, ma non stavo più nella pelle dal desiderio di scoprire se quella sensualità elegantemente erotica che trapelava dal suo aspetto fosse solo apparenza o se fosse quel vulcano dormiente che speravo.
L’occasione me la fornì quando mi chiese: “Allora, come si trova? Ha fatto dei cambiamenti? La camera da letto l’ha mantenuta nella stanza che guarda casa mia?”
Avrei voluto risponderle: “E’ quella con la finestra da dove ti guardo quando ti spogli, dimentichi spesso la tenda mezza tirata…” Ma le dissi: “salga un attimo, le faccio vedere la casa, se non si spaventa del disordine, sa da single sono anche molto fuori casa…” “ma io non gliela sistemo mica, sa…già fatico a fare le mie, di faccende…” solite banalità.
Capii che da quand’ero arrivato non attendeva altro che quell’invito. E guarda caso, cadeva proprio in un pomeriggio d’estate, mentre il marito era intento alla sua solita pennichella di cui lei, sempre casualmente, mi aveva informato.
Paola pareva conoscere perfettamente il mio appartamento. L’arredamento era d’epoca, come lasciato dal vecchio proprietario, lei mi aveva raccontato essere un professore di matematica presso cui prendeva lezioni quand’era studentessa liceale. Tutto aveva un’aria austera, immutata da decenni come fosse un museo, nonostante alcuni poster e adesivi lasciati dagli studenti, che non avevo rimosso un po’ per pigrizia, un po’ perché speravo di trovar presto una miglior sistemazione. Stavo utilizzando il minimo indispensabile, ignorando completamente alcune parti della casa. Come lo studio del professore: una stanzetta verso cui Paola si diresse immediatamente, ansiosa di ritrovarci ciò che ricordava: una scrivania a parete, incastonata in una libreria.
“Sapesse quanti pomeriggi ho passato qui…” e così dicendo si sedette sulla poltroncina davanti alla scrivania.
“Era severissimo, sa… Mi dava certe punizioni…” nel pronunciare queste parole mi guardava dal basso in alto, con lo sguardo di chi sa di aver qualcosa da nascondere e si attende un rimprovero. Ero in piedi, appoggiato alla scrivania, immaginavo di essere il professore che esaminava il suo quaderno pieno di errori.
“Ah, si? Se ne ricorda ancora? Punizioni…corporali?” dissi in tono ironico.
Senza dir nulla sollevò la serrandina della scrivania e aprì con decisione un cassetto laterale. Pareva vuoto, ma vi infilò una mano, frugando in fondo…le sfuggì un gridolino di eccitazione, estrasse due bacchette cinesi di bambù, me le mostrò come avesse trovato un tesoro: “ma pensi…sono ancora qui!”
“Ah, era quella la punizione? Le faceva mangiare riso cantonese?” ironizzai.
“No, no…davvero, era severissimo. Ma per il mio bene. Mi infliggeva certe punizioni…”
“La bacchettava sulle dita?”
“No… me le batteva dove non si vedevano i segni. Me ne dava tante…”
“Che se le ricorda ancora.”
“Me le ricordo, sì…ma non è un ricordo brutto. Era per il mio bene…” E così dicendo mi guardò di nuovo con quell’aria da ragazzina che ha qualcosa da nascondere.
Troppo ambiguo quello sguardo. Troppi pensieri libidinosi per la mia mente. Decisi di giocare una carta: fosse stata sbagliata, tutt’al più avrei rotto l’amicizia.
Appoggiai un gomito alla scrivania, avvicinai il viso ad un palmo dal suo, con l’altra mano le sollevai il mento costringendola a guardarmi dritto negli occhi:
“Paola, anche adesso meriteresti una punizione. Per il tuo bene.”
“Se lo dice lei, professore, la merito. Mi punisca.”
Avevo ancora il forte dubbio che Paola mi volesse solo provocare.
“Preparati alla punizione.”
Paola lentamente – molto lentamente – si alzò e si slacciò i jeans, calandoli fino alle ginocchia. Si appoggiò con i gomiti alla scrivania e inarcò la schiena protendendo i glutei in alto. Rotondi, sodi, una meraviglia ora, chissà che schianto quand’era una ragazza! Indossava un perizoma che le spariva tra le natiche.
“Sono pronta per la punizione, Professore.” Lo disse con estrema serietà.
La gola mi si era seccata dall’emozione. Avrei voluto tuffare la mia lingua in quel solco scostando la stringa del perizoma, tirarglielo per farlo entrare tra le grandi labbra, respirare tutto il profumo di donna in calore che le sentivo emanare da ogni poro. Ma non era il momento.
Afferrai entrambe le bacchette dal lato sottile, tra il pollice e l’indice, e vibrai la prima sferzata, al centro della natica, con uno schiocco secco. Le sfuggì un mugolio, si morse il labbro mentre il rossore affiorava.
Non avevo mai usato bacchette per quello scopo, mi resi presto conto che potevano lasciare segni molto marcati sulla pelle di Paola. Ma lei non li vedeva, né pareva provare troppo dolore. Preso dalla foga e incitato dai suoi mugolii trattenuti, le feci divenire molto presto le natiche paonazze. Paola era scossa da brividi ad ogni colpo, il respiro le si faceva sempre più intenso ed affannoso, finché la vidi sollevarsi e stringere le gambe come se dovesse trattenere la pipì, ma capii che semplicemente voleva trattenere l’orgasmo.
“Non riesco a completare la punizione se non collabori”.
“Farò tutto ciò che vuole, Professore”
La mia fantasia galoppava. Mi giocai il jolly. Chìssà se il professore era veramente porco o solo un po’ sadico.
“lo sai cosa devi fare adesso?”
Paola senza fiatare si diresse verso la camera da letto. Come se vi fosse stata il giorno prima.
Si sfilò i jeans tenendo il perizoma, si slacciò la camicetta e si tolse il reggiseno. Poi si sdraiò sul letto supina, con le braccia protese verso la spalliera in ferro battuto.
Mi sentivo come se lo spirito del Professore si fosse materializzato e fosse lì a guidarmi.
Presi una sciarpa e le legai i polsi alla spalliera. Incrociai il suo sguardo e trattenni con enorme fatica l’impulso di baciarla. Troppo bella, sfacciata e provocante nella sua finta ingenuità. Le guance le erano diventate rosse come prima le natiche.
Recuperai le due bacchette e andai in cucina a prendere due elastici.
Le montai a cavalcioni e avvicinai tra di loro gli enormi seni stringendoli tra le ginocchia. Poi imprigionai entrambi i capezzoli tra le due bacchette e bloccai tra di loro le bacchette con gli elastici.
Subito i capezzoli diventarono tondi e paonazzi come due ciliegie.
“Questo il professore non me l’ha mai fatto.”
“Oggi ti meriti questo. Il Professore sono io!”
“Sì Professore. Tutto quello che vuole farmi è solo bene per me.”
Afferrai le bacchette al centro e le sollevai i capezzoli, tenendoli in tensione sempre più al limite, finché sfuggirono di colpo dalla morsa mentre le bacchette schioccavano tra di loro.
Resistetti alla tentazione di succhiarle quelle ciliegie così violentate e certamente dolenti.
Le sfilai il perizoma e per un attimo mi fermai ad ammirare estasiato il suo monte di Venere perfettamente depilato.
Mi inginocchiai tra le sue gambe divaricandogliele e finalmente scoprii il clitoride. Era esattamente come lo desideravo, per soddisfare la mia fantasia: eretto, sporgente e di generose dimensioni!
Ripresi le bacchette e imprigionai tra di loro il clitoride, fissandole sempre con gli elastici. Le bacchette si incurvavano e guardando l’espressione di Paola sembrava che non avvertisse più di tanto la tortura, o la sopportava stoicamente. Mano a mano, avvicinando gli elastici al clitoride, aumentai la pressione e la puntina sporgente diventava sempre più paonazza, ma Paola nonostante, qualche tremito, non sembrava ancora al limite del dolore. Non resistetti più: intinsi un dito nella secrezione della sua vagina e iniziai a massaggiarle la puntina sporgente, lucida tesa e ormai viola. Paola si irrigidì, iniziò a tremare sempre più, cercò in ogni modo di chiudere le gambe, di rattrappirsi per sottrarsi allo stimolo, ma fui implacabile, la mantenni a gambe divaricate mentre le torturavo la punta che ormai doveva essere insopportabilmente sensibile, finché esplose in un urlo liberatorio e si abbandonò all’orgasmo.
Le liberai il clitoride martoriato dalla morsa, sempre resistendo alla tentazione di alleviarle la sofferenza con la carezza della mia lingua, e le sciolsi i polsi.
Paola, uscita dal trance dell’orgasmo, pareva essere uscita anche dalla sua immedesimazione nel ruolo della liceale ed essere tornata al presente. La sua voce non era più da ragazzina timida e sciocchina, era tornata quella della donna matura e sicura di sé.
“Non osavo sperare che avrei trovato un master.”
“Non sono un master. Diciamo…anche. Ma per gioco.”
“Davvero? Mi piacerebbe essere la tua slave…”
“Vedremo.”
“Mhhh… si Professore! Cercherò di meritare la promozione!”
Paola mi si appiccicò contro sfregandomi con una mano la patta rigonfia e chiudendo gli occhi mi avvicinò le labbra socchiuse. Ci donammo un bacio profondo, lungo e intenso che terminai dandole un piccolo morso sulla punta della lingua.
“Vuoi che ti faccia venire?” mi sussurrò maliziosamente all’orecchio, continuando a sfregarmi la patta.
Non ebbi il tempo di pensare la risposta, che avrebbe potuto essere affermativa. Il suo cellulare iniziò a squillare e spezzò il pathos.
“Non ora. Ti aspetto domani, ma mezz’ora prima”.
Si rivestì veloce e si risistemò altrettanto velocemente il trucco mentre reprimevo la voglia di prenderla e farle scoprire senza ritegno la passione che mi aveva acceso.
La baciai ancora quand’era sulla porta e la guardai scendere le scale, pensando alle sue natiche viola, finché non sentii il portone chiudersi forte alle sue spalle. Dietro le persiane seguii il suo passo veloce verso casa, poi l’immaginai entrare in casa e raccontare qualche balla al marito.
La sera, mentre attendevo che si illuminasse la sua camera, mi arrivò un lungo messaggio. Diceva che da troppo tempo desiderava rivivere certe sensazioni, che aveva trovato in me il master che cercava, che avrebbe fatto tutto ciò che le avessi ordinato, sempre che avessi voluto darle ordini.
Le risposi. “Vieni domani come ti avevo già detto”.
Chiusi la persiana. Non sentivo più il bisogno di spiarla. Era mia.

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BDSM

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