“Non le avrei creduto neanche se fosse stata brutta…”
Ero di ritorno dalla west coast e il caro vecchio Jfk fu
una tappa obbligata. Passare dal caldo sole dell’Arizona al freddo capitalista della Grande Mela non mi piaceva, e ancor meno dover sopravvivere nell’inutilità di un aeroporto troppo grande per essere umano. Sapevo bene cosa avrebbe voluto dire: La solita pastiglia per combattere il mal di testa, le solite inutili chiacchiere con sconosciuti di passaggio ai banconi di quei bar che si sforzavano di non sembrare catene massificanti ma lo erano, le solite sigarette fumate dall’altra parte della strada come un barbone, perché la patria della Philippe morris aveva deciso di far venire il cancro solo agli altri. Atterrai in orario, e questo voleva dire spendere sei ore del mio tempo lì, a due passi dal centro del mondo, in attesa dell’altra bestia volante che mi avrebbe riportato nella vecchia Europa. Per fortuna il recupero bagagli era rapido. Mi fiondai seguito dal mio fido trolley per i percorsi a linee tratteggiate, superando scale mobili e inutili ciccioni senza fretta, arrancando verso l’uscita in cerca di un po’ di estemporaneo piacere di morte. Mi accesi la sigaretta a metà delle strisce pedonali, schivando un autobus e una balena che veniva battuta in stazza solo dal suo bagaglio.
Giunto dall’altra parte della strada, sospeso su una grigia rampa di cemento e asfalto, scorsi un briciolo di umanità. Era accovacciata sulla sua valigia e come me stava fumando una sigaretta rollata.
“Excuse me. What’s the time in New York right now?” L’apostrofai.
“Italiano eh?” Mi rispose.
“Cazzo, sgamato subito.” Eppure avevo un discreto inglese.
“L’accento si sente sempre. Di dove sei?” Mi chiese.
“Tu a sboccio di Milano” Replicai. Le strappai un sorriso.
Scambiammo due chiacchiere inutili sui voli e gli aeroporti, poi le chiesi cosa ci facesse un così bel faccino solo al Jfk.
Era di ritorno da uno scambio di sei mesi in un’inutile cittadina del Canada. Studiava psicologia, e io e i miei disturbi mentali odiavamo la disciplina da sempre, cordialmente ricambiati.
“Con che volo torni?” Le chiesi.
“Milano, venti e diciotto” rispose.
Era il mio. Per una volta avevo avuto culo. Era un discreto esemplare di essere femminile in effetti. Altezza giusta, un gran bel paio di tette e un visino carino da brava ragazza che si fingeva di sembrare meno a posto di quanto non fosse. I capelli corti di un rosso tinto non facevano per me, ma se non altro avevo trovato compagnia. Le portai la valigia fino al più vicino bar, e davanti a una birra parlammo, il tempo non mancava ad entrambi, e scoprii che era un’integralista cattolica. Pensavo fossero una specie in via di estinzione e glielo dissi. Rise. Aveva un bel sorriso, e una vitalità che mi avrebbe infastidito in una morosa ma che ero solito apprezzare per una notte, o per qualche ora in un aeroporto.
“Scusa, quindi non l’hai mai data a nessuno?” Mi piacevano le domande scomode.
“No.” Rispose. Scoppiai a ridere. Non le avrei creduto neanche se fosse stata brutta.
“Questa è una delle più belle che abbia mai sentito. Impossibile. No way.” Aggiunsi calcando l’accento americano, storpiando quelle vocali come avessi un chewing gum in bocca.
“Beh questo non vuol dire che non si possa fare altro.” Mi disse.
“Quello però è onanismo, è peccato pure quello per il tuo amichetto del Vaticano”
“Beh, devi anche essere realista. Forse sto solo aspettando quello giusto”.
La quarta birra, dopo i due vodka tonic sull’aereo, mi indusse a ritenere di esserlo, quello giusto, ma mi astenni dal renderla partecipe dei miei pensieri più sconci. L’alcool scioglie le lingue e le coscienze, in più se riesce a fartelo tirare lo stesso scopri che da discretamente sbronzo non vieni mai, e quello può essere un vantaggio.
Continuai ad essere provocatorio e stronzo, mentre quelle tette sobbalzavano ad ogni respiro, ma ottenni poca corda, abbastanza da impiccarmici e troppa poca per legarmela attorno al cazzo.
Ormai la voglia era troppa, quasi proporzionale alla sua inibizione nei confronti del sesso, e decisi di forzare la mano. Fare il bravo ragazzo era il modo migliore per imbarcarmi a cazzo duro, tanto valeva fare lo stronzo.
“Io adesso ti bacio.” Le dissi, e non le diedi il tempo di rispondere. La vidi in difficoltà, indecisa, ma gli ormoni repressi ebbero la meglio sulla morale indotta e dopo un po’ rispose, la sue labbra contro le mie.
Quando ci staccammo non poté fare a meno di chiedermi: “e adesso?”
“E adesso non ti mentirò. Non abbiamo niente in comune e non ci vedremo mai più. Vieni con me.” Le dissi afferrandole la mano.
Si lasciò trascinare verso i bagni pubblici. Mi chiesi se le telecamere di sicurezza controllassero pure quello, poi me ne fregai. Il bagno delle donne mi parve un’opzione più pulita, la condussi nel primo cesso e chiusi la maniglietta di sicurezza.
“Succhiamelo!”
“Non ci penso neanche!”
“E allora che ci sei venuta a fare qua con me?” Sfoderai il mio miglior sorriso, era quasi irresistibile e in quel periodo mi sentivo molto potente.
Non le diedi il tempo di rispondere. Le fui addosso e la mano andò a cercare quel bottoncino magico che funziona quasi sempre. Ebbe un sussulto, ed io la conferma che la linea tra santa e puttana è sempre molto sottile. Cercai di slacciarle i pantaloncini di jeans ma oppose resistenza, avrei dovuto faticare.
“Fermo, vai troppo di fretta.” Disse.
“In un cesso del Jfk?”
“Guarda che se lo rendi ancora meno romantico di quel poco che è mi metto ad urlare”.
“Trova un po’ di coraggio, da qualche parte ce l’hai anche tu.” Le dissi.
Slacciai quel maledetto bottone e mi infilai giù. Le piacque, e la trovai bagnata. Un gemito, poi un altro e un altro ancora. La baciai sul collo e poi fin su a giocare col lobo dell’orecchio, e di nuovo il collo. Chiuse gli occhi e per un istante parve lasciarsi andare, poi troppi anni di catechismo tornarono a farsi sentire.
“Piano… Piano!” Ansimò.
Non le risposi. L’altra mano era sul seno e badai solo al suo corpo che mi cercava. Glielo appoggiai alla pancia e finalmente iniziò a toccarlo attraverso i pantaloni. Lo voleva almeno quanto io volevo lei.
Sfilai quei maledetti pantaloncini e mi ripromisi che la prossima avrebbe dovuto avere una gonna. Caddero sugli anfibi con dolcezza. I miei pantaloni ebbe l’accortezza di slacciarli lei, avevo bisogno di un lasciapassare, e senza bisogno di demandare si liberò del mio peso inginocchiandosi. Lo prese in bocca con grazia.
“Avrai scopato poco ma coi pompini te la cavi bene.” Abbozzai, ormai dovevo mantenere il personaggio.
Mi rispose andando giù lungo l’asta. Lo insalivava bene per essere una chierichetta, ancor di più per essere una psicologa. Le afferrai la testa e maledissi quei capelli troppo corti e liberai l’animale che è in ogni uomo mentre ha il cazzo infilato in un pertugio caldo. Cercai di soffocarla, solo così la saliva diventava densa e mucosa, perfetta. Mi gustai ancora un poco le sue fatiche, poi maledissi il mio altruismo e la rialzai a forza: era giunto il mio turno.
In ginocchio, con le mani sui fianchi la spinsi con forza contro la parete di cartongesso e l’assaporai. Era bagnata e buona, e pregustai la penetrazione. La leccai portandola quasi al punto di non ritorno, ero bravo a capire quando una donna ne ha per poco e provai gusto nel lasciarla in bilico. Mi fermai e aspettai che le scendesse appena l’eccitazione, per poi ricominciare con più foga. Ripetei il giochetto un paio di volte, poi mi alzai e le feci assaggiare il suo sapore che mi riempiva la gola.
“Sappilo, adesso ti scopo.” Non ottenni obbiezioni. Infilai con maestria il preservativo ed entrai. La presi in piedi, lì in un cesso anonimo e grigio del Jfk, come fosse una puttana in una discoteca di provincia. Pompai con attenzione, volevo le piacesse, gestii per bene i tempi, accelerai e rallentai, la sbattei prima con gentilezza e poi con vigore bestiale. Ad un certo punto infilai anche una mano lì, giusto per stimolarla un po’ di più al battere dei miei colpi ritmati. Era completamente in balia del piacere, la simpatica spocchia di una mezz’ora prima era scomparsa, e alla fine non resistette.
“Più forte… Ti prego, più forte.”
Accelerai. Forse le feci anche male, quel dolore che si mescola al piacere e ti fa sentire libera e troia.
Venne, contraendo ogni muscolo avesse in corpo, la schiena così tesa che pensai si sarebbe spezzata.
Mi fermai, duro e resoluto. Aveva risvegliato i miei istinti primordiali di dominatore e volevo umiliarla, in fondo le piaceva. Le diedi qualche secondo per riprendersi.
“Succhiamelo.” Dissi duro, forse fin troppo.
Obbedì.
Mi tolse il preservativo e tutto ricominciò da capo, come se nulla fosse successo nel mentre. Le venni in faccia, sentendomi un Dio, e la aiutai a ripulirsi con la carta igienica.
Quando uscimmo restò in silenzio. Lo speaker chiamò l’imbarco del nostro volo, ci salutammo con un abbraccio silenzioso. Non l’avrei mai più rivista.
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