Aprii gli occhi. Avevo un sonno della madonna, praticamente si richiudevano da soli. Due minuti dopo mi costrinsi a riaprirli. Allungai il braccio sul comodino e sbloccai il touchscreen del telefono trovando diversi messaggi, tra cui un numero non memorizzato in rubrica.
‘Ehi! Un’amicizia comune mi ha parlato bene di te. Fatti sentire appena puoi :)’.
Corrugai la fronte confuso. Faticavo a collegare. Erano le 10:32. Rimisi via il telefono e, senza accorgermene, sentii un braccio avvinghiarsi al mio collo e una bocca baciarmi la guancia.
‘Buon giorno’, mi fece una voce ancora addormentata. Mi voltai sulla sinistra solo per trovare una ragazza dai capelli neri, lisci ma arruffati.
Si accorse dalla mia espressione che non avevo idea di chi fosse.
‘Elena – si presentò – e tu sei stato… fantastico’, mi sorrise con due occhi illuminati di chi aveva vissuto un sogno.
Si alzò dal letto incamminandosi verso il tavolo della cucina, indossando una camicia bianca che, senza abbottonare, le lasciava scoperta una spalla rivelando un culetto da Oscar. Alla base di quello, un paio di cosce perfette, chiare e illuminate dalla luce che filtrava dalla finestra.
Una vista perfetta la mattina. L’erezione che sentii crescere era un complimento obbligatorio.
Mi misi a preparare un caffè.
‘Non parli molto la mattina, eh?’, ci riprovò lei appoggiando il mento su una mano guardandomi con le sopracciglia inarcate e un sorriso tra il soddisfatto e la sognatrice.
‘No – risposi ancora addormentato io – Preferisco prima capire che cazzo è successo stanotte’
Sorris comprensiva.
Un culo mozzafiato e un carattere composto che non si offendeva per i miei modi bruschi? O era strafatta peggio di me, o doveva essere successo qualcosa di veramente grosso e non ricordavo niente.
Le servii il caffè bollente e la osservai mentre sorseggiava.
‘Impegni per oggi?’
‘Mh… – mugolò lei cercando di non scottarsi nella fretta di rispondere al primo sorso – Ho il turno al bar. Dalle 13 alle 19’.
‘Mi spiace dover rimanere a casa, allora’
‘Dispiace più a me’, rispose prendendo subito la palla al balzo, avvicinandosi poi per accarezzarmi le labbra con un bacio ad occhi chiusi.
Si alzò per raccogliere i vestiti sparsi vicino al letto, offrendomi di nuovo il lato B.
‘Ho fatto proprio bene a scegliere una finestra con vista sulla città’, pensai notando subitocome i raggi del sole mettessero in risalto la chiara pelle delle sue cosce.
‘Fatti sentire per stasera’, mi suggerì dirigendosi in bagno a darsi una sistemata.
‘Se mi ricordo!’, le risposi sarcastico.
Si voltò abbandonò lo specchio per raggiungermi e, afferrandomi il membro, gurdandomi negli occhi mi disse: ’19:30′.
Sgranai gli occhi per la sorpresa e in una mossa la sollevai in collo per le cosce girandomi di 180′ posandola poi a sedere sulla lavatrice baciandola senza troppi complimenti. Rispose subito al bacio portando le sue braccia intorno al mio collo.
Con le mani presi ad accarezzarla vicino alle ginocchia risalendo fino all’esterno cosce.
Sì, era decisamente soda.
Una volta resomi conto che non faceva resistenza, ne approfittai facendomi avanti col bacino e stringendo le sue gambe intorno alla mia vita. Un colpo fra le sue cosce, ma con le nostre mutande a bloccare l’accesso.
‘Che imbecille!’, mi rimproverai mentalmente rivolgendo uno sguardo di rassegnazione alzando gli occhi al cielo, rendendomi conto di aver avuto troppa fretta.
Ma lei non disse nulla, anzi: la sentii cambiare lato con la testa portando il naso sulla mia guancia sinistra e continuando a baciarmi, mentre stringeva le gambe intorno a me. Mi venne quasi voglia di strapparle la camicia dal colletto per liberarle le tette e scoparmela così, ma mi resi conto di aver aspettato un istante di troppo, perché concluse il bacio con dolcezza e sorrise mordendosi il labbro inferiore appoggiando la sua fronte sulla mia.
‘Dai, devo andare’, disse.
Contro la mia volontà dovetti lasciarla ritornare allo specchio, dove finì di truccarsi e pettinarsi. Nel frattempo anch’io tornai di là, a vestirmi.
Uscì di casa poco prima di mezzogiorno mentre rispondeva al cellulare.
Appena chiuse la porta alle sue spalle, tornai al comodino per sapere chi fosse la ragazza che mi aveva scritto su WhatsApp.
‘Sono Alessia, piacere’
‘Piacere mio. Allora, chi ti ha dato il mio numero?’
‘Qualcuno di cui mi fido, e lei ha garantito per te’
‘Garantito… cosa?’
Mi risponse con una foto. La scaricai: era nuda di fronte allo specchio. Il lavandino la copriva dalla vita in giù, ma in compenso aveva una bella quarta di seno. Capezzoli nella media, leggermente scuri, turgidi.
Commentai la foto: ‘Spero non sia il freddo ad averti ridotta ridotta così’
‘Perché non vieni a scoprirlo? ;)’, rispose prontamente.
Di solpo mi salì un nodo alla gola per la risposta.
Poi però pensai: quale ragazza al mondo, se non una che cerca attenzioni, parlerebbe così?
La misi alla prova: ‘Chi mi dice che non sei un segaiolo che non ha fregato la foto a qualche ragazza ignara o che, peggio, non l’ha scaricata da internet?’.
Cinque minuti dopo, mi rispose con un messaggio vocale: ‘Vediamoci al bar del centro alle 15’.
Continua. Arrivai in piazza alle 14:45. Il tempo di una sigaretta ed entrai nel bar.
Mi appoggiai al bancone ordinando una birra e aspettai.
‘Ehi!’ Disse una voce mentre una mano mi toccava la spalla. Mi voltai e vidi subito una bionda in piedi accanto a me.
La guardai stupito per un secondo, poi le sorrisi.
Maglietta a maniche corte, gonna al ginocchio e scarpe. Semplice, ma efficace.
‘Ehi ciao’, le risposi mentre ordinò anche lei.
‘Come va?’
‘Bene’, le risposi alzandomi dallo sgabello
Ci allontanammo dal bancone e cominciammo a perlustrare il locale in cerca di un posto comodo.
‘Allora – le dissi – chi sei, Alessia?’
‘Studio lingue da due anni. Voglio laurearmi per fare la guida turistica e scroccare viaggi alla prima agenzia’
‘Mh… – pensai mentre facevo un sorso – e quella di prima chi era la studentessa o quella che chiede cazzo pure alle amiche?’
Silenzio. Tutto tacque. I suoi occhi divennero di vetro. Tutto e tutti intorno a noi si bloccò nel tempo come un flash mob.
Mi prese per mano tirandomi nel primo bagno che trovò, arrivammo in fondo e scelse l’ultima porta. Chiuse il catenaccio e velocemente mi baciò lasciando cadere la bottiglia che cadde prima sulla tazza del cesso per poi rovesciarsi a terra, seguita poco dopo dalla mia. Le sue mani sul mio viso mi stringevano a lei, le strinsi un braccio intorno alla vita frugando con l’altra sotto la gonna, tirando l’elastico delle culotte, che scivolarono fino a metà coscia; alché, lei rispose alzando il ginocchio aiutandomi a levarle.
La spinsi contro il cesso costringendola ad aprire le cosce seguendo la forma del gabinetto, finché non le schiacciai la schiena contro lo scarico, quindi lasciai il braccio abbassando i jeans quel tanto che basta a prendere il cazzo in mano. Mi segai un attimo per farlo svegliare e fui pronto: la sollevai in collo per le cosce mentre lei rispose gettandomi le braccia intorno al collo stringendosi forte, quindi presi a strofinarglielo fra le labbra già umide. Scoprì che aveva una morbida striscia di peli piacevole al tatto. Cercai la strada prendensola così, con una mano contro il muro, e l’altra sotto la sua coscia, mentre con un piede cercava l’equilibrio sul pavimento.
Pensandoci non è che fosse tutta ‘sta comodità, ma d’altronde neanche il bagno era fatto per scopare.
Cominciai a spingere con duri colpi di reni ai quali rispondeva annaspando dalla bocca, mentre mi concedeva di baciarle soltanto il mento e il collo.
Mai respirare dal naso: per fare silenzio si usa la bocca, altrimenti i polmoni reclamano aria e qualche gemito involontario che mette in allerta qualcuno potrebbe sempre scappate.
Cercai un attimo appoggio con la mano sullo scarico dietro la schiena, mentre Alessia sollevava la maglietta fino sopra al reggiseno, di cui abbassò le coppe rivelando una meravigliosa quarta di seno che strizzò nel mezzo. La presi quindi con cattiveria scopandola forte, sicuro di essere ormai dentro e togliendo la mano dal muro per sollevarla meglio dalle cosce. Ormai era mia. E Alessia si affermò complice assecondando le mie spinte come poteva, chiuse gli occhi e rispose al ritmo delle mie spinte cercando, contemporaneamente, di occultare ogni gemito che le poteva sfuggire. La scopai per 5 minuti buoni, accarezzandole le cosce piene e morbide, mordendole anche uno dei capezzoli, per poi ricompensarla succhiandoglielo per alleviare il dolore. Il fatto che le tette fossero strizzate in quel modo le fecero sembrare ancora più grosse.
Ancora un paio di minuti e mi strinsi fortissimo a lei, dando l’ultima serie di colpi coi reni e riempiendola completamente, finendo contro il muro e sulla sua spalla senza aria nei polmoni. Lei viene subito dopo scivolando lungo lo scarico; io, senza forze, fui costretto a sedermi sul cesso ospitandola seduta sopra di me, in una posizione ancora più scomoda: io seduto al contrario sul wc e le sue cosce alzate dalle mie ginocchia, mentre penzolavano sui miei fianchi.
Dopo esserci ripresi le raccolsi le mutande. Bagnate sì, ma solo di birra.
Onestamente non saprei quale dei due “tipi di bagnato” avrebbe fatto meno schifo: il calore degli umori che le rendevabi scomode o un corpo estraneo (e freddo) come la birra?
‘Prendo la pillola’, fu la prima cosa che mi disse sotto voe ricordandomi soltanto alla fine che non mi ero portato nemmeno un preservativo. Sbiancai comunque, al pensiero. Per la mancanza, più che altro, ma tanto il cuore tornò alla sua velocità normale e riuscii a rilassarmi anch’io.
Uscimmo dal bagno che mi stavo ancora grattando i jeans e lessia mi sorprese prendendosi un colpo, voltandosi poi verso di me.
‘Che…?’
‘Il mio ragazzo!’, sembrava volermi rimproverare sotto voce
“E che cazzo dovrei farci io?!?”, avrei voluto risponderle a tono, mentre mi limita a chiederle:
‘E che ci fa qui?’
‘Gli avevo detto che sarei uscito con un’amica’
‘Ciò non toglie che adesso è qui, proprio in questo locale! Come ha fatto a sapere dove cercare?’ “E che amiche di merda hai?”, avrei voluto aggiungere.
‘Troppe domande – mi disse con un solo sguardo dritto negli occhi – rischi di farmi ragionare’.
Mi baciò quasi senza motivo.
Notai qualcosa di diverso in questo bacio. Sembrava che avesse voluto premiarmi per la sagacia dimostrata. E non avevo espresso concetti.
‘Ok, senti – le dissi alzandole il mento con la mano – tu vai. Fai il giro, magari, in mezzo a quelle persone. Io pago e lo distraggo. Tu esci’.
Le vidi gli occhi illuminarsi di speranza. Che dolce.
‘Grazie’, mi disse quasi vergognandosi. La fevi voltare di 180′ accompagnandola con una spinta sulla schiena, poi tornai al bancone.
Il ragazzo stava parlando col barista, mentre l’amico era distratto. Presi il telefono portandolo all’orecchio, poi urtai il ragazzo e il telefono mi cadde a terra facendo un casino sufficiente ad attirare l’attenzione del mal capitato sul pavimento sbollendo parte di quella rabbia che altrimenti gli avrebbe montato ancora più del normale.
‘Oddio, scusa!’, feci a voce alta scuotendo le mani davanti a lui sperando che la recita funzionasse. Seguì un istante di silenzio nel quale avvertivo il suo nervoso, ma in compenso ero riuscito a distrarlo. Raccolsi il telefono e mi portai alle sue spalle, cosicché Alessia potesse, dal tavolo in fondo, vedere che il suo ragazzo le dava le spalle convincendola ad aumentare il passo. La controllai un secondo con la coda dell’occhio, ma tornai subito al mio telefono premendo il tasto che accende il display: ‘Meno male – continuai preoccupato – Scusami ancora, non ti avevo proprio visto. Devo aver ignorato la zona d’ombra un istante prima di vedere te’
‘Tutto bene?’, mi chiese dimostrandosi più preoccupato per me, dandomi conferma di aver accantonato la sua ricerca.
Ooh, finalmente! Allora non sono un completo incapace! O io sono bravo ad improvvisarmi attore, o lui è un completo idiota.
‘Sì sì, tutto bene’, risposi interrompendo i miei stessi pensieri.
Annuii continuando a guardarmi, ma lo liquidai con un sorriso prendendo il portafogli per pagare, quindi uscii ignorandolo.
Tempo 10 minuti e mi vibrò la tasca dei pantaloni:
“Vicolo davanti al museo”, diceva il messaggio.
Pure una foto allegata con un’ape parcheggiata vicino a un lampione e dei cassonetti. Intelligente la ragazza.
La raggiunsi, svoltando in un vicolo dove non arriva abbastanza luce. Mi aspettava accanto a un muretto di mattoni. Appena incrociai il suo sguardo, mi gettò ancora le braccia intorno al collo dedicandomi un vero bacio alla francese, facendomi sentire la lingua e l’affetto che non aveva neanche pensato di darmi nel bagno. Si allontanò per ringraziarmi ancora, con un visino da cerbiatta e le mani congiunte. La strinsi con un abbraccio forte e le accarezzai la schiena cercando di tranquillizzarla.
Non c’era neanche bisogno di parole: se la sarebbe dovuta vedere da sola, una volta tornata a casa.
Se ne andò via, dicendomi che si sarebbe fatta sentire di nuovo su WhatsApp quando si fossero calmate le acque. Io mi raccomandai solo che fosse stata più attenta, che non c’avevo voglia di improvvisarmi il Jason Bourne del momento per salvarmi il culo.
Continua Passò qualche giorno e continuai a dividermi fra qualche lavoretto part-time – più un fare il fattorino sottopagato di pomeriggio e il barista in una discoteca la sera che altro – finché una mattina non mi fischiettò il telefono:
‘Ma che fine hai fatto?’
Era Elena. Mi ero completamente dimenticato da lei. La sera che dovevamo vederci ero andato invece da un amico a mangiare una pizza e bere birra per distrarmi, dato che ultimamente avevo la mente piena di pensieri di ogni tipo. Ero sì giovane, ma non avevo neanche l’idea di cosa significasse il termine “stabilità economica”. Vivevo nell’appartamento di mia zia, ereditato per via dell’unico elemento che riusciva a farmi ancora avere un minimo di speranza in una vita che reputavo priva di significato: un letto matrimoniale posto sotto una grande finestra che all’alba regalava una serie di sfumature tra il giallo e il rosso fuoco degne solo di un’artista maledetto. Faceva molto New York anni ’30, e siccome mi ero da poco scoperto un “feticista del retrò”, me ne ero innamorato e approfittai delle mie discrete capacità interlocutorie col gentil sesso per fare breccia negli animi più sensibili sfruttando la posizione del letto come alimentatore di carica erotica. In realtà era tutta una scusa per poter godere della visione di un corpo femminile nudo, avvolto nelle lenzuola nella zona del girovita, che casualmente donava una coscia nuda perfetta e un seno da una 4^ in giù appartenente a ragazze di cui i caldi raggi del sole disegnavano un profilo perfetto facendone brillare le curve.
Insomma, sono dell’idea che un sono troppo grosso comporti, oltre a dolore e capacità nel portarlo, anche dei cambiamenti a livello di tatto e di vista. Una donna può essere bella quanto vuoi, ma se ha una 5^ non può essere sodo. Sarà grosso e cadente. Sarò scemo io, ma una 4^ è ancora in grado di reggersi e fa la sua bella figura. Una 3^ credo sia per chi “non ha grosse pretese”, ma comunque ama il seno femminile, fino a scalare nell’inesistente.
Insomma, decisi di risponderle solo per educazione. Non che me ne fregasse molto di più, in realtà di mettermi a parlare di cose che nemmeno io sapevo spiegarmi.
‘Ho avuto un brutto momento. Scusa se ti ho dato buca così malamente’.
La risposta non tardò ad arrivare:
‘Ah, ma allora sei vivo! Senti, sei libero oggi?’
Mh… diretta la ragazza. Meno male.
‘Anche adesso’, risposi senza perdere tempo.
‘Allora che aspetti ad aprire?’
Sgranai gli occhi un istante. “Ma che cazzo?”, pensai tra me.
Aprii la porta ed era lì, in piedi nello stretto corridoio di fronte all’ascensore con la borsa appesa al braccio mentre con l’altra rimetteva in tasca il telefono. Indossava una maglietta bianca con motivi floreali argentati e un paio di shorts beige. Mi sorrise.
‘E te che ci fai qui così?’
‘Perché? Aspettavi qualcun altro?’
In effetti…
Neanche il tempo di elaborare la risposta dal cervello alla bocca che mi gettò le braccia intorno al collo baciandomi con passione. Le strinsi un braccio dietro la schiena spingendo la porta con l’altra mano, poi le recuperai entrambe facendo presa vicino all’attacco delle cosce, sollevandola di peso. Il risultato fu esattamente quello che speravo di ottenere, come se mi avesse letto il pensiero: saltò in collo stringendosi con le gambe alla mia vita e sobbalzò appena, durante la caduta sul bacino. Ne approfittai per accarezzarle a mani aperte le cosce nude portandola a letto, dove lei, forse avendolo capito intravedendo l’obiettivo con la coda dell’occhio, mi colpì di nuovo: incrociò le braccia per sfilarsi la maglietta, la getto via e mi sorrise in uno sguardo d’intesa.
“Cazzo quanto ti amo”, pensai. La sua risposta fu un altro sorriso di conferma.
‘Hai rotto il cazzo’, dissi abbassando la testa mentre alzai le sopracciglia. Stavolta glielo dissi proprio in faccia.
Una volta va bene, due ci posso stare. Ma 3 su 3 sono un indizio… direbbe qualcuno. Sorprendentemente rise per la battuta, come se avesse davvero capito a cosa mi fossi riferito negli ultimi istanti.
Fatto sta che la gettai sul letto. Quando era ancora sospesa a metà fra me e il materasso pensai: “Cazzo, ho esagerato. Mo’ l’ammazzo”. E invece cadde in un tonfo a braccia aperte, come se abbracciasse la scelta fatta da me senza preavviso. I capelli le ricaddero tutt’intorno, scomposti come spaghetti che bollono.
“Che spettacolo”, mi dissi.
Mi avvicinai ed Elena si era già sbottonata gli shorts, in attesa con le braccia ai lati della testa, rivolte verso l’altro. Mi tolsi le scarpe dai talloni con la punta dei piedi per gettarle via e le presi un piede in mano. Via una scarpa. Poi l’altra insieme alle mutande. Mi sbottonai i pantaloni subito dopo, tirai fuori il cazzo già semiduro e, come il peggiore degli stronzi, mi piegai poco in avanti trascinandola a me per le gambe e mi feci strada. Indirizzai il membro fra le sue labbra e la presi così: mani strette intorno a quelle cosce così belle e piene e cominciai a scoparla senza complimenti e senza chiacchiere. Le sue mani finirono in avanti, morte sul letto. Occhi chiusi e solo il suo respiro nell’aria. Un po’ alla volta cominciarono a presentarsi in ordine i primi gemiti, la sua calda fica che mi stringeva il membro e i suoi umori che mi facilitavano man mano l’ingresso verso il fondo. La pancia cominciava a muoversi con movimento irregolare. E così le tette. Ad un certo punto avanzai spingendola indietro rispetto a prima, la sollevai per le cosce dalle quali non avevo mai tolto la presa e le portai sulle mie. Le mie ginocchia sul materasso avanzavano e mi resi conto di quanto fossi stato imbecille non togliendomi i jeans.
Vaffanculo.
Non potendomi fermare proprio adesso, feci uno sforzo affinché questi limitassero il meno possibile i miei movimenti, quindi la sollevai tirandola su dalla schiena. Lei capì subito e mi abbracciò non penzoloni come farebbe qualunque ragazza alla prima scopata con un estraneo, ma stringendosi abbastanza da portare i gomiti dietro il mio collo e avere quindi le mani penzoloni.
Le strinsi le mani sul culo e spinsi il bacino contro di lei che, invece, optò per una soluzione più intelligente: prima cercò di muoversi respirandomi direttamente in faccia. Anche qui, vuoi lo sguardo perso, vuoi il respiro al sapore di sesso dritto sul viso, vuoi l’innata complicità che sembrava dimostrare, mi fece avvicinare a lei con rinnovato sentimento. Era sempre sesso, ma… qualcosa si era appena evoluto. I suoi ciuffi sul viso, i capelli attaccati dietro la schiena, la scompostezza perfetta di chi vive solo di te a prescindere dal luogo o dalla comodità… pura magia. Per un momento respirai ciò che lei forse aveva già provato sin dalla prima volta in cui invece io ero ubriaco. Ma durò poco: dopo aver appurato la scomodità di gestire il movimento verticale in una posizione tanto inusuale, diede un colpo di reni che mi fece tonfare sul letto. Di nuovo: imbecille io ad incastrarmi nei jeans ritrovandomi le gambe a rana.
Invece Elena non disse niente, né tanto meno fece smorfie. Si abbassò mostrandomi una visione dall’alto dell’incavo dei suoi seni e, facendo fortemente leva con le mani sotto le mie gambe, le tolse da quella imbarazzante situazione e si impalò un’altra volta come se niente fosse. Posò le sue mani sul mio torace e, con le gambe piegate ai lati dei miei fianchi, mi cavalcò con eleganza.
è difficile da spiegare, ma muoveva quasi solo il bacino senza realmente saltare, nonostante il seno ballasse. Dopo qualche minuto si accorse che ero rimasto ipnotizzato dal suo reggiseno e alzo le braccia mostrandomi le ascelle in tutta la loro bellezza. Quell’effetto così stirato che mi era sempre piaciuto e che a nessuna ragazza aveva mai detto nulla perché “pelose fanno schifo, ma altrimenti sono solo dei buchi di pelle vuoti”.
Comunque scossi la testa e sorrise mostrando i denti bianchi, interrompendo l’atto. Quegli occhi semi chiusi che trasudano passione e complicità. Solo una coppia fidanzata può capire cosa vogliano dire e quale sintonia trasmettano.
“Ma esattamente che cazzo avrei fatto?”, mi venne da chiedermi.
Come al solito, non mi accorsi di aver voltato lo sguardo in un punto vuoto del pavimento per elaborare un pensiero simile distogliendo l’attenzione dall’argomento focus. E lei se ne accorse. Eccome. Nessun ragazzo normale negherebbe le dovute attenzioni a chi si sta dedicando così tanto a lui per dare priorità ad altro. Mi rispose mordendosi il labbro e me ne accorsi solo grazie a un input del mio cervello che la notò subito.
Mi riempì di felicità sapere che potesse leggermi così bene senza neanche sapere chi fossi. Le sorridi per dovere. Non mio, chiariamoci. Fu il mio cervello a decidere che dovevo ringraziarla in qualche modo per aver scelto di indagare su quel piccolo istante di riflessione che, sulla carta, sarebbe passato più che inosservato.
Come mostrare a un ragazzino una scena action di Bad Boys con Will Smith che fa il figo e un’altra in cui Jack Nicholson dedica un monologo alla moglie in Shining.
Tutto questo accadde però in pochi istanti. Impercettibili, come appena detto. Elena tornò a montare, ma stavolta inarcò la schiena tendendosi con una mano sola all’indietro sul letto e a spingere col bacino sul mio membro, regalandomi un’altra visione che, come poche altre sulla lista, mi farebbe impazzire in qualunque situazione se adeguatamente riproposta: il suo bacino che si stratificava come l’omino Michelin se schiacciato e si stirava quando ella tornava su mostrando una pancia in forma e un addome definito. Era tutt’altro che grassa, fra i 50 e 60 Kg. Non sono mai stato bravo a dare il giusto peso alle persone. Io venni attratto dalle sue costole sporgenti poiché pressate dalla posizione e ciò mi regalava uno di quei momenti involontari che solo nelle serie tv si possono vedere, ma siccome le scene di sesso durano sempre pochi secondi, il pubblico se ne dimentica subito costretti dal cervello a ricordare solo che: “C’è stata una scena di sesso, ma è passata”.
Mi sono sempre chiesto come facciano i registi ad imporre alle attrici il movimento esatto per mostrare un addome tirato o una coscia posizionata in maniera tale da far combaciare le ombre di un lenzuolo disfatto con quelle più sottili che si formano lungo i lineamenti di una coscia o di un polpaccio compresso, in modo che la luce di scena riesca a donare un certo tipo di luce più o meno calda a seconda dell’esigenza narrativa.
Sì, insomma, almeno per quanto riguarda quei film dove il sesso è contestualizzato ai fini della trama e non aggiunto al solo scopo di regalare una sega gratuita agli uomini nonostante la brevissima durata.
Che bello divagare. Comunque.
Elena sembrava imparare in fretta come attirare la mia attenzione. E io comincio ad odiare questa sua saccenza. Un po’ perché non le avevo mai concesso di studiarmi così a fondo visto quanto poco ci conoscessimo in realtà. Un po’ perché mi imbarazzava parlare in pubblico di dettagli che notavo solo io e di cui a nessuno interessava perché “Boia che tette” o “Che un gli farei a ‘sta maiala” era il massimo dell’aspirazione maschile a cui ero stato abituato per anni visto che tipo di gente ero solito incontrare. E poi poi perché avevo paura di essere giudicato. E nonostante il mio cervello avesse già fatto il quadro della situazione, cioè: “Guarda che se è mezz’ora che azzecca tutta ‘sta roba dev’esserci un motivo”, tale informazione veniva subito archiviata sopraffatta dalla mia insicurezza del momento e il primo pensiero che riemergeva poteva essere solo: “Oddio, se solo sapesse quanto mi piace quella posizione. Quel braccio messo così col gomito che punta il soffitto e la mano dietro il collo mentre l’ascella è così esposta…”, tutto ciò mentre dentro di me arrossivo.
O almeno era quello che pensavo accadesse, visto che ad ogni mio pensiero lei rispondeva con un sorriso. Arrossivo veramente e non me ne accorgevo.
Mi lascio assalire da troppi pensieri in pochissimi istanti, uno accodato all’altro e neanche mi rendo conto che, mentre elaboro e archivio una riflessione dietro l’altra alla velocità di Sherlock per ogni indizio acquisito sulla scena di un crimine; il mio sguardo perso non faceva altro che sedurre ulteriormente il cervello di quella ragazza ancor prima che eccitarla sessualmente per tutte le ansie e le domande che mi ponevo.
Fantastico. Avevo siglato un checkpoint per interrompere il flusso di pensieri e nel frattempo ho ricominciato senza rendermene conto.
Elena continuava a muovere il suo bacino scopandomi ad un ritmo sostenuto: non si stava impegnando per farmi godere, ma per godere lei insieme a me del momento creato. E dopo aver assistito a tutta questa sfilza di cose che le aveva permesso di indagare sul mio sguardo perso, allineò lo sguardo col mio che avevo appena risollevato la testa restituendole le dovute attenzioni. Un’occhiata. Una sola di reciproca complicità. Annuì con un sorriso, ma senza muovere la testa. Avevo capito cosa significassero quei sorrisi e per questo mi aveva dato conferma sorridendo per la terza volta, prima di decidere di premiarmi con un movimento scelto fra molti che avrebbe potuto “pescare” dal mazzo di cui entrambi disponevamo. Si avvicinò facendo leva con la mano posta sul materasso e mi abbracciò un’altra volta portando ancora i gomiti dietro le mie spalle. Un abbraccio caldo, come l’atmosfera che si era creata. Sentivo il profumo del sesso che scaldava l’ambiente e lei che avvicinava il bacino sul mio, senza mai farmi uscire da dentro di lei.
Accolsi il suo abbraccio stringendola a mia volta e spinsi il ferretto del reggiseno con le dita di entrambe le mani e lei mi lasciò fare. I lacci le caddero penzoloni dietro la schiena e le sottili spalline si allentarono mostrando segni di debolezza che prima o poi le avrebbero dato solo fastidio obbligandola a disfarsi del reggiseno, ma non fece niente. Aveva deciso di dare a me la possibilità di scegliere. E io avevo deciso che lei era mia. Quindi la strinsi più forte e subito smise di cavalcarmi per non rischiare testate sul mento, per appoggiare invece il mento sulla mia spalla e baciarmi.
Mi diede un altro bacio, poi un altro che però si spostò sul collo.
Decisi di fare qualcosa che nessuna prima aveva interpretato correttamente: con le mani le gettai via i capelli dal collo umido e le liberai la fronte. La risposta fu entusiasmante: anziché sistemarli con le mani sciogliendo l’abbraccio, li lasciò semplicemente cadere come avevo voluto io, testimoniando che non voleva dimostrarmi di aver capito che mi dessero fastidio i capelli e per questo sistemarli meglio, ma che fossi stato io a deciderlo e per questo acconsentì in silenzio come aveva fatto finora dall’inizio del rapporto.
Questa ennesima riprova di complicità senza precedenti mi fece scattare una molla dentro, e allora la risollevai con le mani sotto le cosce e ribaltai la situazione portandola a pancia in su. Mi liberai finalmente dei pantaloni usando come la mossa inaspettata come scusa per uscire da lei e, privo di restrizioni mi rifiondai addosso a lei portandomi le sue gambe sulle spalle, montandola finalmente come meritava chi aveva osato indagare tanto a fondo nella mia psiche senza chiedere il prima alcun permesso.
Piantai le mani sul materasso ai lati della sua testa e, bloccate le tue gambe con le spalle tese, affondai con forza espirando ogni volta sul suo viso mentre i capelli venivano mossi da mio respiro e lei si beava mentre il sudore che le imperlava il viso veniva rinfrescato. In questa posizione non poteva certo abbracciarmi, infatti aveva le mani morte sul letto e la sentivo guizzare per la prima volta ad ogni tonfo nella sua vagina. Gli umori le inumidirono ulteriormente le grani labbra ormai rosse e io cominciavo ad impazzire durante l’esecuzione dell’amplesso.
Pompavo con forza, ogni colpo aggiungeva sempre rinnovato vigore per diversi minuti mentre le sue gambe altalenavano insieme al materasso mostrando le ossa e i muscoli tesi delle cosce, finché non cominciai a respirare in maniera preoccupante. Possibile che fosse già tutto finito? Il membro ormai durissimo cominciava a lasciarsi tagliare dagli spasmi di sangue nelle vene come fossero lame. Dava sì fastidio, ma mai quanto il dubbio che potesse essere un bisogno di pisciare anziché un’orgasmo, o forse una pisciata che stava venendo bloccata dallo sperma in procinto di uscire che per il mio corpo doveva avere la precedenza, anche se non so quanto dolce potesse essere l’idea di farsi prima sborrare addosso e subito dopo anche pisciare.
Il mio cervello però mi diede un ulteriore impulso: mi prudeva la cappella. E io avevo il miglior rimedio al mondo per alleviare un prurito simile: le mucose vaginali irregolari che fornivano il massaggio ideale a certe esigenze, misto al calore ormai rovente e agli umori che, tutti insieme, mi avrebbero portato all’esplosione finale che infatti di lì a poco avvenne.
Elena si accorse subito del mio respiro, visto che ero pure bello rosso in faccia, sudavo e le vene del collo erano in bella vista già da un po’. Quindi la guardai prima di rendermi conto che la situazione diventasse ingestibile e, per darle modo di scegliere in un ragionevole tasso di tempo, la liberai dalla stretta facendole cadere le gambe sul materasso. Lei prese subito la palla al balzo e non esitò un secondo a stringermi in una presa solida e robusta fra le sue cosce, abbracciandomi ancora una volta decidendo di “affrontare la cosa insieme”. Portai una mano sulla coscia e notai i suoi quadricipiti tesi come mai avrei potuto realizzare, tolsi la mano spalancando gli occhi e lei annuì un’ultima volta con un sorriso. La baciai quindi un istante prima sulle labbra e lei, dolce come sempre, capì che volevo risparmiare ogni tipo di inconveniente evitando così di infilarmi la lingua in bocca per paura di sbattere l’uno contro i denti dell’altra. Mi strinse con forza ansimando a voce alta e, mentre io non ero abituato alle urla usando invece un tono più basso e gutturale, lei mi invase il timpano con la sua voce finché, complice tutta la situazione più la sua voce incredibilmente dolce e in accordo con me, pompai un’ultima volta scarica di colpi tipo martello pneumatico in un impeto di foga sparandole fiotti di sperma nella vagina. L’orgasmo si stava prendendo tutte le mie forze mentre schizzava con vigore dentro di lei, le due grandi labbra impregnavano di umori i miei peli pubici e pochi istanti dopo, quando mi mancava un solo schizzo al termine, esplose anche lei schizzando direttamente sul mio membro e sul letto, bagnandosi il sedere con lacrime orgasmiche che la scossero al punto da spingermi in alto mentre inarcava la schiene a le mancava il respiro in un grido prima liberatorio e poi soffocato dai polmoni ormai vuoti. Gli ultimi istanti li passai a pompare più dolcemente per schizzare i residui di sperma ormai rimasti ed Elena si accasciò sul letto esausta, respirando a bocca aperta, sudata almeno quanto me.
Nel quarto d’ora successivo seguirono altri silenzi estremamente comunicativi e di ulteriore complicità accompagnati da coccole e carezze. Io non sapevo come ringraziarla e lei sorrideva ogni volta amando enormemente la mia continua ossessione nel credermi incapace di non avere i mezzi per renderla felice e ripagarla adeguatamente.
Fu lei a darmi l’ultima carezza e il primo vero bacio sulle labbra a cui, per puro istinto, io aggiunsi la lingua che lei accettò volentieri sorridendo infine per il morso col quale le avevo tirato il labbro inferiore prima di addormentarci nudi.
Continua Mi svegliai poche ore più tardi, nel pomeriggio. Lo so perché il sole era orientato più ad ovest rispetto a prima. Scesi dal letto e mi recai in bagno nudo. Pisciai e mi detti una pulita intima. Al mio ritorno la vidi stirarsi. Era bella come poche cose al mondo. Spettinata, sfatta come se avesse passato la notte a bere e scopare come un’ossessa. Ed era perfetta. Si accorse del reggiseno ancora penzolante che, mentre dormiva, le si era tutto stropicciato, allora lo gettò via. Poi mi vide e, ancora assonnata, mi sorrise.
“Ciao…”, disse ancora stanca.
“Ciao – le risposi io – come stai?”
“Benissimo”, sorrise. Non ce la faceva proprio a nascondere la stanchezza.
“Distrutta, ma bene. Mai stata meglio”, continuò.
Mi avvicinai col pisello penzoloni e mi accucciai camminando carponi sul letto, fino a raggiungerla. Poi la baciai accarezzandole le labbra in un tentativo di non abbandonarla, ma al tempo stesso di dirle “Vorrei rimanere, ma non può durare in eterno”. Dal canto suo mi avvolse le braccia intorno al collo, com’era solita fare nei momenti di intimità e rispose serenamente al bacio. Era in pace. Non le serviva sapere altro. Io provai ad abbassare il bacino e lei non se ne accorse nemmeno. Volevo stare comodo, ma avevo lei sotto, quindi…
Mi chiesi per un attimo se non avrei fatto prima a mettermi di lato, ma poi mi ricordai di cosa avevo visto pochi istanti prima: una ragazza meravigliosa con due tette generose, un fisico stupendo e un paio di cosce che potevano stringersi unicamente a me. Il mio membro toccò inaspettatamente il suo pube prima di me. Si adagiò nello spazio fra la pancia e la zona pubica e finalmente intervenne anche lei: “Hai una pessima mira”, disse sorridendo.
Abbassai una mano e le scostai una coscia. Intanto lei aveva assunto una posa a rana recuperando anche con l’altra. Lo presi in mano puntano le labbra e la sentì schifosamente umida e fredda. Ebbi l’istinto di fare una smorfia disgustata. Lei interruppe il sorriso per un solo istante e commentò: “Beh…”, indicando poi il bagno con la testa ma tornando subito a guardare me con un altro sorriso.
“Vuoi darti una ripulita?”, le chiesi oscillando per un attimo fra il timore di averla offesa e che potesse temere malattie veneree. Poi mi tornò in mente l’ultimo orgasmo e, corrucciando la fronte le chiesi: “Ma…”, scuotendo la testa non sapendo come esprimermi.
“Tranquillo, prendo la pillola”.
No, niente. Non riusciva a smettere di sorridere.
“Insomma…”, suggerii indicando nuovamente il bagno muovendo soltanto gli occhi.
“Nah…”
“Ok. Se non è un pro…”, m’interruppe con un bacio ad occhi chiusi. Seguì il suo consiglio subito dopo, chiudendoli anch’io. Un bacio tenero. La sentii inspirare col naso.
“Parlo troppo”, mi ammonì dolcemente.
“Già”, risposi allora imbarazzato e a testa bassa.
Rise fra sé, coinvolgendomi con un’ondata di pace interiore.
Provai a penetrarla. Non si fece attendere: abbassò di poco le cosce da aperte come un commiato di benvenuto e attese che fossi dentro. Non fu difficile, ma neanche elementare. Comunque entrai, e provai a dare qualche spinta. Non era certo calda come prima, però aveva conservato un minimo di liquido vaginale, il che agevolò poco di più le mie spinte. Questa volta però mi baciò. Fu un bacio intenso. Non le interessava la lingua, ma solo il desiderio del gesto. Motivo per cui rimase con le labbra chiuse in avanti anche quando non c’era più niente da far scivolare nella morbida stretta delle sue labbra. La assecondai. Molto volte. Era decisamente piacevole. Ed era carina a preoccuparsi così tanto nel darmi affetto. O almeno così credevo. Quando le misi il gomito vicino all’orecchio prestai attenzione solo a non pestarle i capelli. Glieli accarezzai, invece. Con le uniche dita più vicine alla sua fronte, pollice e indice, le scostai i pochi ciuffi rimasti. Spinsi con un colpo di bacino e lo accusò con un sospiro un effetto “blob” col bacino, guidato direttamente dal mio movimento. Come un vagone che viene colpito da un altro, ma impiega un secondo per farsi spingere.
Seguirono così diversi minuti di coccole, scambi di occhiate, sospiri guadagnati e sorrisi aspirati. Aumentai il ritmo gradualmente, ma oltre ad un semplice principio di erezione non ottenni altro. Scoprii che mi piaceva la sensazione di sosta fra le sue cosce, il suo sguardo e la situazione che riuscivamo a creare in un’atmosfera di complicità. Il sesso non c’entrava niente adesso. Era solo un “sei mia/sono tua” seguito da un affetto molto… intimo.
Mi resi conto che l’erezione non voleva proprio saperne di arrivare e, ad un certo punto, feci per togliermi.
“Scusa”. Mi baciò. Avrebbe potuto ripetersi, ma preferì essere più intima e diretta. Ormai qualcosa doveva essere scattato.
Io mi sentivo strano. Soddisfatto per la scopata, felice dell’intimità raggiunta, entusiasta per il dialogo non verbale che ero riuscito a decifrare, ma… strano. Mi sento bene e nient’altro.
Mi alzai dal letto e mi diressi in cucina. Un altro caffè. Lei rimase ferma poggiando la testa fra le mani che aveva incrociato sul cuscino. Il seno rimane perfetto nonostante la pressione verticale. I capezzoli erano un po’ inturgiditi, ma non c’era nessun rancore.
Misi su il caffè e mi accesi una sigaretta poggiando i gomiti sul tavolo, nudo sul cuscino della sedia. Portai la mano alla tempia e pensai. Purtroppo stavolta non potei escluderla dalla mia mente, perché era dietro di me e mi aveva reso sereno. Non meno pensieroso. Sereno. Questa volta i miei pensieri non furono solitari od orientati su qualche senso di inadeguatezza sociale. Niente di serio.
Lei mi raggiunse ancheggiando di fianco a me. Non l’avevo vista mentre camminava, ma sapevo che lo avrebbe fatto. Mi passò la mano da spalla a spalla, accarezzando il collo come un foulard. Poi mi rubò la sigaretta e si fece un tiro mentre faceva il giro del tavolo.
“Oh! Comprati le tue!”, la sgridai fingendomi arrabbiato.
“E perché, se posso scroccare le tue?”, rispose sogghignando.
Le risposi allungando il braccio e dandole una sonora sculacciata. Una goduria.
Strinse la lingua fra i denti e decisi di provocarla:
“Non sapevo fumassi”
“Io non sapevo che fossi in grado di essere così tenero quanto deciso a letto!”
Corrucciai le sopracciglia in uno sguardo indagatorio. Mi aveva fregato, ma non ero sicuro di aver compreso il reale senso della sua risposta.
Elena controllò la moka e lasciò cadere il coperchio in un sordo rumore metallico che mi distolse dai pensieri, spegne il fuoco e, sigaretta in bocca, verso il caffè in due tazzine.
“Attenta alla cenere, però. Guarda che casino…”
Sbuffò una nuvola di fumo stringendo la sigaretta fra i denti cercando di smorzare una risata. Mi servì la tazzina allungandomela sul tavolo.
“Grazie – le risposi – E lo zucchero?”
Si alzò sulla punta dei piedi offrendomi un paio di gambe toniche e un culo che, inutile dirlo, continuava a sorprendermi per quanto fosse sodo. Alzo il braccio e il seno venne sollevato impercettibilmente, mostrando la forma del capezzolo ormai rilassato. Mi venne l’istinto di farle una foto, ma non avevo né una macchina fotografica professionale, né i soldi per comprarla. Né mi ero mai appassionato alla fotografia da pensare di mettere qualcosa da parte. Ma sarebbe stata una foto perfetta. Il sole le illuminava la pancia con la sua luce e mi fece notare come tutto il suo corpo venisse sempre illuminato, a differenza di me che vedevo sempre tutto così… fermo. Come se il tempo rimanesse immobile nonostante camminassi per ore ogni giorno, in mezzo al caos cittadino, alle persone. In mezzo ad altre vite sempre impegnate con qualche impegno quotidiano. Chi parlava al telefono e aveva un soprabito grigio scuro elegante con una ventiquattrore nell’altra mano, chi invece usciva da un negozio di abbigliamento con una enorme busta carica di acquisti e il marchio bene in mostra. Poi c’erano i gruppi di ragazzi che camminavano parlando senza mai a soggetti specifici, come se gli altri, non facendo parte della loro vita, non potessero capire. Come se ognuna di queste persone facesse parte di un grande agglomerato di persone che ogni giorno lavoravano e sostenevano il peso di una vita impegnata, ma si escludevano a vicenda. Mostravano gentilezza se fermati per brevi informazioni, ma ostentavano fiducia se esposti a quesiti di maggior rilevanza.
Invece lei era lì, pronta a farsi vedere. Era viva. Presente. Serena. E il contenitore metallico che teneva in mano mi ricordò per un istante la fiaccola della Statua della Libertà. Cazzo c’entra?
Le sue labbra si schiusero in una serie di sequenze ritmate e cambiavano forma velocemente. Borbottava con un riverbero che somigliava molto più a un ronzio, mentre appoggiava la zuccheriera sul tavolo, il cui rumore mi fece tornare di nuovo alla realtà.
“Eh?”, scossi la testa confuso.
“Bella trovata, dicevo!”, alzò la voce poco sopra la soglia di moderazione.
La guardai con aria interrogativa ritraendo il collo. Rise.
“Spero ti sia piaciuto il panorama – aggiunse – perché devo andare”.
Fui colto da una leggera, quasi impercettibile fitta al cuore. Più al fegato che al cuore. Nel mezzo, insomma.
Con un’espressione dispiaciuta le chiesi: “No… perché?”
“Devo studiare”, rispose divertita.
“Ma…”
“Mica me ne vado!”, mi tranquillizzò lei.
“Ah, studi qui?”
“No, ma torno. Devo solo studiare per l’università. Non è facile mantenere una buona media, sai?”
“A proposito, che indirizzo fai?”
“Linguistico. Ma sono indecisa se fare l’artistico”.
La squadrai dal basso verso l’alto, chinando appena il capo in segno di evidenza.
“Dai…”, rise ancora. “Sei gentile, ma… non è per me che lo farei”.
Abbassai il capo guardandola con le pupille fino al limite concesso alzando pure le sopracciglia.
“Mi piace la fotografia. Non sono una nostalgica, ma il mondo ha troppo da offrire per non realizzare tanti frame in sequenza e riunirli in un film”.
“Fermare il tempo per congelare le emozioni?”
“No – fece lei – raccogliere ogni traguardo per riguardare la mia vita quando non sarò più in grado di muovermi”.
Scattai dalla sedia e la baciai in silenzio. Le mantenni ferma la mano dietro la nuca e congelai quell’istante come se potesse svanire. Rimase pietrificata per diverso tempo, con le mani a mezz’aria. Poi schioccai un tenero bacio e la liberai. Sospirò in silenzio. Rimase ferma con lo sguardo fisso su di me.
“Ti amo”, pensai guardandola.
Si avvicinò a passo costante. Inesorabile, ma rallentata solo dal mio continuo scrutare. Non poté avvicinarsi troppo perché, una volta invaso il mio spazio personale mi alzai scattando di nuovo e la sollevai di peso facendola sedere di peso sul tavolo, provocando un rumore pesante. Avanzai deciso facendole rovesciare la tazzina sul tavolo che rotolò spaccandosi a terra, la zuccheriera scivolò sul legno liscio e il caffè le imbrattò il sedere e una coscia. La presi di colpo e sbattei in lei facendo vibrare il tavolo. Lei si strinse a me e lasciò passare aria dalla bocca lasciandosi andare completamente. Le afferrai le cosce con le mani e mi sporcai la punta di tre dita di caffè alzandogliele. La scopai con forza. Facemmo un rumore fortissimo provocando vibrazioni su tutta la superficie. L’erezione era tornata prepotente e impostando i piedi per terra strofinai la sedia all’indietro. La scopai con tanta forza da far tremare le gambe del tavolo che mi preoccuparono per l’instabilità dello stesso. Lei portò i gomiti sulle mie spalle senza abbracciarmi veramente. Mi accarezzava i capelli e mi baciava, mentre la mia lingua si limitava ad accarezzarle le labbra ad ogni bacio. Fu una scopata dolorosa. Mi resi conto di quanto mi sentivo solo e abbandonato alla vita da un sistema fondato sulle corse forsennate alla disperata ricerca di una precaria stabilità economica e una vana ricerca di salita nella scala sociale dell’accettazione nel giro dell’alto consumo fine a sé stesso. Capii in quel momento di quanto lei fosse importante per sentirmi vivo un secondo. Il suo ossigeno nei miei polmoni e la sua bellezza erano solo l’illusione di ciò che avrei dovuto prendere come modello per essere felice. Non avrei mai dovuto prendere esempi come modelli, ma solo indagare su come essere sereni tramite una felicità che non chiedesse nulla in cambio, se non la realizzazione di essere vissuta. Non volevo rimanere da solo e le strinsi le cosce fra le mani arrivando a provocarle dolore fisico con degli enormi pizzicotti che non le facevano male come gesti, ma come richiesta di aiuto in un mondo grigio immerso nello smog.
Inarcò la schiena in un grido silenzioso quando venne. E io con lei.
Le sparai all’interno ogni cartuccia di dolore che avevo e rimanemmo accasciati infine sul tavolo. Stanchi e affannati. Respiravamo intensamente l’uno sulla spalla dell’altro e ad un certo punto la sentii anche tremare. Ma fu solo un breve momento. Inizialmente pensai che fosse qualcosa che aveva, poi diventò fisico. Eravamo sconvolti e appagati. Non avevo più nessuna voglia di fare sesso. Uscii da lei per rimettermi a sedere ma mi abbraccio prima. Strinse fortissimo le sue braccia intorno al mio collo e mi bacio ripetutamente sul collo e su una guancia.
“Scusa per il caffè”, fui in grado di dirle.
Era ancora affannata, ma sorridente.
Avrei dato qualunque cosa per rivedere ancora quel suo sguardo sorpreso e soddisfatto. L’aiutai a scendere dal tavolo, ma dal bordo al pavimento le tremavano le gambe, allora la poggiai di peso. Si appoggiò al mio petto e si nascose.
Rimasi sorpreso un’altra volta.
Il tempo di riprendere fiato e se ne andò in bagno senza né baciarmi, né degnarmi di uno sguardo. Non sculettava neanche più.
Se ne andò appena uscita dalla doccia e rivestita com’era entrata. Rimasi solo, ma felicemente soddisfatto.
CONTINUA Nei giorni successivi passai il tempo fra una consegna e una serata in discoteca, finendo una volta clandestinamente in bagno a farmi fare un pompino da una ragazza con un tubino blu, castana coi capelli lunghi e mossi che brillavano come la sfera appesa al soffitto.
In casa passavo il tempo a dividermi fra una serie tv, rispondere a cazzate su WhatsApp e consultare le varie università locali in cerca di una parola chiave che mi stuzzicasse un minimo di interesse.
Finii col guardare le foto dei giardini verdi stile Harvard o a leggere brevi approfondimenti storici sui personaggi che avevano fondato tali scuole.
Poi il telefono fischiettò un’altra volta.
“Ne è passato di tempo! :)”
Alessia? Eh sì!
“Pensavo fossi morta! Come stai?”
“Bene, grazie. Ho dovuto organizzare una copertura credibile per non dare al mio ragazzo indizi su cui indagare”
“Ah, vero. Quindi sei tornata da me?”
“Non proprio…”, rispose.
Ahia. E mo’? Certo, non sono Mr. Impegni, ma non può cominciare a succhiarmi l’anima.
Mi finsi interessato: “What’s up?”
“Avrei bisogno di vederti”.
Oddio. Ancora peggio di quanto pensassi. Andiamo bene.
“Sei proprio sicura di non potermene parlare qui? Avrei da fare oggi”.
“Ma sei scemo? Rimane tutto registrato qui!”
Finalmente potevo dare sfoggio della mie scarse abilità di aggiornamento accumulate tramite titoli di news fugacemente lette mentre cercavo tutt’altro!
“Guarda che tutte le conversazioni sono protette con la crittografia peer-to-peer”, le risposi con saccente soddisfazione.
“Non serve a un cazzo quando il tuo ragazzo legge direttamente dal tuo cellulare!”
Di colpo mi vidi comparire addosso un enorme X rossa accompagnata dal caratteristico suono di risposta errata. Mi lasciai prendere da un momento di rassegnazione e lasciai che gli eventi facessero il loro corso.
“Va bene. Dove ci vediamo?”
“Il bar dell’altra volta è troppo pericoloso”. Già, ho notato.
“Non ce l’hai una macchina?”
“E a che ti serve una macchina? Non dobbiamo mica scambiarci documenti segreti per conto del governo!”
“No, ma si tratta comunque di sicurezza nazionale”
“ELLAMADONNA!”, le risposi postando un meme di Pozzetto.
“è in gioco la mia vita”. Spalancai le braccia, pur sapendo che non avrebbe mai potuto vedermi.
“Ancora non mi hai detto dove intendi incontrarmi. E io stavo facendo delle cose prima che mi interrompessi”
“In centro. Vicino al negozio di abbigliamento che dà sulla metro”.
“Quando?”
“Hai 20 minuti per raggiungermi”. Ah. Giusto. Scemo io che chiedo pure.
Misi le scarpe e la raggiunsi in meno di 10 minuti. Era all’angolo della strada che mi dava le spalle. Mi avvicinai per chiamarla più da vicino e mi salutò con la mano. Una volta vicini, mi salutò ancora con un bacio su ogni guancia.
“Allora, cosa c”è di tanto urgente?”
“Ho un problema”, esordì.
“Così la giuria sembra aver deciso”, risposi sarcastico.
“Non fare il coglione”, mi freddò.
“Ammazza…”, pensai sbigottito.
“Dobbiamo entrare”, mi disse guardando il negozio.
“Mi hai chiamato per chiedermi consigli sullo shopping?”
“No. Ma qui siamo allo scoperto. Se mi ribecca il mio ragazzo dovrò dargli altre spiegazioni”.
“A parte che uno di voi deve avere qualcosa di grosso da nascondere all’altro per ridurvi così, ma comunque non puoi avere un amico?”
“Non uno con cui ho scopato”, mi guardò con l’aria di una prof che ha beccato uno studente impreparato.
“Ma lui non lo sa”, replicai io.
“Ma sei l’unico amico maschio col quale ha quasi rischiato di beccarmi”, sentenziò ancora.
“A proposito di amicizie. Ma alla fine chi cazzo te l’ha dato il mio numero?”, dissi mentre lei mi spinse per la schiena dentro il negozio intimandomi di entrare quasi seccata.
“Bene – dissi una volta dentro – reparto intimo femminile o abiti da sera?”
Scrutò l’ambiente cercando tra alcuni vestiti, mentre io aspettavo una risposta o che, perlomeno, arrivasse al punto.
“Posso sapere cosa stai cercando o rischio di sembrare logorroico?”
“La situazione col mio ragazzo non è delle migliori”, disse lei.
“Sì, ma io cosa c’entro? Basta che non scopiamo più e si risolverà da sé, no?”
“Abbiamo perso entrambi il lavoro e adesso non sappiamo più come pagare l’affitto della casa”.
“Ok… e io cosa c’entro?”, ripetei scandendo le parole.
“Questo!”, disse scegliendo un vestito che sinceramente non avrei neanche saputo descrivere.
Si guardò intorno con fare vago e se ne andò nello spogliatoio. Io pensai di accostarmi fuori dalla tenda ma, nel momento di sedermi sulla grande sedia di plastica tirò fuori un braccio dalla tenda appena chiusa e mi tirò dentro facendomi quasi gridare dallo spavento.
Mi tappò la bocca con la mano facendomi cenno con l’indice sulle sue labbra.
“Ma non è leggermente vietato entrare in due? Se ci beccassero, chiamerebbero prima la sicurezza e dopo chiederebbero spiegazioni!”, esclamai sottovoce.
“Stai zitto e coprimi!”, mi intimò lei.
“E come cazzo dovrei fare se qui dovresti entrarci solo tu?”
Ignorandomi col massimo della risolutezza possibile appallottolò la giacca sullo sgabello e si abbassò le spalline del reggiseno, per poi inginocchiarsi e sbottonarmi i jeans.
“Ma che cazzo fai?!?”, tentai invano di protestare cercando non farmi sentire.
Intanto mi prese il membro e cominciò una sega decisa come se cercasse di estrarre qualcosa che le sarebbe spettato di diritto in pochi secondi. Raggiunta l’erezione lo prese in bocca e cominciò un lento pompino studiato per essere deciso, ma non frettoloso.
“Ma sei appena uscita a stento daaahh…”
Logicamente non mi aspettavo di riuscire a dire molto, vista la situazione, ma perlomeno non potevo dire di non averci provato. Certo, un pompino non si rifiuta mai, ma il problema è che ancora non ma aveva rivelato il motivo della tanto urgente convocazione. Ammesso che ce ne fosse realmente uno. Anche se, ripensandoci bene, non è che mi importasse poi molto quando cominciò a farmi una spagnola umida.
“Cazzo”, pensai in un misto fra l’eccitazione e la paura di essere beccati. Intanto Alessia di dava da fare e sentivo il calore cominciare a pervadermi tutta l’asta. Provai ad accarezzarle i capelli ma mi respinse. E allora che cazzo vuoi?!?
Ormai il cazzo era duro ed usciva dalla sua bocca lucido da riflettere la luce del camerino. Ne approfittai per specchiarmi e provare a guardare la scena da un angolazione diversa, mentre il sangue lentamente veniva coadiuvato via dal cervello. Non che mi fosse mai servito poi molto nella pratica. Però, insomma, meglio averne sempre un minimo da parte che rischiare di fare la figura del coglione.
Ancora qualche colpo di bocca e sarei venuto. Non sapevo se fosse una che ingoia, non avendo mai approfondito la conoscenza, ma… in caso contrario come cazzo avremmo dovuto fare?
La sua mano si fece sempre più impaziente nella sega e tirò la pelle fino alla base, ingoiando direttamente la cappella.
Io cercai di avvisarla piegando la schiena in avanti e ansimando per quello che mi fosse possibile senza correre rischi eccessivi, ma alla fine la obbligai a seguire il mio ritmo afferrandole la testa con forza mentre la scopavo negli ultimi istanti che precedettero l’orgasmo.
Un fiotto seguì l’altro e io mi piegai man mano sulle tua testa con tutto il corpo, mentre lei, bastarda, insisteva con la lingua sulla mia cappella insensibile non curandosi che il troppo stroppia e avrei anche potuto farmi male. Infine caddi esausto sullo sgabello incapace persino di rimettermi a posto. dal canto suo, Alessia mi si spogliò davanti come se fossi sparito di colpo e si cambiò col vestito preso prima. Reduce da un orgasmo non mi diceva assolutamente nulla, nonostante fosse un vestito elegante che esaltava le sue gambe.
La osservai mentre con le mani sui fianchi si voltava a destra e a sinistra, guardandosi anche il sedere affinché il vestito non stringesse.
“Allora! – sbottai cercando di controllare ancora la voce – Che cazzo i faccio io qui?!?”
“Oh, giusto – fece lei come se avessi interrotto un momento di concentrazione – ora sei in debito”.
“Oh…”, riuscì solo a commentare io.
Fantastico. Se avessi saputo che oggi mi sarei indebitato, non sarei neanche uscito di casa.
“E… – cercai di trovare le parole giuste per liberarmi del problema il prima possibile – sai pure in che modo pensi che dovrei ripagarti, già che ci sei? Non ho chie-”
M’interruppe prima lei: “Bla bla bla – fece con la mano nel suo vestito nuovo – “Non l’ho chiesto io”, “In debito di cosa?””…
“Uh! – sospirò stufa – Non mi sembra tu abbia opposto molta resistenza. Anzi, direi che ti è pure piaciuto!”, rispose sicura di sé al limite della sopportazione fingendo pure di biascicare per ricordarsi che sapore avesse in bocca facendo pure un’odiosa occhiata di lato, interrogando il lobo frontale destro del cervello per confermare i ricordi.
“Ma vaffanculo!”, pensai dentro di me.
“Ma che cazzo stai dicendo?!?”, la sgridai descrivendo lo spogliatoio a braccia aperte. Non sembrava fregargliene molto, però. Aveva bisogno di un aiuto, ma la stronza era decisamente più brava a far girare il cazzo alla gente… e con rotazione della lingua, tra l’altro. No ok, basta battutacce.
“Senti – le chiesi fingendomi calmo e simulando un esercizio a caso di yoga protendendo le mani in avanti – Posso gentilmente sapere qual è tanto osannato problema per il quale mi hai chiamato, visto che sono 20 minuti che siamo qui e mi sono leggermente scartavetrato i coglioni con ‘sto giochetto?”
Ahò, ditemi quel cazzo che volete ma la volgarità ci voleva.
“Devi convincere il tuo capo ad assumermi”.
“Mo’ mi diverto”, pensai: “Vuoi fare la fattorina sottopagata?”, la sfottei sarcastico.
“No, imbecille! Cazzo me ne frega di quel lavoro sfigato”. Ah, grazie.
“L’altro capo. Voglio lavorare al bar”.
“E mi hai spompinato con tutta quella intensità per qualcosa di cui non ho potere?”, le chiesi uscendo dal camerino. Stavo cominciando ad incazzarmi e non potevo trattenermi oltre.
Mi guardò sorpresa: “Come no?”
“Ciccia, guarda che io faccio il barista. Non sono amico del proprietario o robe simili! Chi cazzo te l’ha messo in testa?”
“Ma pensavo…”
“Cosa? – le chiesi ancora – che facendo un pompino a me, tra l’altro pure al di fuori del locale interessato, avrei potuto farti assumere clandestinamente?”
Rimase senza parole, in posa con le mani sui fianchi ma a bocca aperta.
Ma che cazzo si aspettava?
“Tesoro… – finsi dolcezza nella voce – se vuoi cominciare una scalata sociale, almeno informati prima su quali pedine mettere in gioco e come muoverle. è inutile che al barista che ti sembra più fragile ed emotivamente più condizionabile per arrivare al proprietario del locale. Il pompino avresti dovuto farlo a lui, al massimo”, conclusi facendole una gelida carezza che, appunto, rifiutò come se l’avessi umiliata.
Se ne andò dandomi le spalle, battendo i tacchi per terra e irrigidendo le braccia dalla rabbia.
“E io che cazzo di devo fare?”, pensai limitandomi a mostrare le braccia aperte nel bel mezzo di un negozio.
Fece per uscire ma venne freddata dalla commessa che le chiese: “Voleva prenotarlo? Non si fanno prestiti”, la rimproverò con un sorriso glaciale. Alessia rischiò l’infarto prima per essere stata bloccata a un passo dall’uscita e poi per essersi resa conto che, effettivamente, aveva indossato l’abito senza pagarlo. Lo pagò meccanicamente nonostante sembrasse non averne alcun bisogno. O perlomeno credevo fosse quello il motivo di tale assenza nello sguardo che neanche guardava chi avesse davanti o quanti soldi avesse preso.
La commessa tentò di ricordarle che: “Non si può uscire in questo stato. Deve toglierselo per comprarlo”. Alessia stava perdendo sempre più di credibilità. L’intera scena avrebbe dovuto durare pochi secondi tutto, e invece fu costretta a passarmi accanto concentrandosi ad ignorarmi – quindi paradossalmente a pensarmi con più intensità per rivolgermi quella minacciosa occhiata da “Tu non esisti” – ed entrò ancora nel camerino.
Il problema fu un altro: quando uscì lei, ero io ad essere sparito. Ci rimase male perché forse pensava che dovessi assistere a tutta la recita compreso il finale.
La sera stessa…
Avevo iniziato il mio turno da poco meno di un’ora e, mentre servivo vari cocktail a destra e a manca, vidi Alessia entrare nel locale col vestito del pomeriggio e parlare prima con un omaccione, poi sparire dietro un muro che lasciava intravedere solo 3 gradini. Tornai al mio lavoro senza dare ulteriore peso alla cosa. Anzi, ad essere onesto non me fregava proprio niente di cosa potesse star succedendo o meno.
La rividi soltanto qualche ora più tardi mentre rifaceva la strada inversa per uscire fuori. E la cosa finì pure lì.
A fine turno, verso le 2 di notte, ero intento a dare il cambio ad un collega. Sì, avevo chiesto di poter lavorare solo 6 ore per non dover fare consegne con delle costanti occhiaie. Tanto non è che fossero indispensabili quei pochi spiccioli in più.
Insomma, entrai nel bagno del locale più per lavarmi le mani che per togliermi il grembiule e mentre ero a metà, mi si presentò il capo cameriere che, appoggiandosi col braccio all’uscio della porta, mi disse di salire in ufficio. Poi se ne andò com’era comparso.
Mi diressi in ufficio poco dopo, risalendo prima le scale a gomito rinforzate da un tessuto morbido che dava un tono di eleganza e al tempo stesso forniva un sostegno antiscivolo, poi passai per la doppia porta che dava al personale autorizzato e infine l’ultima scala, stavolta di legno, che portava a un corridoio con due divani ai lati, due piante agli angoli del muro e bussai.
Attesi qualche istante, ma nulla. Ritentai, ma nulla.
Feci per tornare indietro, ma poi pensai: “Ma che succede oggi? Prima il negozio, poi il finto appello del capo? Boh…”
Poi una donna svoltò l’angolo trovandomi lì: “Mio marito non c’è al momento”, mi disse mentre ero ancora di spalle.
Mi voltai e potei solo rimanere in silenzio un momento. La squadrai come un’opera d’arte: capelli neri a coda di cavallo, trucco leggero, catenina con diamanti microscopici che le illuminavano il viso se esposti alla luce, un vestito d’ufficio con gonna stretta e la giacchetta aperta, tacchi alti ma non esagerati e un orologio che non gridava al risparmio.
Sì, tra gioielli e preziosi sarei capace di rubare dei braccialetti di gomma durante una rapina scambiandoli per roba di valore, se dovessi contare sull’esperienza.
Si avvicinò alla porta che aprì con una scheda. L’unico sistema di sicurezza finora notato in tutto il locale. Non che l’avessi mai esplorato, in realtà. Non ero un tecnico e non volevo dare l’impressione di un guardone, quando feci domanda.
Entrò e mi indicò la poltroncina con la mano mentre passava dietro la scrivania per sedersi. Mi sedetti e aspettai. Vidi che si rivolse al computer posto obliquamente in modo da occupare l’angolo del tavolo con le estremità del sostegno del monitor, come se fossi in banca.
Le diedi un po’ di tempo. Magari aveva qualcosa di cui occuparsi prima di me.
Qualche altro minuto di attesa e mi rivolse finalmente lo sguardo. Pose le braccia in avanti sul tavolo ed incrociò le dita.
“Allora, ho bisogno di qualcuno che copra un turno extra a partire dalla prossima settimana”, disse.
“Non c’è abbastanza personale? Perché col mio capo avevo pattuito 6 ore al giorno per non dover lottare col sonno mancante dal prima lavoro”.
“Fai due lavori?”
“Eh sì. Ho dei vizi e devo soddisfarli in qualche modo”, le risposi.
Alla parola “vizi” crucciò un attimo le sopracciglia in un sorriso di curiosità, ma non gli diedi peso.
“Che lavoro fai?”, continuò lei.
“Il fattorino. Consegno robe varie su commissione”.
Descrizione eccelsa. Niente di più generico. Per quanto ne sapesse avrei anche potuto essere un corriere della droga.
Un po’ spaesata cercò di approfondire chiedendomi ancora: “Ma invece di “consegnare roba” -, e lo disse evidenziando l’uso ironico del termine – non faresti prima ad occuparti degli anziani o portare cani a spasso?”
“In questa città?”, le chiesi pensando al caos, al traffico, allo smog e alla mia totale incapacità di dimostrare responsabilità per i fatti miei. Figuriamoci animali domestici: altre tasse, pedigree… “Nah. Molto meglio guadagnare servendo alcolici e consegnando casse di frutta o bollette dei negozianti che non possono lasciare il posto”.
La spiegazione fornita riguardo l’approfondimento delle mie mansioni la interessò tanto da esprimere un’espressione soddisfatta.
“Comunque – tornò quasi seria per un attimo – qualcuno l’orario lo deve coprire”.
Mi guardai intorno fissando le pareti delle stanza e alcuni quadri appesi, cercando infine di scorgere qualcosa dalla porta chiusa.
“Sei qui da un mesetto. Non vorresti farti notare e guadagnarti magari una promozione?”, mi chiese.
Io invece pensai: “E perché dovrei essere proprio a farmi notare visto il numero di dipendenti molto più capaci di me?”
Poi però le risposi:
“Guardi…”
“Lisa”, mi interruppe.
“Lisa – ripetei a pappagallo – ho visto colleghi decisamente più promettenti di me all’opera: camerieri con bicchieri di cristallo in una mano e bottiglie di champagne nell’altra, baristi servire 8 shot di fila facendo rotolare la bottiglia sul bancone e risparmiare tantissimi secondi…”
“Stai rifiutando?”, mi interruppe ancora.
“No, ma… voglio dire, sono nuovo! Non c’ho proprio esperienza in questo campo. L’unica cosa che sono riuscito a fare è stato servire per puro culo con l’ansia addosso per la prima settimana. Poi ho dovuto fare da me affidandomi all’istinto che, per un caso totalmente fortuito, mi è tornato utile…”
Non riuscivo a liberarmi dall’insicurezza e dalla paura di dovermi assumere delle responsabilità, visto che avrei dovuto abbandonare la quotidiana routine casalinga alla quale ero stato abituato. Non che avessi paura di lavorare il doppio, ma ero da solo a casa. E se fare dei turni extra mi avesse impedito di sentire la sveglia in futuro, o di perdere il primo lavoro ottenuto già di suo grazie a delle amicizie?
“Guadagneresti di più e non saresti da solo. Saresti sotto la mia supervisione ogni giorno”, tentò di rassicurarmi lei mentre nascose per un istante la mano sotto il tavolo per ricongiungerla subito con l’altra sul tavolo.
Rimasi confuso dal gesto. E mo’ che aveva fatto? Aveva impiegato lo stesso tempo che ci si mette a nascondere un chewingum masticato sotto il tavolo, ma non aveva preso niente dalla bocca.
“E poi… – continuò alzandosi per circumnavigare la scrivania mentre con la mano ne accarezzava la superficie, sedendocisi infine sopra e alzando i tacchi sui braccioli della mia poltrona – Ci sono occasioni che capitano solo una volta nella vita”, concluse aprendo le cosce.
Un perizoma di pizzo nero mi si presentò davanti agli occhi.
“Oh cazzo”, pensai cominciando a tremare.
“Ma-ma…”, balbettai all’improvviso.
Lei invece mi guardò sicura di sé con un’espressione maliziosa dagli occhi al sorriso.
“I-io, cioè… non…”
Ero nella merda. Impossibile. Troppe coincidenze in un giorno solo. Prima Alessia aveva cercato di corrompermi per lavorare qui, e adesso la moglie del capo che – a proposito, era bello robusto e quindi altri cazzi – mi stava seducendo… affinché accettassi un’offerta che altri avrebbero pagato per avere?!?
Ma quand’è che il mondo aveva cominciato a girare a favore dei miei interessi? Cioè, avevo letto che se la Terra avesse dovuto invertire l’asse di rotazione, prima di tutto si sarebbe dovuta fermare e ciò avrebbe provocato spostamenti continentali e nubifragi. Poi sarebbe successo un casino apocalittico in tutto il mondo!
Rimasi senza parole. Ero completamente paralizzato e la responsabile non mostrava alcun segno di cedimento o scherzo. Mi chiesi cosa potesse spingere tante donne così belle a concedersi con tanta facilità a me. No, seriamente. Io sapevo che solo uomini di potere dotati di grande influenza e carisma disponessero di tali “risorse” e che, nella maggior parte dei casi, affittassero delle escort di lusso per farsi accompagnare agli eventi ai quali erano invitati.
Non capivo nulla. Non riuscivo a trovare un filo conduttore. Il cervello partoriva pensieri con una rapida sequenza di fotogrammi che non mi permettevano di mettere a fuoco uno solo dei tanti casi ai quali avevo assistito.
Cosa fare e, soprattutto, perché?!? Non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto senza uno scopo motivazionale e adesso mi ritrovavo di fronte ad una donna che voleva usare ogni arma a sua disposizione pur di tenere un totale neofita nel suo locale senza neanche porsi il problema delle finanze? Non aveva senso. Altro che raccomandazioni!
Scivolò sul tavolo offrendomi ancora meglio il bacino. Ormai era a 120′, si reggeva con le mani sulla scrivania e la camicia cominciava a tirare stringendo le generosissime tette. Una 4^ abbondante.
Provai ad avvicinarmi, ma mi resi conto che la gonna era stretta. Allora Lisa allungò la mano e tirò su la lampo dal basso, aprendomi la strada. Rimaneva comunque d’ostacolo il perizoma. Volli metterla alla prova facendo passare le mani sotto le sue ginocchia per farli risbucare ai lati dei suoi fianchi, e lei sollevò il bacino mantenendosi in equilibrio sulle mani. Dalle braccia cominciai a notare le vene tese e capii di non avere tempo per riflettere, quindi infilai le mani nella gonna e, cercando di no far terminare prima lo spazio che si restringeva, afferrai i lembi del suo perizoma facendolo scivolare fuori, finché non fu costretta a richiudere le gambe e gettarlo via con un piede. Poi riprese posizione tornando a sedere.
E vabbé. Ormai…
Vidi che si teneva bene per la sua età. Non pensavo che la moglie di un semplice gestore di locale potesse essere così appassionata di estetica. Una pesca. Ma le donne con i peli erano sparite dal mondo? Non dico un bosco, ma una striscia?
Ah no, farebbe puttana.
Mi decisi e cominciai l’esplorazione: finii di tirare su la lampo e la gonna cadde come un tappeto sulla scrivania. Perfetto. In caso di orgasmo imprevisto avrebbe potuto nascondere i suoi fluidi dall’interno. E poi faceva tanto tappetino del mouse, quindi lo trovai anche divertente da un certo punto di vista.
Nel frattempo le mie mani avevano preso ad accarezzarle l’esterno di ogni coscia, risalendo con le dita sulla parte superiore, fino alla curva dei fianchi. Morbida ovunque, anche se ogni cosa di lei mi faceva pensare a “matura”.
Senza indugiare oltre, mi misi e baciarle le piccole labbra come antipasto. Anche se, con una minima distrazione sarebbe potuto diventare dolce in pochissimo tempo, vista la vicinanza al clitoride. Le stuzzicai le grandi labbra col naso mentre le baciavo con delicatezza. Ho capito Elena, ma questa donna aveva dei gran bei labbroni da 40enne!
No, non erano “sfondati da vaccona” come potrebbe pensare il meno educato fra tutti i lettori.
Le aprii ulteriormente le cosce e decisi di cominciare a fare sul serio dopo aver dato la prima occhiata. Con l’ausilio dei pollici le aprii le grandi labbra e presi a baciarle la membrana interna, più sensibile al tatto. Siccome però le mie labbra erano secche, me la lavorai con insistenza usando prima la punta della lingua e poi la parte più viscida, posta sotto. L’effetto fu immediato: cominciò ad ansimare agitando ogni parte del corpo. Il seno ballava e la pancia si gonfiava nervosamente. Lei respirava dalla bocca e la testa finì presto appesa al collo. La giacca le scivolò sulle braccia scoprendole le spalle comunque coperte dalla camicia e il bacino mi venne offerto una terza volta, ma adesso decisamente più vicino. Così tanto da sbattere contro il mio naso che premette sul clitoride che guizzò via come un’oliva scatenandole un brivido improvviso che mi fece soffocare stretto fra le sue cosce.
Approfittai dell’occasione per tornare a stringerle le cosce da fuori con le mani mentre con la faccia affondavo nella parte migliore che avesse mai potuto offrirmi. Leccavo, baciavo, mangiavo a gran bocconi e il forte odore di sesso umido ebbe pure la pretesa di negarmi l’unico spiraglio d’aria su cui potevo contare. Cazzo vuoi, devo mettere le branchie?!?
Feci uno sforzo inspirando aria dal naso, anche se ricevetti molto più odore di sesso che altro.
Allora… io amo la donna. La venero. Amo tutto di lei e non ho mai avuto pregiudizi sul seno grande, piccolo, il peso eccessivo o la tonicità scultorea. Non me n’è mai fregato niente di valutare una scopata in base alla bellezza estetica: quando c’è intesa, ne approfitti e basta. Ma a tutto c’è un limite! Come cazzo dovrei sopravvivere ad un tanfo simile? Ho capito la foga, la voglia di cazzo o anche solo di una lingua capace, ma… o mi dai il tempo di respirare aria pulita, oppure ti rivolgi ai sommozzatori che vengono addestrati apposta per resistere dai due minuti in poi sott’acqua!
Ciononostante trattenni il nervoso e mi concentrai il più possibile per fare in modo che l’esperienza non venisse rovinata o interrotta da problemi di sorta.
Continuai a dedicarle tutte le migliori attenzioni che potevo dare in situazioni del genere finché non allentò la presa con le gambe e venni quasi allontanato sia da una leggera spinta da parte del suo bacino, sia dall’urgenza d’aria che i miei polmoni chiedevano a gran voce.
Ripresi fiato e subito venni quasi minacciato: “Prendimi, cazzo!”
Minchia, a momenti mi spaventò per davvero.
Mi sfilai i jeans – stavolta facendo attenzione a non incastrarmici di nuovo – e mi avvicinai a lei puntando la cappella alla sua vagina. Ma una voce tuonò di nuovo: “Eh no!”, disse tendendo un braccio alla borsa vicino al computer, dentro la quale frugò in fretta porgendomi poi un trio di preservatici che praticamente mi lanciò contro.
“Si è incattivita la responsabile. – pensai – Da quanto non scopa?”
Dopo averla guardata immobile strappai un condom e me lo srotolai senza perdere tempo. Mi avvicinai e stavolta si lasciò prendere. La afferrai con le mani sul culo e lo tirai a me, mentre lei, ancora coi tacchi sulla poltrona, se ne stava bella comoda nonostante occupasse tantissimo spazio: le braccia stese sulla scrivania, lei sdraiata lungo l’asse verticale tagliando il tavolo a metà e le sue gambe allungate fino alla poltrona. Se non l’avessi vista prima, adesso l’avrei scambiata per una mantide religiosa di 2 metri. Ah, la prospettiva.
Spinsi il bacino e capii subito di doverci mettere della forza nei colpi. Non solo non mi abbracciava per mantenere una certa distanza empatica, ma non era neanche disposta a venirmi incontro per facilitarmi la penetrazione col bacino. Dovetti fare tutto da solo mentre lei, se non fosse che ogni tanto mi controllava alzando la testa come in attesa di qualcosa di dovuto, se ne stava “comodamente” a dondolo con la testa nel vuoto gemendo ad occhi chiusi.
Se prima aveva dimostrato grande iniziativa e interesse illudendomi di qualche tipo di avvicinamento, ora sembrava solo la ricca moglie scopa-giovani di un imprenditore col cazzo moscio. O, in alternativa, il sempreverde luogo comune del riccone scopa-segretarie arrampicatrici sociali dalle tette rifatte.
Decisi quindi di cacciare qualunque pregiudizio, per quanto istintivamente corretti potessero sembrarmi al momento, e mi diedi semplicemente da fare. D’altronde, se prima mi aveva sedotto con l’obiettivo di farmi rimanere al lavoro oltre l’orario concordato, adesso avrebbe anche potuto ricattarmi di licenziamento per averla abbandonata a metà raccontando la favola dell’impiegato che ci prova con la moglie del titolare. Bella merda.
E sia. Mani strette sul suo culo 40enne e la scopai con forza. Inizialmente la trovai solo un po’ ostica e fredda persino nell’ospitare membri estranei al suo interno, poi però cominciai a sbattere con vigore finché il martellamento non divenne una costante a lungo termine. La scopai proprio forte. Ogni tanto la tiravo di nuovo a me per diminuire la dolcezza dei colpi causata dalla distanza che lentamente ci separava scopandola pelle a pelle fino in fondo, altre invece le accarezzavo le cosce per cercare un minimo di soddisfazione in quella pelle così morbida, ma fredda.
Provai anche a mettermi le sue gambe sulle spalle, ma non sembrava apprezzarlo per tempi troppo lunghi. Prima o poi avrebbe comunque cambiato posizione per tornare alla posizione di prima, sulla poltrona.
Non so nemmeno io come feci a durare tanto a lungo. Forse il fatto che non ci fosse la benché minima traccia di amore o affetto anche simulato mi aiutò ad aumentare le mie prestazioni in termini di durata. Alla fine ansimò a voce alta. Urlò riempiendo l’ufficio che, pensandoci adesso, sembrava più insonorizzato persino della discoteca al piano di sotto dove, per legge, il suono non poteva uscire in strada, motivo per cui le pareti fossero così ben arredate la grande sala da ballo fosse divisa dalla strada tramite un corridoio anch’esso rinforzato. Non era uno studio di registrazione, ma c’erano sicuramente rinforzi di spugna nelle pareti e cartongesso al posto delle semplici mura di mattoni.
Venne in un orgasmo che definirei isterico, sebbene non mostrasse alcuna rabbia, ma come donna neanche nel momento di maggior bisogno si degnò di abbracciarmi. Anzi, cadde stremata sulla scrivania mentre mi stringeva a sé con le cosce per tutta la durata in cui l’orgasmo era più forte. Poi, riacquisita un minimo di lucidità, allentò subito la presa. Io invece dovetti accontentarmi dell’orgasmo più freddo e distaccato mai avuto fino a quel momento: se nel momento di svuotarmi la martellai a dovere, nel momento di maggior fragilità non osai neanche abbracciarla: poggiai le mani ai lati del suo bacino e mi feci forza sulla liscia superficie della scrivania.
Mi ricomposi sfilando il preservativo e lei me lo prese dalle mani legandolo alla bene e meglio, per poi gettarlo come fosse merda. Ci mancava solo che avesse una sigaretta in bocca e gli occhi socchiusi dal fumo e avrei anche potuto odiarla.
Al suo posto, Elena aveva e avrebbe venerato il mio seme come il dono più grande che avessi potuto farle a testimonianza del reciproco sentimento che ci legava.
Mi guardai intorno e scorsi una porta, entrai e mi feci un bidet nel lavandino. Vaffanculo.
Uscii già rivestito e lei non c’era più. Non so nemmeno io cosa provai esattamente in quel momento, a parte rabbia, frustrazione e odio.
Scesi le scale senza nemmeno guardare dove andavo e per caso scoprii una porta antincendio che non avevo notato prima, essendo poco illuminata in corridoio prevalentemente buio. Appena uscii dal locale vidi un muro bianco consumato e dei cassonetti poco distanti con dei sacchi neri al muro. Neanche a farlo apposta Lisa era proprio lì nel mezzo a fumarsi una sigaretta, vestita elegante come l’avevo vista poco prima.
“Dalla settimana prossima aggiungi 2 ore all’orario e smetti di consegnare merda. La paga sale e sei sotto la mia supervisione”, mi disse con freddezza.
Le avrei volentieri sputato in faccia se solo non avesse messo di mezzo l’aumento. D’accordo che non guadagnavo un cazzo come fattorino e che era più un favoritismo per via di amicizie fatte nei vari locali, ma perlomeno ero felice di sapere di essere utile a qualcuno. I soldi non mi avrebbero migliorato la vita, ma solo fatto sostare un po’ di più davanti alle vetrine a valutare gli acquisti leggermente più costosi scartando a priori quelli che fino ad ora mi avevano ricordato la mia situazione economica. Insomma, mi sarei potuto permettere di spendere un po’ di più e di godere meno del poco che avevo sempre avuto.
CONTINUA Nel periodo successivo passai le serate a lavorare fino a tardi: dalle 20:00 alle 4 del mattino servivo ancora cocktail, ma guadagnando più di prima.
Scoprii che tale coraggio negli investimenti era dovuto alla volontà di ingaggiarmi come escort: ogni fine settimana staccavo alle 4 e dovevo scoparmi la responsabile nel suo ufficio, mentre il marito era sempre fuori per mettersi d’accordo con altri gestori per potersi permettere l’aggiunta di un corridoio che conducesse ad un locale di lap dance.
Il locale aggiunto aveva un’entrata principale sul lato opposto della strada e un cancello di ferro nel corridoio interno con tanto di biglietteria arrangiata. I clienti che volevano uno strip tease dovevano entrare da un lato, mentre chi ballava per rimorchiare il più delle volte finiva in bianco e abbastanza ubriaco da cadere nel tranello di alcune PR appositamente selezionate per adescare i più imbecilli disposti a farsi twerkare direttamente sui pantaloni per andarsene con le mutande collose.
Io invece accumulai abbastanza fondi da sostituire il mio portatile con un Mac, la piccola tv con uno schermo piatto sul muro e un vestito firmato per lavorare nel locale. Dimostravo sì maggiore sicurezza economica visto da fuori, ma dentro mi sentivo come quei poveretti che tornavano a casa dalle proprie mogli con le mutande impastate di schifo mercificato, l’alitosi provocata dall’alcol e un posto nella società dovuto esclusivamente dal fatto che ero troppo vigliacco per dire di no. Mi mancavano proprio le palle.
Prima di tutto ciò, però, ebbi modo di rivedere Elena che mi spiegò come mai se ne fosse andata in così male modo. La rividi qualche giorno dopo, in realtà. Non ricordo se fosse passata più o meno di una settimana, ma disse che aveva dovuto affrontare alcuni esami e che le dispiaceva di essersene andata così meccanicamente, ma onestamente l’avevo sconvolta. Se in un primo momento si era lasciata andare, col senno di poi aveva realizzato che avevo bisogno di sfogare dell’affetto represso e lei si era inconsapevolmente resa disponibile senza sapere a cosa sarebbe realmente andata incontro. E ciò l’aveva scossa, quindi se n’era andata per rimanere da sola a riflettere. Fortuna però – disse – che non ebbe tempo a sufficienza per riflettere così tanto da cadere in depressione perché con gli impegni scolastici alle porte aveva avuto un bell’impegno su cui concentrarsi per dimenticare la tristezza che le avevo trasferito. Ma non aveva dimenticato la fragilità travestita da irruenza con la quale l’avevo presa e, pensandoci bene, non le era dispiaciuto affatto.
In fin dei conti l’importante era che lei stesse bene e che io avessi una stabilità economica, dato che la mia tristezza era causata dalla pressione sul lavoro. E a volte, non sempre, ma a volte potevo contare su di lei che veniva a trovarmi quando poteva. E ogni volta riscoprivo la pace dei sensi.
Passarono alcuni mesi. Pochi a dir la verità, ma ritrovai anche Alessia in un centro commerciale. Ero seduto in un bar all’aperto con un giardino di aiuole ed enormi vasi in terracotta da cui si ergevano piccoli alberelli e diverse tonalità di fiori colorati sparsi sul praticello con una piccola fontanella nel mezzo.
La beccai con delle enormi buste che esibivano i marchi dei negozi di appartenenza e lei era visibilmente diversa: se al primo incontro mi si presentò una ragazza poco più che maggiorenne ancora impegnata con la scuola, adesso ne trovai un’altra vestita alla moda con un vestito estivo dalla gonna non troppo corta. Mi disse che aveva lasciato il suo ragazzo per un agente immobiliare auto munito – anche se era certamente un eufemismo visto con cosa andava in giro – e che il lavoro come ballerina di lap dance le aveva permesso di assicurarsi un appartamento condiviso in centro.
Appena appresa la notizia non seppi come prenderla: una ragazza arrivista che aveva lasciato il ragazzo geloso per uno ancora più spavaldo che condivideva con lei la passione per le scalate sociali, visto che per “scalate” non si intendeva affatto alpinismo. Oppure una troia che di notte ballava oleata in bikini strofinandosi su un palo d’acciaio con lo scopo di guadagnare soldi illudendo i poveretti di avere la benché minima di chance di abbordarla a seconda di quanto fosse alta la mancia o; peggio, la caparra sganciata dimostrando di potersi permettere la fantomatica bottiglia di champagne che, per alcuni proprietari, valeva come un “permesso a poter staccare per farsi ospitare a casa del cliente”, mentre di giorno faceva pompini al suo ragazzo incravattato per avere “un valido motivo per tenersela stretta”. Bel dilemma. Un giorno d’autunno in particolare cominciò decisamente alla grande: ero in ginocchio sul letto e mi stavo scopando Elena come non mai. Lei carponi sul materasso e i suoi gemiti echeggiavano per tutto l’appartamento, i suoi capelli incollati sulle spalle e sparsi sul viso, mentre alcuni ciuffi sulla fronte volavano leggiadri. Eravamo sudati fradici e le mie mani ben strette ai suoi fianchi mentre la prendevo la dietro. Godevamo in sincrono come degli ossessi fino al momento in cui non ebbi un orgasmo sconvolgente che le riempì l’intestino e sconquassò anche lei, facendomi prima cadere esausto sulla sua schiena e subito dopo anche lei perse l’equilibrio trascinandomi con un tonfo su un fianco.
Ci servirono diversi minuti per riprendere fiato, dato che io ero sì meno rumoroso di lei a respirare, ma ciò non significava che Elena fosse silenziosa. Era scombussolata, ma purtroppo aveva la capacità di rendere melodioso qualsiasi verso le uscisse dalla bocca; cosicché, intenerito dalla sua voce, mi schiacciai contro la sua schiena e capì subito cosa volessi in quel momento: rivolse un braccio all’indietro per accarezzarmi il viso e voltandosi di poco cercò di baciarmi sulla bocca, avvalendosi del mio aiuto nel tentativo di non farla sforzare ulteriormente.
Non avevamo neanche le forze per coccolarci come di consueto, visto che le lenzuola erano appiccicose e noi due profumavano allegramente di sesso e sudore misti. Rimanemmo sdraiati in silenzio per una buona mezz’ora, dopodiché io mi diressi in bagno per una doccia ed Elena scese dal letto, nuda, accendendosi una sigaretta e lo stereo scegliendo un disco dal mobile attaccato alla parete.
Cercai di rilassarmi sotto il caldo getto dell’acqua mentre lasciavo che ogni pensiero scivolasse via insieme all’acqua che mi picchiettava sulla testa. Dedicai qualche minuto alla cura del mio corpo con un bagnoschiuma aromatico e tonificante, poi uscì e mi infilai dentro uno dei due accappatoi, guardandomi allo specchio sotto le note di una musica che non seppi riconoscere, ma che tutto sommato non mi infastidiva.
Elena invece ballava e ogni tanto si concedeva un tiro. Vedendola sbucare ogni tanto dal muro che separava il bagno dalla sala grande mi ricordò la scena di un film in cui una ragazza ballava accompagnata da della musica, ma fumava una canna.
Una volta tornato da lei, presi le lenzuola e le gettai nella vasca da bagno insieme alle federe riempiendola d’acqua e tappai lo scarico. Poi mi avvicinai a quella splendida creatura e le cinsi i fianchi. Si adattò subito senza bruschi movimenti. Ancheggiamo in sincrono mentre con le mani accarezzava le mie posate sulla sua pancia e si voltò di 180′ con dolcezza, portando le braccia intorno al mio collo per ballare un lento. Quella musica aveva veramente di tutto: una parte ritmata e un assolo di liscio. Onestamente non avrei mai pensato di trovare il modo per sfruttare un momento di base rilassante di così breve durata per vivere un attimo e amplificarlo in eterno.
I suoi occhi marroni mi fissavano incessantemente, le sue labbra disegnavano un sorriso sereno e il suo corpo nudo, inutile dirlo, era qualcosa di perfetto. Sembrava un sogno. E come tutti i sogni, s’interruppe riportando in auge la parte ritmata.
Ci demmo quindi il cambio: Elena andò in bagno e io raccolsi i vestiti che prima avevo ignorato, distratto da qualcosa di ben più memorabile.
Avevamo la giornata libera visto che l’università non la costringeva a studiare orario continuato e io mi ero guadagnato qualche ora di riposo avendo svolto un ottimo lavoro, a detta della responsabile. Motivo per cui avrei i miei dubbi nel definirlo “ottimo”, ma trattandosi pur sempre di lavoro retribuito, preferii non obiettare oltre visto quanto mi aveva permesso di fare dal giorno della promozione.
Il gruppo WhatsApp e i contatti in generale ormai non esistevamo quasi più: ero stato così impegnato non avere i tempo né di organizzare uscite, né di avviare conversazioni serie. Persino Alessia aveva smesso di scrivermi, sebbene il suo numero fosse ancora ben visibile. Scrivevo solo un paio di cazzate a tempo perso e tornavo a dedicarmi esclusivamente ad Elena, cercando di trarre il meglio da ogni giornata e avvalorare ogni ora passata in sua compagnia.
Uscimmo poco più tardi coprendoci per l’autunno che, soprattutto nord, picchia più che nel resto del paese. Passammo la mattinata passeggiando nel parco sotto una nevicata di foglie colorate di diverse tonalità: dal giallo acerbo, quasi verde, a un giallo più accesso fino ad altrettante di rosso, come il rosso rame, rosso scuro e rosso fuoco. Non mi sembrava possibile di poter essere il protagonista principale di una così grande quanto incredibile avventura. Non so se fosse l’autunno a rendere magici quei momenti altrimenti insipidi fatti di smog e auto ibride autorizzate a passare solo in determinate zone considerate troppo inquinate, mentre le strade brulicavano comunque di mozziconi; così come i tombini, e dall’altra parte c’era persino chi sputava a terra e padroni che ignoravano le feci dei cani con la scusa dell’erba alta, o se la semplice quanto ormai fondamentale presenza di Elena.
L’unica cosa di cui m’importava adesso era di camminare con lei sotto il mio braccio attraverso quel viale alberato pieno di colori che testimoniavano un cambio di stagione fatto momenti morti riempiti con abusive scopate nei cessi di locali di periferia e di domande sulla vita. Invece adesso si avvicinava lentamente il freddo e finalmente potevo vantarmi di avere qualcuno su cui contare per scaldarmi la notte e amarmi di giorno. Ero felice, e lo ero grazie a lei.
Facemmo quattro salti sull’altalena per bambini, quella vecchia asse di legno piazzata lì così tanto tempo prima da chissà chi e ci divertimmo a provocarci e ridere, scherzare e goderci un giorno di pura pace. Parlammo di tante cose e fondamentalmente di nulla. Le ore passarono tra un Big Mac a pranzo e un viaggio fuori città nel pomeriggio. Eravamo consci di non poterci allontanare troppo, ma volevo soltanto fuggire dal caos quotidiano in cerca di un minimo scorcio di compagnia, nonostante fosse la stagione meno ideale.
Scendemmo dal treno e, in assenza di una conoscenza geografica anche minima, finimmo in provincia. Esplorammo comunque le vie della città contenti perlomeno del ridotto numero di traffico e persone. Qui le poche presenti portavano fuori i cani e i bambini erano pochi, supervisionati dai genitori seduti sulle panchine del giardino. Attraversando la zona ci lasciammo contagiare dalle risate dei bambini e poi dalle innocenti litigate per il furto di giocattoli e pure dalle mamme esasperate per la continua interruzioni di conversazioni fra “adulti”, come se avessero chissà che di cui parlare di diverso da chiunque altro. Ma ignorai presto pure questi pensieri perché ero in compagnia di Elena, e volevo solo godermi i momenti che casualmente si accodavano uno dopo l’altro.
Preferimmo ridere divertiti guardando i bambini, cominciando addirittura a pensare di volerne uno anche noi. Così. Non tanto per un desiderio di maternità, quanto più per la loro spensieratezza nel sapersi divertire senza pensare ai problemi della vita che invece riguardava solo una fascia di età troppo al di fuori dal modo in cui loro potevano ancora vedere il mondo.
Tornammo in città verso sera, prima delle 19, così potevamo ancora decidere se cenare a casa o fuori. E alla fine optammo per una cena in casa. Noiosa, certo, ma avevamo anche preso un volantino che pubblicizzava l’uscita di un film al cinema. Una volta in casa ci spogliammo dei giubbotti che appendemmo all’appendiabiti e ci dividemmo i compiti: io mi feci un’altra doccia ed Elena si mise ai fornelli, poi io apparecchiai e lei prese il mio posto i bagno.
Mangiammo leggero per lasciare spazio ai popcorn ed Elena si cambiò d’abito: un tubino blu notte dotato di una generosa scollatura che delineava perfettamente i suoi seni: mostrava tutta la delicatezza delle curve senza andarle ad intaccare o modificare, le spalle erano nude per la sua scelta di poterle vedere le ascelle quando si sarebbe sistemata i capelli a coda di cavallo e la schiena aveva un’apertura ovale bloccata sul collo.
“Sei uno schianto”, le dissi a voce bassa, mentre la luce del sole calava attraverso la finestra.
“Grazie”, rispose mantenendo lo stesso tono.
Mi diressi nello sgabuzzino chiedendole di aspettare e, mentre si sedeva accavallando le gambe, presi un pacchetto regalo da una busta nascosta dietro alcune scatole. Tornai da lei, che sorridente, non aveva idea di cosa avessi preso. Quindi mi inginocchiai di fronte a lei e le porsi il regalo.
Elena si fece seria. Troppo. Mi guardava quasi spaventata. Io sorrisi col cuore in gola e diversa adrenalina in corpo. Si avvicinò portandosi le mani alla bocca ancora prima di essersi fatta un’idea di cosa avessi potuto mostrarle e prese la scatoletta. La scartò e lasciò cadere la carta regalo a terra, poi l’aprì e spalancò la mascella ancora più di prima. Io non resistetti e mi misi a ridere emozionato. E un po’ perché mi faceva ridere il modo con cui aveva spalancato la bocca più di quanto non avesse già fatto poco prima.
Infilò le dita e ne tirò fuori una collana d’argento con alcuni piccoli diamanti incastonati all’interno. Le cadde la scatola dalla mano e tonfò a terra ormai svuotata del suo segreto, io mi rialzai in piedi e, avvicinandomi, le feci solo una domanda:
“Ti piace?”
Elena mi gettò le braccia intorno al collo riempiendomi di baci e scoppiando a piangere dall’emozione. Io non potei fare altro che abbracciarla con forza accarezzandole la schiena cercando di tranquillizzarla con parole dolci vicino all’orecchio. Non riusciva a mollare la presa. Stringeva forte con le braccia e mi saltò direttamente in collo obbligando la gonna a scoprirle completamente le cosce che, per puro culo, non le stracciarono il vestito permettendole così di stringersi intorno alla mia vita. Cercai di aiutarla intervenendo in tempo per reggerla con le mani sotto il suo sedere, mentre le cadde un tacco e l’altro rimase in bilico.
Dopo l’entusiasmo iniziale, feci pure il bastardo chiedendole se potevo avere l’onore di fargliela indossare. Domanda alla quale rispose con un solo sguardo che sottolineava ovvietà. Si alzò i capelli con le mani e, mentre abbandonavo la visione di quello spazio vuoto fra spalline braccia nude, le girai intorno chiudendole il blocco della collana. Poi fu lei a voltarsi dalla mia parte e, semplicemente, mi baciò.
Uscimmo finalmente di casa che era buio e prendemmo l’autobus che portava al cinema più vicino. Essendo una città fortemente improntata sull’economia, il cinema più piccolo era come standard. Poi erano tutti multisala rinomati per la loro qualità audio/video e la comodità delle poltrone.
Scendemmo fra gli sguardi curiosi dei passeggeri per passare a quelli dei passanti che, come se fossimo fuori stagione per la prima della Scala, ci guardavano invidiosi della nostra eleganze. Elena sapete già cos’aveva scelto, ma io mi ero vestito per potermi vantare di starle accanto, nonostante lei stessa fosse stata la prima a sfottermi per l’eccessiva eleganza: giacca nera lucida, pantaloni eleganti e una cravatta blu e nera. Un acquisto fatto giorni prima in uno dei tanti negozi di abbigliamento più costosi di cui la città si fosse mai vantata. Per me rimanevano sempre tessuti lavorati da esperti artigiani, ma comunque dello stesso materiale di uso comune, solo che portavano il nome dello stilista e quindi il prezzo era piuttosto alto.
Attraversato il grande stradone pieno di incroci che ci divideva dal cinema, prendemmo due biglietti e un secchio di popcorn con le rispettive bibite. Ci sedemmo scegliendo dei posti isolati, verso il proiettore e selezionammo entrambi la modalità aereo sui nostri telefoni. Non che ci avessimo ricevuto chiamate di rilevante importanza durante il giorno, ma siccome le amiche di Elena avrebbero potuto scriverle su WhatsApp, io decisi di fare lo stesso sia per rispetto che per la complicità di fare qualcosa in più insieme.
Dopo le classiche pubblicità cominciò finalmente il vero spettacolo, ma dopo la prima mezz’ora ci rendemmo conto di quanto l’uso del termine “spettacolo” fosse stato sopravvalutato. Eppure la locandina sembrava interessante.
Elena ed io cominciammo a rubarci popcorn a vicenda ridendo del gioco. Ogni tanto la provocavo con battute in tempo reale su quanto fossero scontate o prevedibili le battute dello stesso film e lei una volta rideva e un’altra mi tirava una gomitata non riuscendo a prendere sul serio la trama dandomi però ragione. A circa dieci minuti dalla prima ora le sfiorai subdolamente il ginocchio e quando se ne accorse la prima volta fece una faccia come a dire: “E quando cazzo c’è arrivata la mano lì?”, mentre nei successivi tentativi si lasciò andare passivamente, ma senza fare particolari movimenti. Non mi invitava ad accarezzarla più a fondo esponendo il ginocchio alle mie attenzioni, né mi degnava di occhiate nel tentativo di offrirmi baci. Niente di tutto ciò. Si lasciava provocare e ogni tanto la vidi accarezzarsi il labbro coi denti, usando la scusa del sale che le increspava la bocca.
Si accesero le prime luci ed io ritirai la mano. Guardai l’ora dal telefono che mi accese con la sua luce e lo rimisi in tasca, poi presi il giubbotto e le sussurrai all’orecchio di dover andare in bagno. Lei acconsentì e tornò ad ignorarmi togliendo la modalità aereo per pochi secondi. Il tempo di controllare i messaggi ricevuti.
Uscito dalla tenda, percorsi il corridoio ed entrai nel bagno degli uomini, mi aprii la lampo e confermai l’ipotesi fatta durante il primo tempo: un bel principio di erezione. Pisciai e, dopo essermi lavato le mani, feci per uscire dal bagno, ma una volta aperta la porta mi ritrovai Elena di fronte. Seria e inespressiva. Ebbi appena il tempo di realizzare che fosse davanti a me prima che mi spingesse all’indietro con una mano sola. Barcollai qualche istante, ma ripresi l’equilibrio. Il che però risultò inutile visto che mi aveva raggiunto subito. Mi prese per la giacca e, stringendola con forza mi spinse nel bagno per disabili spalancando la porta che produsse un rumore sordo a causa del lucchetto di ferro. Sbatté lei stessa la porta facendo passare il chiavistello, dopodiché approfittò dello spazio vuoto per la sedia a rotelle e mi si fiondò addosso stringendomi con forza in un bacio pieno di passione e bloccandomi in una morsa pericolosa. Rischiai di inciampare un’altra volta non sapendo dove mettere i piedi e allungai le mani a vuoto finendo col rischiare di coinvolgere anche lei nella caduta, ma fortunatamente i riflessi mi diedero un aiuto enorme facendomi scivolare la mano sul morbido cotone del suo vestito e facendoci girare in un rapido vortice fino ad invertire le parti: adesso era lei quella contro il muro. Avanzai sicuro di poter vincere e le bloccai il passaggio piantando la mano sul muro, lei mi guardò sicura di sé e, senza distogliere lo sguardo, fece scivolare il perizoma fino alle caviglie per poi tornare in piedi.
“Eh, ma così non vale!”, ebbi la possibilità di commentare prima che mi gettasse le braccia sulle spalle e mi baciasse con foga e desiderio. Io le afferrai subito i fianchi con le mani facendole poi scivolare dietro la sua schiena, chiudendola fra le mie braccia. Le sue labbra erano tenere, la sua lingua calda e il suo respiro voglioso. Mi accarezzò con i suoi baci, per poi guardarmi dritto negli occhi senza fiatare ad ogni piccola pausa. Io le scostai i capelli con una mano liberandole l’orecchio con un gesto e accarezzandole la guancia poi con un altro, mentre lei vi si adagiò pure chiudendo gli occhi. Mi chinai poi sulla sua scollatura e presi a baciarle il seno visibile, mentre adesso era lei ad accarezzarmi i capelli. Risalii lungo il suo collo alternando teneri baci a fugaci colpetti con la lingua in modo da farle venire i brividi. Cosa che a quanto pare funzionò, visto che la sentivo gemere sottovoce e riuscivo a capire distintamente quando fosse il respiro nasale ad essere pesante e quando invece aprisse la bocca per prendere più aria. Arrivai quindi a baciarla sulla guancia passando per l’orecchio e sostando un secondo proprio dietro di esso liberando lo spazio dai capelli. Poi con le mani mi avvicinai al suo collo e la liberai dai ferretti del vestito. Pensò lei al resto: si tolse prima una spallina e poi l’altra, strinse le braccia per lasciare che entrambe le scivolassero sulla pelle e infine rimase in attesa della mia mossa successiva. A quel punto decisi di non essere più così gentile e le afferrai le coppe del reggiseno tirandogliele sotto i seni pieni ed incastrangoliele così, mentre i capezzoli si ergevano da soli ala luce del soffitto. Mi chinai e presi a baciargliene uno, mentre con la seconda mano saggiai l’altro e presi ad accarezzarglielo dedicando molte delle mie attenzioni alla rotondità del seno nella sua totalità. Elena ebbe un attimo di smarrimento quando notò che le mie labbra non erano umide e per questo riuscivo ad accarezzarle sia il capezzolo che il seno senza creare contrasti fra le densità dei diversi tipi di pelle. Lasciai che le emozioni e i fremiti di piacere la pervadessero finché non passai al lato umido della forza, leccandole quel chiodo di carne ormai pulsante a causa dell’accelerazione cardiaca ivi presente e cominciando ad avvertire i primi gemiti. Tornò ad accarezzarmi i capelli e il viso con le sue mani delicate, mentre il respiro si faceva man mano più instabile. Fu allora che, mentre continuavo ad alterare baci e colpetti di lingua con palpate manuali ormai esperte della giusta intensità incapace di procurarle un dolore che fosse percettibilmente oltre la soglia della sopportazione finendo col rovinare o interrompere il momento, scesi con l’altra mano sui miei pantaloni e liberai il membro ormai duro e vorace.
Dopo un periodo di tempo non definibile in quanto la testa girava e l’unica logica disponibile era un percorso mentale sulla mappa del corpo appena ottenuta attraverso esplorazioni poc’anzi effettuate, mi resi conto che per accertarmi di non colpire zone indesiderate con le mani, avevo drasticamente rallentato l’azione della lingua e completamente interrotto la sequenzialità alternata finora adottata con le bocca. Usai quindi le dita per fare presa sulla gonna del vestito e tirarlo su fino al punto in cui le gambe si univano ai fianchi, facendo presa da sotto le cosce e tirando su Elena che, prontamente, mi si aggrappò come al solito. La spinta diede un colpo ai suoi seni che ballarono un momento salvo poi tornare al loro posto schiacciati dalla doppia pressione delle coppe sottostanti e dal vestito stretto sulle costole. Elena mi venne incredibilmente incontro stringendo con forza le sue cosce intorno alla mia vita, consentendomi di mollare la presa con almeno una mano mentre indirizzavo il membro verso la sua vagina ormai colante. Non appena ebbi trovato l’umido contatto, però, tornai bastardo per un attimo stuzzicandole i punti sensibili delle grandi labbra con la cappella ancora chiusa nel prepuzio, facendole venire un brivido che la fece scattare sia nel corpo che in un sussulto vocale. Come primo risultato ottenni una meritata occhiata di “Vaffanculo”, seguita subito dopo da un “Dammelo” sempre con la sola comunicazione delle espressioni facciali; poi mi dedicai un ghigno malefico accompagnato dal suo solito sorriso condiscendente, per dare finalmente inizio alla messa in scena finale.
Nel momento in cui riuscii a spingere la cappella abbastanza a fondo da constatare l’introduzione al piacere puro e semplice, riportai la mano nella posizione dell’altra per alleggerire di responsabilità la mia dolce compagna e, presa sicurezza della stabilità della posizione, cominciai a spingere mentre Elena mi abbracciò con forza sin dal primo colpo realmente accusato.
Cazzo, questa ragazza sa davvero come comportarsi in ogni occasione e dimostra grande dimestichezza nel calcolo del pericolo così come della sicurezza. Rimasi impressionato prima di venire travolto da un’ondata di calore che fosse in grado di riportare la mia concentrazione alle priorità fondamentali del momento.
Spinsi ogni colpo come se fosse l’ultima e più pericolosa scopata nella nostra vita. Mi convinsi che qualcuno ci potesse sentire solo per bisogno di motivazione al rischio e cominciai a commentare ogni colpo con un gemito di rabbia, testimoniando la fatica in atto. Usai l’adrenalina causata dal rischio di essere beccati per implementare la forza indotta nell’atto ed Elena fu per me una straordinaria testimone guidandomi con i suoi gemiti e i molteplici respiri spezzati a capire come e quando muovermi esattamente. Mi alternai infatti fra un colpo deciso e profondo ad uno più dolce e godibile, fino a quello “a rotazione” che sembrava preferire in certi casi e condannare in altri, poiché in grado sì di esplorare e dilatare le pareti vaginali toccandole direttamente, ma al tempo stesso mi costringeva ad interrompere l’amplesso nella sua violenza naturale per cercare la giusta inclinazione e precisione con le quali evitare inutili dolori.
L’immagine che ne otteni uscendo mentalmente da me stesso e cercando di, appunto, immaginare la scena da fuori fu qualcosa ad alto tasso erotico: un ragazza con un vestito blu, i capelli sciolti e una collana d’argento il cui seno veniva strizzato dalle coppe incastrate col vestito e immediatamente sotto un paio di cosce che terminavano con dei piedi che calzavano dei tacchi eleganti, mentre ospitavano un altro ragazzo vestito in giacca e cravatta impegnato a sudare per il puro piacere che scaturiva dallo scontro-incontro di due anime apparentemente sconosciute, ma intimamente legate. Una scopata clandestina nel posto riservato ai disabili di un bagno all’interno di un cinema, dentro il quale stava venendo proiettato il secondo tempo di un film scontato, noioso e prevedibile come la società che lo aveva finanziato coi soldi di un biglietto, preferendolo a molte altre opere di notevole spessore.
L’orgasmo che seguì a tutto ciò fu un’immensa esplosione di fluidi scambiati in un atto di estremo amore condiviso nella meno inusuale delle situazioni, ma non per questo poco importante. Elena rimase sconvolta quanto me nel momento in cui non fui più in grado di resistere all’incredibile tasso di ormoni prodotto dalla complicità tanto desiderata quanto consumata nel fuoco dell’esplosione che si scatenò negli attimi successivi all’annaspamento di gemiti che, smorzati uno dopo l’altro, mi fecero letteralmente impazzire ogni singolo neurone che fossi mai stato in grado di possedere per dire di meritare un momento del genere.
Il finale di facile intuizione fu invece qualcosa che nessuno di noi si sarebbe potuto immaginare nel modo in cui esso si presentò: al termine dell’amplesso migliore mai avuto con precedenti ragazze, Elena si abbandonò prima esausta su di me, poi fui io a perdere il controllo causato dal tremolio delle gambe che cedettero facendomi cadere a terra tonfando contro la parete che produsse un rumore bruttissimo. Non sapevo se arrampicarmi sul water per tirarmi su ad ogni costo e cercare di rivestirmi come potevo o rimanere a cagarmi addosso dalla paura nel timore che qualcuno di realmente incazzato entrasse dalla porta del bagno fino a seguire la scia di respiri affannati e cominciare a bussare con severa insistenza per riempirci di chiacchiere che sapevamo già, ma di cui, al momento, ce ne sbattevano altamente.
Riprendemmo fiato e cercai di essere il primo a sembrare minimamente capace di reggermi in piedi.
Perlomeno dovevo essere in grado accompagnare la mia compagna di vita fuori dal bagno e avere il tempo di riposarci al buio di una panca fuori dal cinema. Di certo non potevamo sederci nella sala principale, esausti e sudati come eravamo. Puzzavamo esageratamente di sesso. Il problema è che l’odore si era logicamente appropriato della piccola stanza nella sua interezza, quindi se fosse entrato qualcuno avrebbe sentito prima l’odore e solo un istante dopo il nostro respiro che a fatica riusciva a ristabilirsi.
Nonostante tutto, però, decisi di fare uno sforzo e alzandomi in piedi mi resi conto di non essere conciato poi così male. Quindi mi rivestii cercando di tornare presentabile con la camicia nei pantaloni, poi allungai una mano alla mia complice e la aiutai a rimettersi in sesto coprendola praticamente da solo. L’idea di portarsi l’elastico dietro per compiacermi mentre si faceva la coda di cavallo non sembrò più tanto fine a sé stessa: le consigliai di usarlo subito dopo essersi data una sciacquata in modo da eludere in maniera poco più credibile chiunque ci avesse dedicato occhiate di rimprovero fra i gracchianti denti che già mi aspettavo di trovare fuori dalla porta.
Mi sciacquai la faccia e per ultimo la passai anche fra i capelli con duplice effetto. Compreso quello di rinfrescarmi.
Elena mi seguì a ruota facendosi una bella coda ai capelli che le donò subito un aspetto quasi nuovo. Non potei resistere allo spettacolo e la baciai sfiorandole il viso con la mano. Impressionante fu la sua prontezza nel rispondermi senza neanche pensare a vacillare, nonostante fossimo ancora entrambi sconvolti. Chiuse gli occhi e per un attimo ci alienammo dal mondo e dal pericolo imminente di cui eravamo ormai convinti.
Una volta separati, uscii prima io essendo più consono al bagno degli uomini. Controllai con fare più vago possibile e non vidi nessuno, quindi le feci cenno di uscire e finalmente potemmo tornare in sala. Il film stava ormai finendo ed io, non so nemmeno come, riuscii a scorgere in mezzo al buio illuminato, la sagoma di una persona intenta ad uscire. Riflettei a quanto fossimo stati fortunati che nessuno avesse avuto bisogno del bagno per tutta la durata della nostra occupazione e tirai un sospiro di sollievo. Chiedi ad Elena di aspettarmi fuori, così avrei potuto recuperare il suo giubbotto e filarcela il prima possibile. Anche perché, ammesso e non concesso che la persona appena uscita avesse il naso tappato da qualche influenza, avrebbe notato l’odore, indagato e, forse, chiamato la sicurezza. Ovviamente non avevo mai fatto niente di simile prima di quel giorno, ma essendo timido per natura, permisi ad ogni tipo di ansia e paranoia di prendere possesso delle mie paure e farmi addirittura arrivare ad immaginare il personale dedito a riunire le persone in sala o cercare testimoni che avessero notato strani comportamenti. Come ad esempio una ragazza che ti spinge nel bagno appena stai per abbandonarlo.
Recuperato il cappotto, però, lo porsi ad Elena che se lo mise subito, e una volta pronti uscimmo dal cinema ancora vagamente preoccupati, svoltando subito angolo al primo incrocio che, per fortuna, era posto davanti allo stesso edificio allo scopo di coadiuvare il traffico nel parcheggio dedicato.
Una volta raggiunta una distanza che ci parve sicura, imboccammo la stradina di un parco lasciandoci alle spalle ogni preoccupazione e ci sedemmo, finalmente aggiungerei, sfiniti su una panca di legno. Elena tirò un sospiro di sollievo che riuscii ad identificare come tale solo nel primo istante poi si mischiò così tanto al dolore fisico da diventare impercettibile. Sta di fatto che, intelligente o no, le mia capacità intellettive vennero meno quando la imitai risvegliando tutti i nervi doloranti. Fu difficile anche rivolgersi la parola, ma non impossibile. Dopo aver dato tempo ai nostri corpo di rilassarsi, io mi accesi una sigaretta e cercai di liberare la mente. Al primo tiro ufficiale che segue a quello per accendere la fiamma, Elena prese la sigaretta con le dita e se la mise fra le labbra aspirando a sua volta, togliendomi pure quella soddisfazione.
“Ma vaffanculo!”, la rimproverai.
La sua unica risposta fu un divertito sollevamento di sopracciglia che interpretai meglio un istante dopo come: “Così è la vita”.
Le feci lo stesso scherzo tirando prima che potesse allungare le mani per reagire. Sbuffò una nuvola di fumo che andò in parte sprecata non avendola ancora metabolizzata e rispose con due manate alla spalla esclamando un credibilissimo: “Stronzo!”, prima che mi mettessi a ridere. Mi seguì a ruota e fu così che cominciammo a riprenderci ridendo e scherzando di tutto mentre le auto cominciano a diminuire sensibilmente intorno a noi e il buio cominciava ad inghiottirci. I lampioni si affievolirono lentamente fino a creare un’atmosfera inquietante fatta di ombre immaginarie che scattavano fuori senza un motivo apparente nell’arco della nostra visione periferica e che svanivano se guardate direttamente.
Venimmo improvvisamente colti da un lontano eco di flebili versi di grilli e ci rendemmo conto solo allora di aver smesso di parlare, dando voce al silenzio cittadino che ci avvolse come una coperta nella notte che ricorderò come una delle più belle della mia vita.
La rivolsi uno sguardo e lentamente se ne accorse. Mi rispose con la sua solita dolcezza e la serenità che le contraddistingueva. Un altro momento di magia stava venendo confezionato davanti a me, e non me lo volli perdere per niente al mondo. L’atmosfera era perfetta, lei la protagonista indiscussa e io un’anima incontrata lì per caso mentre girovagava solitaria sul sentiero della vita.
Mi avvicinai impercettibilmente e la vidi farsi più grande. Più vicina. Era bellissima. Ed era lì per me. Il mio battito aumentò e cominciai, senza rendermene conto, a respirare più pesantemente. Era lì, ad un battito di ciglia da me. Mi guardava come si osserva una luna nel cielo: grande, bianca, in mezzo al nulla che orbitava la Terra. E lei era il mio mondo.
La baciai con tanta naturalezza da sentire persino il suo profumo nonostante il tabacco fino a poco prima aspirato da entrambi. Pestai i numerosi mozziconi collezionati in ore di conversazione e risate, posai la mia mano sulla sua tenera guancia e la percorsi al contrario, lasciando che la sua pelle di pesca si prendesse il mio palmo, finché il suo orecchio non mi divise le dita. Le sue labbra morbide mi sciolsero con una carezza e la saliva della sua lingua mi diede nuova linfa vitale come un eremita assetato nel deserto che scopre uno specchio d’acqua nella natura.
Fu un bacio infinito, fatto di carezze, tenerezza e di un’intimità corrisposta al punto da sentirmi sorgere un fuoco dentro. Non nel basso ventre, ma in fondo al torace. Ci separammo un istante e rimanemmo entrambi in silenzio. I nostri occhi fissi l’uno sull’altra. O sarebbe meglio dire nell’altra.
Aspettai che avesse qualunque reazione, ma rimaneva in silenzio anche lei.
“Ti amo”, le dissi a bassa voce.
“Anch’io”, fu la sua risposta seguita da un luccichio negli occhi.
La abbracciai con forza, stringendola fino a farle male. Eppure non si lamentava per niente. Al che protestai, dicendole: “è questo il meglio che sai fare?” Ma lo dissi con la voce stretta nel cuore, come se avessi voglia di romperla ma mi mancasse la capacità fisica. Eppure ci davo dentro, eh!
Reagì stritolandomi con tutte le sue forze, ma invano. Fu per noi come sollevare il martello di Thor senza esserne degni, ma al contrario: eravamo fisicamente incapaci di farci del male.
All’improvviso un fascio di luce si fece debolmente strada sull’asfalto e poi sul terriccio di ghiaia sul quale poggiavamo i piedi. Infastiditi dai raggi che puntavano dritti verso di noi attraverso gli alberi, guardammo in fondo alla strada, verso l’orizzonte che si stagliava oltre i grattacieli a centinaia di metri da noi. Il sole stava sorgendo per ridare vigore al mondo e noi fummo i primi ad essere illuminati.
“Ehi”, fece lei sulla mia guancia.
Mossi la testa quel poco che mi fosse possibile perché lo interpretasse come un segnale di attenzione.
“Guarda… la nostra prima alba”
Lentamente il sole cominciò a distribuire raggi su tutte le pareti di cemento e vetro – perché comunque non eravamo a New York – dei palazzi della città.
Mi emozionai ed Elena mi rivolse uno sguardo quasi indagatore. Mi fisso per un secondo solo e poi mi abbracciò scivolando più in basso di prima, mentre io le avvolsi il collo col mio braccio e le accarezzai la schiena. Finì con lo sdraiarsi sulle mie gambe. Io lasciai che si rilassasse, anche se sapevo che prima o poi sarebbe ricominciato il flusso di macchine ad interrompere quello spettacolo.
Una volta che il solo fu abbastanza alto mostrare una metà di cerchio, passai il dorso della mano sulla guancia di Elena, che lentamente riaprì gli occhi e mi rivolse lo sguardo in un secondo momento.
“Mi dispiace…”, le dissi dolcemente. Ma lei sorrise tirandosi poi su, alzandosi in piedi. Mi porse la sua mano e io non potei fare a meno di notare come i raggi del sole sembrassero messi apposta per illuminare proprio lei, in quel momento e proprio davanti a me. Accettai la sua mano e tornammo a casa a piedi. Lei col braccio dietro la mia schiena fino all’altro fianco e io col mio dietro il suo collo.
CONTINUA Entrammo in casa alle 5:30 ed Elena come prima cosa fece cadere a terra il giubbotto, poi si chinò per slacciarsi i tacchi, ma provai un senso di colpa nel vederla così inginocchiata su una gamba, quindi lo feci io per lei. Poi si alzò e l’aiutai pure coi ferretti dietro il collo e le tolsi pure la collana. Le sciolsi l’elastico sistemandole i capelli sulla schiena e le calai le spalline fino alle braccia. Al resto pensò lei, liberandosi del vestito e togliendosi il reggiseno dopo avermi fatto slacciare anche quello a me. Rimase nuda e si mise a gattoni sul letto accasciandocisi sopra morta.
La imitai subito dopo, ma invece di raggiungerla subito aprii lo sgabuzzino e recuperai una coperta avendo ricevuto una fredda arietta di preavviso. Strinsi le estremità sotto il materasso e vi entrai anch’io, nudo come lei.
Passarono otto ore e la prima sensazione che ricordai di provare fu un misto fra disagio ed eccitazione. Ma siccome per l’eccitazione ero già abituato alle abituali erezioni mattutine, mi rimase solo la prima: un fastidioso problema alla vescica. O perlomeno fu la prima sensazione che il mio cervello riuscì ad elaborare. Si trasformò invece, pochi istanti dopo, in qualcosa di umido. Poi avvertii un brontolio nella zona pelvica e, un secondo prima di svegliarmi, un desiderio saliente stava prendendo forma come se qualcuno avesse agitato una bacchetta facendo formare una nube di fumo ormonale dentro di me che stava prendendo decisioni al posto mio.
Quando mi resi conto di essere effettivamente in grado di aprire gli occhi – più che altro perché qualcosa stava disturbando il mio sonno -, vidi Elena intenta a succhiarmi con passione. Decisamente non era violenta. Per accostarla a qualcosa, era come una donna degli anni ’50 o comunque periodo pre-guerra che impastava il pane fatto in casa o lavava i panni a mano. Ecco con che tipo di dedizione la trovai, mentre faceva su e giù sul mio membro lasciandolo lucido mentre risaliva. E lo sguardo era perso nella concentrazione.
“Così mi uccidi…”, le dissi ansimando con una voce non ancora ripresasi dal sonno.
Mi dedicò un’occhiata sola e un sorriso soddisfatto.
Bastarda. Era proprio la mia morte cerebrale che voleva raggiungere. Mi passai una mano fra i capelli cercando di capire o meno se ero in grado di sostenere un orgasmo così all’improvviso. Poi decisi di dirlo anche lei.
“No, dai… non così, di prima mattina”, la avvisai scuotendo la mano per aria.
Recepì subito il messaggio e, dopo avermi ripulito l’asta dalla saliva tornando su e avermi riportato la pelle al suo posto, lo lasciò cadere mentre si afflosciava molto lentamente e mi baciò a stampo.
“Buon giorno, amore”, sussurrò dandomi poi le spalle ancheggiando nuda fino all’armadio.
Stranamente notai che le sue labbra non avevamo conservato il minimo sapore di sesso. Erano pulite come se non fosse accaduto niente. Fui felice di non aver dovuto scavare nel mio stesso sapore per riuscire a trovare la dolcezza del suo bacio. Mi concessi qualche minuto e poi mi alzai anch’io. Intanto Elena tornò in cucina mentre si copriva la pancia con la maglietta, nascosta sotto una felpa.
Io mi diedi una sciacquata al viso e recuperai i vestiti per terra per poi pensare ad avviare finalmente una lavatrice di cui ricordavo che ci fossimo entrambi dimenticati, quando invece mi resi conto che stava già lavorando in silenzio. “Quella in casa mia è una gran donna”, pensai.
“Amore!”, la chiamai gettando i vestiti nella vasca.
“Dimmi!”, sentii dalla cucina.
“Ma perché c’è solo il lenzuolo a lavare?”
“è un bianco! Il resto sono colorati”.
“Giusto”, pensai aprendo l’acqua della vasca per annegare il sudore dei vestiti.
Mi cambiai anch’io e raggiunsi la cucina per il caffè delle 13.
“Hai fame?”, mi chiese Elena mentre lavava i piatti di spalle.
“Mmh… non lo so”, feci dubbioso grattandomi il capo.
Mi misi ad osservarla mentre si occupava della cucina, rilassandomi con brontolio della caffettiera e mi lasciai travolgere dai pensieri. In realtà persi solo la cognizione del tempo fissando un punto vuoto.
Elena si asciugò le mani e ripose le spugne nella scatola col fondo grigliato e mi servì il caffè.
“Tu l’hai già preso?”
“Un’ora fa”, mi rispose.
“Come hai fatto a dormire solo 7 ore?”
“Mica sono pigro come te”, mi fece notare.
“Grazie”, le risposi sarcastico mentre si avvicinava facendo il giro del tavolo.
Mi baciò sulla bocca e prese un libro da un mobile vicino allo stereo, poi si accomodò sul piccolo divano posto sul tappeto al centro della sala, di fronte allo schermo piatto. Io riposi la tazzina nel lavandino riempiendola d’acqua e accesi la PlayStation inserendo Metal Gear Solid HD, godendomi il doppiaggio originale con le cuffie, mentre cercavo di alternare le cutscene cinematografiche ai sottotitoli.
Passammo qualche oretta in compagnia, ognuno immerso in qualcosa.
Elena chiuse il libro dopo aver consumato diverse decine di capitoli e mi vide concentrato.
“A che stai giocando?”
“Metal Gear”, le dissi.
“E com’è?”
“Lungo”, risposi sgranando gli occhi.
Mi vide un po’ stressato dal susseguirsi ora una uni interminabile cutscene fatta di silenzi e frasi sparse, ora un’altrettanta interminabile fase stealth decisamente frustrante che mi obbligava a riavviare spesso l’ultimo check point. Notai il suo interesse e decisi di uscire dal gioco. Volevo rilassarmi, non scoprire nuove bestemmie. Mi alzai per cambiare disco e presi The Last of Us Remastered spegnendo le cuffie.
Capì in breve tempo dall’inizio del gioco di aver fatto la scelta migliore per coinvolgere la sua attenzione, visto che si emozionò facilmente stringendomi più volte il braccio e reclamando spesso coccole durante i dialoghi.
“Una passione in comune”, pensai emozionato. “Merito di Naughty Dog oppure ho solo avuto un enorme culo nella vita?”
Con questa domanda fui capace di proseguire per tutto il pomeriggio senza che Elena desse mai segni di stanchezza.
Dopo cena passammo la serata a guardare un paio di film: prima Un Sogno per Domani, con Kevin Spacey. Poi uno più leggero, ma non per questo meno profondo: Una Settimana da Dio, con Jim Carrey.
Verso le 2 di notte spegnemmo ogni cosa e ci mettemmo a letto, parlando di cose nostre, ma riflettendo anche sulle attività appena concluse: la capacità di un videogioco nel trattare un argomento tanto sensibile, il senso utopistico del primo film e il messaggio altruista del secondo, finendo con l’aprire le nostre menti confrontandoci a vicenda.
Sinceramente io pensavo già prima a tutto ciò di cui parlammo, ma avendo la possibilità di misurarmi con una donna – quindi una sensibilità diversa – e sapendo che concordavamo con molte idee, ma ognuno di noi riusciva comunque ad arricchire l’altro con piccoli dettagli aggiuntivi, finimmo col fare l’amore addormentandoci un’altra volta nudi.
Se ci penso, da quando avevo conosciuto Elena furono poche le occasioni di poter dormire con almeno l’intimo addosso. Mi aveva sempre dato fastidio addormentarmi con una parte di me penzolante, ma con lei era diverso: non mi rendevo nemmeno conto del fastidio. Riusciva a non farmi neanche materializzare l’idea del fastidio, in qualche modo.
Il giorno dopo pranzammo a casa mia e poi Elena se ne andò per passare il pomeriggio in biblioteca e recuperare il ritmo sui libri.
Io rimisi a posto casa la mattina, consegnandola il cofanetto della collana prima che uscisse. Poi mi dedicai ad una sana maratona di bestemmie online su Battlefield 1 fino alle 18:00. Poi mi feci una doccia tonificante e mi preparai ad indossare il vestito elegante per fare il turno di notte al locale, dove mi aspettavano otto ore di lavoro al bar. Fortuna che almeno non era sabato.
Il problema è che prima o poi avrei dovuto affrontare la responsabile che ormai da tempo era stata delegata come co-proprietaria, visto che suo marito faceva ritorno sempre meno assiduamente, e il più delle volte per far quadrare i bilanci fra l’attività principale, il locale di lap dance e gli accordi presi un po’ qui e un po’ là in giro per il paese. Cercava in tutti i modi di farsi notare anche all’estero nella speranza che qualche marchio grosso, leader nel settore, decidesse di affidargli quella fiducia necessaria ad aumentare considerevolmente le entrate. Dal canto mio sarebbe stato vantaggioso poiché avrei potuto ricevere un aumento più “giusto” dal punto di vista etico, non dovendomi necessariamente scopare la proprietaria che, almeno per il momento mi teneva sotto scacco. Non sarebbe stato facile mantenere il posto. Lisa avrebbe fatto in modo di ricattarmi ricattandomi di raccontare delle nostra storiella – seppur voluta da lei – per farmi perdere il lavoro e rimettermi in strada, facendomi tornare alla ricerca di un lavoro quantomeno dignitoso, ma escludendomi dai locali della cui percentuale, già si vantava, il marito stava cominciando a prendere possesso.
Avrei voluto trovare un modo per interrompere ogni tipo di relazione clandestina per dedicarmi soltanto ad Elena e vivere in pace senza rimorsi, visto essere rappresentavano rispettivamente il ghiaccio da una parte e il fuoco dall’altra. Presi quindi coraggio e, alla fine del mio turno, quindi alle 4 del mattino, chiesi ai colleghi se Lisa fosse nel locale. Mi recai nel suo ufficio tremando come una foglia terrorizzato dall’idea di dover nascondere o confessare – in ogni caso il pericolo era altissimo – la mia fonte di guadagno extra alla mia ragazza.
Ci pensai molto intensamente mentre aspettavo che fosse pronta a ricevermi. Non avevo idea di cosa potesse tenerla impegnata a quell’ora del mattino, visto che sicuramente non era l’orario migliore per telefonate di lavoro. Avrà avuto qualche affare logistico di cui occuparsi, oppure cartelle da riordinare nella memoria del PC. Mille pensieri mi assalirono la mente e non riuscivo a trovare né una valida motivazione per un’attesa tanto lunga, né una frase con cui dare inizio al discorso senza che il risultato si potesse concludere con una sfuriata e il mio definitivo licenziamento, oltre ad una scarica di botte da parte del marito venuto a conoscenza dei fatti da parte sua. E, davvero, se una donna del genere era riuscita a guadagnarsi tanto potere doveva essere dotata come minimo di un grande carisma, aver sviluppato in maniera esperta un’innata abilità seduttiva, per quanto recitata potesse essere; ma soprattutto di una terza capacità: saper convincere chiunque fosse meritevole di assistere sua abilità di attrice, per farsi convincere di essere lei quella sedotta da me e di aver ceduto al mio – non ho idea di quale – fascino nei confronti delle donne.
Insomma, stavo sguazzando in una vasca di merda e acqua putrefatta cercando da una parte di non affogare, e dall’altra di trovare una solido appiglio che non fosse reso scivoloso dalle alghe ivi presenti, nel disperato tentativo di arrampicarmi lungo la parete di viscidi mattoni che coprivano il profondo pozzo nel quale era stata gettata anche Samara di The Ring. Una volta indossati i suoi panni, anch’io mi resi conto di quale rabbia e frustrazione avesse potuto spingere una bambina a compiere omicidi seriali in sequenza, e ad un certo punto non mi sembrò neanche più così schizofrenica. Anzi, era una vittima da compatire per un torto fattole da persone che non riuscivano a guardarle dentro e, anziché preoccuparsi di aiutarla in modo possibile, se ne erano approfittati sfruttando il suo stato mentale così apertamente fragile.
Mentre il mio cervello divagava in completa libertà – non che prima fossi mai stato capace di gestirlo, eh – la porta dell’ufficio si aprì rivelando un collega che si stava ancora abbottonando un paio di pantaloni firmati e decisamente più costosi dei miei.
A occhio stimai un’altezza che oscillava fra il il metro e ottanta e i novanta, una pettinatura tipica da figlio di papà altolocato o comunque uno di quelli che s’illudeva di potersela tirare facendo grossi acquisti; un viso largo sostenuto da una mascella tipo mostro di Frankenstein di Scooby Doo (gli mancava solo il chiodo nelle tempie), due spalle considerevolmente larghe e un fisico palestrato che, se affrontato direttamente, mi avrebbe come minimo fatto rimbalzare scaraventandomi come un’auto caricata a molla e fatta avvitare per le riprese di un qualche film action ricco di esplosioni.
Insomma, un “bel” tipo per gli standard di una società capitalista improntata sulla condivisione di pensieri come “Non giudicare il libro dalla copertina”, “L’aspetto fisico non conta niente senza cervello”, “I soldi non fanno la felicità”; e cagate varie mentre al tempo stesso dimostrava dedizione assoluta alla superficiale sicurezza scaturita dal possedere oggetti costosi, preferendo così il giudizio di massa e le false amicizie, dall’avvalorare il pensiero individuale poiché “Sei l’unico a pensarla così”, “Sei talmente isolato nei tuoi ragionamenti da essere solo al mondo”, “L’economia si basa sulle masse, non potendo accontentare i singoli individui”.
Il tipo uscì quindi soddisfatto e con una faccia da porco mentre per un istante potei assistere ad una coscia sfuggita per sbaglio alla sicurezza del muro, mentre indossava una calza dalla cui estremità superiore potei riconoscere – collegando solo dopo – una piccola merlatura di pizzo, che mi suggerì la presenza di un reggicalze. L’armadio mobile mi passò davanti ignorandomi come uno scarafaggio mentre si lasciava dietro un nauseante fetore di sesso e sudore, con la camicia completamente sgualcita fuori dai pantaloni, che nascondeva una pancia glabra e una cintura sistemata alla bene e meglio.
Provai ad avvicinarmi alla porta socchiusa e bussai toccando la superficie in legno liscio con le falangi delle dita. Lisa mi notò mentre stava digitando sulla tastiera con ancora il vestito sfatto e il seno in bella vista, nonostante i capezzoli coperti. Mi lasciai assalire dall’improvviso spavento nel trovarla così e lei scattò in piedi apprestandosi a chiudere la porta innervosita dalla situazione. Decisi di concederle un altro po’ di tempo tornando a sedere in corridoio. Dopo una mezz’oretta scarsa, la porta si riaprì e Lisa affacciò il viso e richiamò la mia attenzione chiedendomi con tono seccato: “Cosa vuoi?”
“Ho bisogno di parlarti”, le dissi.
“Entra…”, mi disse lamentandosi con un suono gutturale prodotto dalla gola.
Passai dal piccolo spazio che mi aveva concesso tenendo la maniglia nella mano e la chiuse subito tornando a sedere per poi accendersi una sigaretta.
“Ma non era vietato fumare?”, le chiesi sperando che dal tono della mia voce evincesse l’implicita osservazione che le avevo fornito riguardo le dimensioni ristrette del’ufficio, come se non lo conoscesse meglio di me.
Al ché mi dedicò una semplice alzata di sopracciglia, abbassando il mento insieme, il cui significato fu solo un ancora più seccato: “è questo il motivo per cui mi hai disturbata?”
Avrei tanto voluto risponderle a tono, ricordandole di chi fosse il locale e, soprattutto con chi fossi inizialmente d’accordo sui termini del contratto stipulato alla mia assunzione, ma dovetti lasciar passare. Non avevo voglia di cominciare una battaglia. Ero già sicuro che saremmo finiti a litigare e non ero proprio nella posizione di gettare altra benzina sul fuoco.
Quindi cercai le parole migliori per iniziare il discorso, nella speranza che non mi interrompesse anticipando la fase del ricatto prima del tempo.
Cominciai a dire qualcosa che mi desse tempo di pensare alle parole da scegliere, mentre la mia gamba tremava sul pavimento, assorbendo il ticchettio del mio tacco grazie al tappeto sotto la scrivania.
“Senti, lo so che avevamo raggiunto un accordo sul mio guadagno extra e che mi era stato affidato l’incarico di “guadagnarmelo” settimanalmente occupandomi di te, ma…” Lisa mi guardò dedicandomi un’occhiata curiosa, mentre cacciava del fumo di sigaretta dalle labbra e nascondeva un sorriso appena visibile.
“Mi sono innamorato -, le dissi francamente – e non possiamo continuare così. Rinuncio volentieri alla parte extra e ti chiedo la possibilità di interrompere questa relazione clandestina”.
Mai scelta di parole poté dare miglior prova della mia totale imbecillità: “relazione clandestina”. Queste due semplici parole fornirono un elemento chiave a Lisa per capire che la nostra relazione era cominciata poco dopo quella con Elena, ma al tempo non era niente di ufficiale, quindi non sapevo come si sarebbe evoluta. Mi resi conto soltanto più avanti di aver ignorato il momento esatto in cui il cervello le aveva fatto carpire dal discorso le due parole chiave, perché mentre spegneva la sigaretta ebbe un piccolo istante di pausa, durante il quale non si mosse. E in questo lasso di tempo, un ancor più piccolo quanto fondamentale istante in cui i suoi occhi si mossero dal puntare la scrivania e fissare un punto vuoto sul bordo del monitor, seguito da un altrettanto impercettibile accenno di sorriso all’angolo della bocca.
Ma Lisa era una manipolatrice esperta, e non ci mise molto ad elaborare qualcosa in segreto, senza proferirne mai parola con nessuno.
“Lisa?”, la chiamai cercando di muovermi delicato come un militare in un campo minato intento a non far vibrare neanche il più piccolo dei sassolini.
“Elisabetta per te”, rispose alzando il mento in uno sguardo autorevole.
“A partire da domani, ti verrà negato qualsiasi pagamento extra derivato sia dalle due ore aggiuntive sommate per ogni giorno feriale, sia dal tempo che hai dedicato a me ogni fine settimana”, specificò con risoluta freddezza.
“D’accordo – risposi con un tono di voce che forse vacillò troppo fra la timidezza e la paura – Ma posso tenermi il lavoro?”, chiesi ancora.
“Lavorerai comunque per otto ore, ma te ne pagherò soltanto sei”, rispose con indifferenza lasciando però trasparire solo un debole ghigno che non riuscì proprio a trattenere.
Ero così nervoso e pieno ansie, paure e chi più ne ha ne metta, da non riuscire a cogliere minimamente quella piccola sfumatura che aveva lasciato sfuggire. Mi alzai quindi guardandola mentre si rivolgeva di già al computer ritornando ad ignorarmi come se fossi svanito in una bolla d’aria. Rimasi forse un istante di troppo ad osservarla, per quanto già breve di suo fosse stato il tempo di attesa, e Lisa ebbe il tempo di cacciarmi con un’occhiata infastidita spostando le pupille all’estremo della palpebra e sollevando ancora le sopracciglia. Uscii dalla stanza chiudendo la porta e scesi le scale, intravedendo il tipo di prima che stava ridendo con un collega al bar condividendo una bottiglia di birra nella breve pausa concessa dal DJ che aveva lanciato un pezzo ritmato che faceva scatenare la folla di ragazzi in un tripudio di luci intermittenti. A giudicare d a quel poco che fui in grado di intravedere nella penombra, pensai che si stesse vantando dell’amplesso poc’anzi avuto. Quindi mi sorse un dubbio: eravamo stati gli unici due a fare sesso con Lisa, o magari ne era a conoscenza un maggiore numero di persone? Erano tutti burattini pagati nelle mani della donna, o con lui/loro era solo sesso?
Mi diressi all’uscita dedicata al personale addetto alle pulizie sia per stare da solo che per evitare qualunque ulteriore tipo di contatto con quel mondo.
Mentre camminavo fino a casa ebbi modo di chiedermi se aspettare il giorno dopo per parlare con Elena della situazione, in modo che si liberasse dallo studio o se farla venire subito a casa mia ed affrontare subito la cosa e tutte le conseguenze che essa avrebbe comportato.
Avevo paura sia della sua reazione, sia di ciò che sarebbe potuto accadere. Avevo già visto decine di film dove i protagonisti della trama finivano col litigare poiché, tendenzialmente lui, nascondeva una seconda vita alla fidanzata di turno. Però nei film la faccenda si risolveva quasi sempre con un perdono finale. E in ogni caso mi venne in mente il più imbecille dei pensieri ipocritamente valutati invece come altruisti:
“Ti ho nascosto la relazione per proteggerti! Avevo paura di perdere la cosa più importante della mia vita!”
-“Ah, per proteggermi? E da cosa? Da te, evidentemente! Non sei neanche abbastanza uomo da dirmi le cose in faccia. Come pretendi che possa fidarmi di te?”
Anche la versione alternativa non è che cambiasse poi molto, eh:
“Devo dirti una cosa importante. Riguarda noi due e potrebbe minare la stabilità del nostro rapporto. Ho valutato le ore che abbiamo passato insieme e tutti gli irripetibili momenti di pura magia che sei riuscita a regalarmi, e sono giunto alla conclusione che dovevo assumermi la responsabilità delle mie azioni: quando non eravamo ancora fidanzati, cioè agli inizi, sono stato sedotto da un’altra donna con la quale ho avuto una relazione mentre uscivo anche con te. Era la moglie del mio capo e, con poche ma fondamentali scelte strategiche poste su una scacchiera, mi ha preso per le palle e manipolato a suo piacimento al fine di estorcermi scopate clandestine all’insaputa di suo marito, da parte sua; e a tua insaputa da parte mia. Solo che gli ultimi giorni che abbiamo passato insieme mi hanno fatto innamorare di te, quindi ho deciso di affrontarla per porre fine a tutto e rimanere solo con te”.
-“Oh… che carino. Il pulcino ha lasciato il nido cercando di spiccare il volo nel brutto e cattivo mondo della manipolazione totalitarista ed è caduto come una pera cotta nella tela del ragno dalle grandi cosce spalancate cedendo alle avances del dio denaro. Che tenerezza. Ma se avessi davvero avuto le palle di cui tanto parli, ti saresti licenziato pur di raccontarmi tutto prima e salvare l’unico stralcio di fiducia rimastami per obbligarmi a perdonarti almeno in base all’amore che ho più volte dimostrato di provare per te”.
Insomma, senza scavare oltre in una disperata ricerca dei migliori termini a disposizioni sul mercato, entrambe le opzioni sarebbero costate una separazione in seguito ad un litigio. Che poi ci fosse stata la possibilità di rimetterci insieme dopo una pausa riflessiva, non solo non potevo saperlo, ma non avevo idea di che idea farmi della reazione che avrebbe potuto avere Elena.
Poi però mi venne anche un’altra idea che avrebbe potuto sia farmi perdonare, che farmi odiare per tutta la vita: lasciarla – cosa impossibile, ma era pur sempre teoria – per poi spiegarle che non riuscivo a sopportare il dolore che avrei potuto causarle adottando una delle precedenti strade sempre alla disperata ricerca del perdono.
Avete presente quando vi capita uno di quei rari momenti di poter realmente plasmare il vostro mondo per modellarlo come avevate sempre auspicato in passato proponendo soluzioni sparse ai vari problemi della vita? Ecco: se poco prima stavo annaspando in un pozzo all’acqua di fogna, adesso stavo letteralmente tastando il pavimento di mattoni sul fondo in cerca di un buco nella pietra da cui prendere almeno una misera boccata d’aria.
Two Girls One Cup mi faceva una sega in quel momento.
CONTINUA. Rientrai in casa col cuore in gola che mi provocò una profonda nausea, i polmoni vuoti che reclamavano aria e il fegato strizzato dalla paura che gocciolava sangue in uno spazio vuoto in cui l’intestino e tutti gli organi sottostanti erano marci e spiaccicati alle bavose pareti del mio corpo che producevano solo terrore e auto disgusto, reclamando a gran voce anche solo una minima quantità di di speranza nell’infernale caverna appena franata, in modo che il fegato potesse risollevarsi per tornare operativo e restituire vigore al resto delle mie budella appena fatte a brandelli dall’affilata lama di quella satanica donna manipolatrice che, evidentemente, usava il locale del marito solo come copertura, per nascondere invece una macelleria di carne umana dedicata esclusivamente alle poche anime sensibili sopravvissute a quell’apocalisse che la società ancora si ostinava a definire “mondo”.
Vomitai più volte: prima all’ingresso, non reggendo più il colpo e infine riuscii ad arrivare almeno al cesso, scaricando un rutto che mi gonfiò ogni vena del collo provocandomi un alzamento incredibile di pressione. Respirai a fatica e cercai di darmi una sciacquata.
Mi sdraiai sul letto rimanendo con addosso boxer e maglietta, poi scrissi un messaggio ad Elena su WhatsApp: “Ho bisogno di te”. Mi stesi cercando di rilassarmi e una decina di minuti più tardi vibrò il comodino. La sua risposta fu: “Ci siamo lasciati stamattina. E tra poche ore devo alzarmi”. Quindi fui più diretto: “Fanculo l’università. Dopo aver parlato avrai tutto il tempo di dormire e studiare quanto vorrai”.
Il messaggio che seguì fu: “Di cosa dovremmo parlare?”
“Riguarda noi due. E non mi permetterei nemmeno di scriverti a quest’ora se non fosse urgente”, le risposi nella maniera più diretta possibile.
La sua risposta non si fece attendere: “Sto arrivando”.
Dopo quasi un’ora che stavo per addormentarmi e il cielo ricopriva di tenebra qualunque cosa toccasse, sentii bussare alla porta.
Andai ad aprire e la trovai lì, davanti a me ancora assonnata coi capelli sconvolti. La feci entrare e la sbattei contro il muro per baciarla, ma mi fermò con le mani: “No no no! Se volevi scopare potevi aspettare domani. Io devo dormire!”
Per la prima volta la vidi arrabbiata. Quindi provai a dire la verità evitando di drammatizzare ad ogni costo: “Ti ho tradita”.
Rimase un attimo in silenzio, a testa bassa. Poi mi guardò e mi rispose con un ceffone che mi fece frizzare la guancia.
“è vero?!”, mi chiede severa.
“Sì – le risposi onestamente senza riuscire a guardarla negli occhi”.
Il cuore batteva a mille per lo schiaffo e il cazzo nelle mutande reagì per lo stesso motivo. Non avevo idea che la violenza mi eccitasse. Non era assolutamente previsto.
Elena notò la mia erezione gonfiare i boxer e commentò gelida: “Se questo è uno scherzo ti conviene dirlo subito. Ho una cazzo di università e un coglione mi ha costretta ad uscire di casa alle 4 del mattino”.
Misi le mani avanti e, arrendendomi definitivamente alla clemenza della Corte Suprema, chiesi:
“Potresti per favore non incazzarti come giustamente mi aspetto che saresti pronta a fare? Sto già abbastanza di merda per conto mio. So che hai l’università e so che sono le 5 del mattino – continuai accarezzandole il viso con le mani, avvicinandomi pericolosamente a rischio di secondo ceffone – Devo farti sentire una cosa, ma devi farti forza così come io sono riuscito aspettando di arrivare in cima alle scale prima di vomitare”, conclusi con una voce acuta mista alla reazione appena raccontata e le lacrime che mi accecarono la vista.
Elena si prese un colpo rendendosi conto della pozzanghera a terra che saltò spaventata. Si riprese subito dopo un verso di disgusto, ma riuscii a comprendere il mio stato d’animo.
“D’accordo”, mi rispose seria in volto.
Presi il telefono dal comodino e avviai l’audio rubato durante la conversazione. Poi le spiegai tutto per filo e per segno: era cominciato tutto senza preavviso, mentre noi due uscivamo insieme più per compagnia e qualche scopata ogni tanto che per altro. Poi Lisa fece in modo di incastrarmi e, non essendo ancora arrivati al punto di non ritorno, accettai mio malgrado il guadagno extra per vivere decentemente. Non persi neanche tempo con scuse idiote come: “L’ho fatto solo per consentire a me di essere degno delle tue attenzioni e a te di vivere dignitosamente i momenti in mia compagnia. Ahah! Non sei contenta? :D”
Elena era come me, non come Lisa. Preferiva di gran lunga uno straccio usato e sporco di merda, segno indelebile della fatica fatta per ottenere un cazzo nella vita, che un riccone magnate arrivista scopa fighette dal fisico da modelle e perfetti specchi di una società marcia fino alle sue fondamenta.
Poi mi fece un’ultima domanda: “E come hai fatto a fotterla così senza che se ne rendesse conto? Insomma… capisci da solo!”
Avevo capito perfettamente in quale stato confusionale fosse, e le vomitai tutto il mio piano senza remore. Adesso o mai più.
Siccome sul lavoro non erano consentite chiamate, i telefoni ammessi dovevano essere sempre in modalità aereo o perlomeno su vibrazione. Io però avevo avuto tempo e modo di valutare la situazione ed ero andato oltre: lo avevo impostato su silenzioso azzerando ogni suono possibile. Quindi avviai l’applicazione del microfono e cliccai sul tasto laterale per attivare il salvaschermo in modo che non fosse possibile notare niente. E soprattutto non ero un modaiolo, quindi nessun LED rosso che lampeggiasse ad intermittenza segnalando eventuali registrazioni in corso.
“Eh già, a volte andavo pure fiero delle mie mancanze economiche”, conclusi arrivando pure a vantarmi della trovata.
La prima reazione di Elena fu lasciar cadere la borsa, che tonfò pesantemente sul pavimento. Poi mi mollò un secondo ceffone sulla guancia ancora indenne. Poi un terzo sulla prima e di nuovo un quarto sulla seconda. Uno più forte dell’altro. Rimasi stordito per un po’ e credo che il rintronamento mi impedì di sentire cos’aveva da dire. Anche se, appena ripresi quel minimo di coscienza, la sentì pronunciare qualcosa con un’espressione di stupore assoluto:
“Sei un genio…”
Riuscii anche ad avvertire un sospiro finale come prova definitiva del pathos nella sua risposta.
All’improvviso Elena si tolse la felpa gettandola via come fosse infetta, poi incrociò immediatamente le braccia sfilandosi la maglietta e si abbassò i leggings, ma la bloccai prima che potesse chinarsi ulteriormente, aiutandola a risparmiare le forze. Col piede feci pressione in mezzo spingendo le mutande e il pantalone fino alle sue caviglie, poi avanzai pure con l’altro piede finendo in mezzo alle sue cosce e la sollevai come di consueto prendendola in collo.
Avevo già il cazzo duro per i ceffoni subiti, quindi non ebbi problemi con inutili preliminari. Mi limitai a sfruttare tutti i sentimenti negativi accumulati per scoparla come si conveniva in certe situazioni. Le mie mani strette sotto le sue cosce, le sue braccia più strette che mai al mio collo e ci diedi così tanto dentro da farla urlare letteralmente, fottendomene dell’orario e, di conseguenza, di tutti i condòmini che dovessero lavorare.
Più io pompavo in preda alla rabbia e alla frustrazione di essere stato a meno di un passo dal perderla, più Elena urlava per ogni colpo che le assestavo. Saltava per effetto dei miei colpi tornando poi giù e di nuovo la spingevo in alto, premendola contro il muro. In quel momento il mio cervello era un casino tale che non riuscii a paragonare nessun’altra scopata per ricordarmi se avesse mai avuto più di un orgasmo per merito mio, ma quella volta ne ebbe diversi e ogni volta che ne arrivava uno, la sentivo godere con una voce più acuta del solito mentre grondava dalla fica direttamente sulle sue cosce, sul mio inguine e ogni tanto qualche gocciolina schizzava pure per la pressione alla quale veniva sottoposta.
Dopo il primo orgasmo, mi tolsi dal muro e attraversai la sala sbattendola poi sul letto, le sfilai le scarpe gettandole via per poi sollevarle le gambe in verticale e dedicare lo stesso trattamento ai leggings. La scopai con rinnovato vigore finché non venni anch’io esplodendole dentro, spingendo il bacino così tanto col suo da inarcare la schiena per la prima volta mentre lei mi imitava sul materasso. Ci mancò l’aria per pochi istanti mentre fissavamo rispettivamente il soffitto io e i cuscini lei, entrambi ad occhi chiusi.
Ci prendemmo una pausa girandoci i pollici a vicenda mentre guardavamo il soffitto e parlavamo del rischio che io avevo corso nel tentativo di recuperare il possibile evitando di perderla, e la sofferenza che lei da sola era riuscita a vivere prima con la mia confessione, e amplificandola poi mentre stava elaborando l’idea appena era terminata la registrazione.
Ci abbracciammo con forza e non facemmo altro che coccolarci senza sosta baciandoci il collo a vicenda, mentre ci accarezzavamo i corpi nudi sulla coperta scomposta.
Elena cominciava ad accusare i primi brividi, sintomo del freddo notturno nonostante il riscaldamento. Quindi la strinsi più forte a me, ma disse di avere un’idea migliore.
Cominciò a baciarmi il capezzolo più vicino, poi i peli del petto e scese lungo i miei addominali assenti, giungendo infine sul cespuglio pubico rimasto umido a causa sua. Ma invece di lamentarsi o evitare di baciarmi, notai che invece proseguiva tranquillamente, tanto che ad un certo punto mi venne in mente un’idea.
“Amore…”
“Dimmi”
“Non ti fa senso baciare i tuoi stessi umori?”
“Mh?”, mugolò leccandosi le labbra di fronte al mio sguardo attonito.
Sgranai gli occhi sorpreso e, al solo pensiero, ebbi un principio di erezione. Il che era strano, visto che eravamo entrambi venuti da poco.
Presi coraggio e provai a balbettare qualcosa non riuscendo comunque a negare un minimo di imbarazzo e timore: “Ma… cosa ne penseresti di una cosa a tre?”
Mi si gelò il sangue nelle vene mentre aspettavo una risposta.
Avrebbe potuto andarsene sbattendo la porta, mordermi la cappella e farmi scacco matto, sfruttare la situazione appena affrontata per rinfacciarmi di essermi solo approfittato di lei e dare inizio ad un litigio.
Invece non fece niente di tutto ciò.
“Non sapevo che fossi bisex”, mi schernì mentre cominciava a baciarmi l’asta sfiorandola con le dita.
“Pensavo più a all’assurda idea di invitare un’altra ragazza”, le risposi facendo timidamente il vago.
“Perché assurda?”
“Beh, siamo già una coppia. Non mi era venuto in mente di pensare che potessi accettare un’altra presenza femminile…”
“Pensavi male”, risponde con inaspettata gentilezza un momento prima di ingoiare il cazzo ormai durissimo.
Aprii la bocca cercando ossigeno che mi aiutasse a sopportare la tortura, mentre Elena spingeva con la forza delle labbra la mia pelle fino in fondo, scappellandomi completamente e arrivando a toccarmi la punta col palato.
Era bravissima a non farmi sentire neanche per sbaglio i denti.
“C-comunque… – dissi tentando di continuare il discorso – non ho ancora mai incontrato una sola ragazza in grado di convincermi di essere degna di entrare a contatto con noi”.
“Di condividerti con me!”, specificò lei durante una piccola pausa.
“Eh?!?”, sbottai io seriamente confuso, al tempo stesso preoccupato che potesse rigirare la frittata da un momento all’altro, giocandomi qualche brutto scherzo.
“Se dobbiamo avere un’esperienza a tre, almeno facciamolo come si deve”, rispose ancora continuando a sorprendermi.
Stavo letteralmente morendo fra un pompino e il discorso che stavamo affrontando.
“Ma… scusa, sei bisex per caso?”, le chiesi ormai rapito dalla curiosità.
Mi rispose con un dito un culo, poi si fece spazio dilatandomi l’ano con un repentino movimento fino a guadagnarsi un’entrata più approfondita. Io inarca sulla schiena senza fiato, in preda a convulsioni di puro piacere mai immaginate prima.
“E tu lo sei? Ti piacerebbe ricevere un cazzo in culo e farti sborrare fin dentro l’intestino o solo la sensazione di solleticamento della prostata unito alla mia presenza?”
Sfilò delicatamente il dito senza affondare oltre, poi mi lasciò cadere a peso morto sul letto e mi diede tempo per riprendere fiato.
“No… direi che mi piace la fica e la consapevolezza di poterla condividere con te”, risposi col fiato ancora corto.
“Quindi a me può andare bene fare l’amore con te e un’altra ragazza”, concluse lei.
“Logica ineccepibile. Altro che le palle sull’omofobia”, pensai.
“Quindi… saresti disposta a cercare una ragazza da far entrare nella nostra vita?”, le chiedi ormai convinto.
Mi fulminò con uno sguardo severissimo sfilandosi il mio cazzo dalla bocca senza alcuna gentilezza.
“La ricerca di una ragazza è una cosa seria, non un gioco. Non condividerò il nostro amore con la prima puttana raccattata per strada”.
“Sì, intendevo proprio questo”.
“Non sembrava -, rispose – da come hai formulato la domanda mi avevi dato l’idea che t’importasse unicamente di scoparti un’altra con la scusa di fare coppia con me. è una decisione che va presa in due”.
“Ma porca troia… mi stai succhiando l’anima, è normale che abbia fatto confusione! Anzi, ringrazia che abbia ancora abbastanza sangue nel cervello per far funzionare i pochi neuroni rimasti!”, mi lamentai esibendo una voce acuta.
Ad Elena inizialmente si gelò il sangue per l’errore commesso, poi si rese conto della situazione e si rilassò: “Sì, scusa. Hai ragione. Mi sono lasciata trasportare dalla tua confessione”.
Non aveva torto e non gliene diedi. Ma terminai lì la conversazione per non sembrare ripetitivo od ossessionato. Intanto Elena saggiò la consistenza del mio membro e sollevò una gamba, andando ad impalarcisi sopra. Poi appoggiò le sue mani sul mio torace e prese a cavalcarmi prima con dolcezza, portandosi le mie mani sui suoi seni per farseli strizzare, poi aumentò gradualmente fino a raggiungere lo stato selvaggio ansimando mentre, di nuovo, le prime luci dell’alba cominciarono ad illuminarle il viso regalandomi un’angelica visione del sua innata bellezza.
Godette senza porsi freni e urlò ogni volta che tornava giù, strofinandosi il cazzo fino al limite della sua vagina. Cavalcò furiosa e dando vita a dei gemiti gutturali come se avesse una rabbia inespressa dentro di sé. Continuò così per una buona ventina di minuti mentre io mi godevo la sua pelle di seta accarezzandole le cosce con le mani.
Il suo orgasmo fu intenso, esplose in una spruzzata di umori che mi stuzzicò ulteriormente la cappella facendomi venire subito dopo, mentre smorzava le ultime urla prima di accasciarsi sfinita addosso a me, togliendosi dal mio membro ormai ammosciato per evitarmi inutili dolori.
Ci addormentammo così: io sdraiato a pancia in su con lei addosso. Il suo braccio sul mio torace, un ginocchio alzato e l’altra gamba stesa fra le mie.
CONTINUA.
Visualizzazioni:
610