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L’invidia. cap.1 di 4 (la manovalanza)

“Mirella, al contrario delle altre due, era di corporatura piuttosto gracile e leggermente claudicante; era sposata ad un non ricordo come si chiamava (se mai…”

Pare opportuno avvisare il lettore che questo è un racconto lungo che
si sviluppa in più capitoli (quattro per la precisione). Siccome succede “un poco di tutto” è stato difficile trovare la categoria nella quale classificarla. La trovate in questa che al lettore appare come “Lui e lei” non perché appartenga proprio a questa categoria ma perché in fase inserimento questa sezione la si trova come “etero ed altre storie” e questa classificazione è parsa la più adeguata.
Il fatto che succeda un poco di tutto non significa che succeda tutto subito. Questo primo capitolo infatti, pur se abbastanza condito di episodi erotici, è prevalentemente un capitolo introduttivo.
Il perché del titolo lo si capirà alla fine. Buona lettura a chi non si è scoraggiato con questo preambolo. Zindo.

L’INVIDIA – Capitolo primo: (la manovalanza)

“Certo che siete dei grandi maialoni” disse Agostina porgendo le spalle a Mirella per farsi agganciare il reggiseno da lei. Non aveva voluto farsi aiutare da nessuno di noi quattro maschi.
Fingeva di essere contrariata, illudendosi di recuperare così la reputazione che, secondo lei, poteva aver perso nello stare al gioco. Non era la prima volta che lo faceva, ormai ci eravamo abituati ai suoi finti pentimenti, male recitati tra l’altro. Era inutile che facesse la parte dell’offesa con le parole quando la soddisfazione per i piaceri provati trasparivano dalla lucentezza dei suoi occhi.
Era fatta così Agostina, aveva bisogno di mentire soprattutto a se stessa, per auto convincersi che certe cose lei le faceva solo perché noi la costringevamo. Pensare che le nostre azioni per costringerla erano solo carezze, baci, provocazioni verbali, azioni e parole che si fanno un poco per romanticheria, un poco per incrementare lo stato di eccitazione. Mai una volta che l’avessimo spronata, neppure con un semplice “dai” di incitamento. Era lei che ci diceva di smetterla perché non era mica fatta di legno e che se continuavamo a toccarla, palpeggiarla, sbaciucchiarla in quel modo lei poi non si sarebbe più fermata davanti a niente. Parole che non ci inducevano certo a rallentare ma, caso mai ad insistere.
Dopo, a cose fatte, ben fatte, assumeva l’espressione da “un poco, ma non tanto” dispiaciuta e ci diceva che eravamo dei gran maiali, come se lei non fosse stata spontaneamente al gioco ma che lo avesse fatto solo perché da noi costretta. Un poco era vero ma non con la forza e la violenza ma con il metterla in mezzo a due o più di noi, se non a tutti e quattro, e stringerci intorno a lei, per farle sentire i cazzi già duri dentro i nostri pantaloni, sul suo corpo: sul sedere, sul basso ventre, sui fianchi e anche con le sue mani quando glie le prendevamo per portarle sulle nostre patte semi aperte.
Era meno ipocrita l’altra, la Mirella che aveva ben chiaro cosa le piaceva fare e cosa no, o meglio, considerato che una sola cosa le piaceva fare, sapeva dove NON voleva farla: non in mezzo ai prati, aveva paura di insetti o piante urticanti, preferiva stare all’interno del casolare.
Quel giorno mentre lavoravamo come al solito nella tenuta agricola del dottor Zema, presso la quale eravamo braccianti (noi uomini come salariati fissi, le donne chiamate a giornata, saltuariamente) anziché smettere di lavorare alle prime avvisaglie di un temporale, accelerammo i lavori nella speranza di poterli ultimare prima della tempesta. Per questo ci lasciammo sorprendere tra i filari del vigneto dalle prime grosse gocce. Dovemmo correre tutti in gran fretta verso il casolare per metterci al riparo, arrivandoci appena in tempo per evitare gli scrosci a catinelle che imperversarono dopo pochi attimi.
Il casolare era un edificio disabitato da tanto tempo, adibito solo alla rimessa degli attrezzi e dei macchinari perché da decenni non ci abitava più nessuno. Serviva però come luogo di appoggio quando c’erano grandi lavori in quel podere, il più lontano dalla cosiddetta “villa”. Al suo interno ci riparavamo per riscaldare e consumare i pasti, metterci le tute ad inizio giornata e toglierceli alla fine. Su suggerimento di Fabio, uno dei miei colleghi braccianti, in una delle stanze al piano di sopra avevamo portato, senza essere autorizzati da alcuno, tanto nessuno controllava la casa, dei materassi economici; quelli di semplice spugna foderata con stoffa grezza. Se Mario o altri li avesse visti avremmo potuto dire di usarli per distenderci nelle prime ore pomeridiane delle giornate estive più calde. In realtà già all’inizio avevamo in mente di farne anche un migliore utilizzo quando, per certi tipi di lavori, oltre noi salariati fissi, venivano chiamate con pagamento a giornata alcune donne delle vicine masserie, di solito proprio la Agostina che era davvero una gran lavoratrice, anche per questo aveva un fisico muscoloso, da maschiaccio. O probabilmente io la vedevo mascolina anche perché sotto il naso aveva puntini neri, segni evidenti che si radeva la peluria per non avere una specie di baffetti. Spesso veniva chiamata anche la Francesca che però in quell’occasione non c’era e più raramente la Mirella, presente quel giorno. Mirella, al contrario delle altre due, era di corporatura piuttosto gracile e leggermente claudicante; era sposata ad un non ricordo come si chiamava (se mai ho saputo quel nome) che lavorava fuori, con una ditta di ricerche petrolifere. Non solo aveva scoperto che il marito, in giro per il mondo, non tratteneva i suoi istinti sessuali spassandosela con le donne di ogni luogo e razza, ma doveva sopportare anche le vanterie del suo uomo che con orgoglio raccontava, forse ingigantendole, le sue avventure giustificandosi col fatto che l’uomo è maschio, mica fesso.
Mirella non aveva contestato questa teoria ma, senza farsene vanto, anche lei aveva pensato che la donna è femmina, mica stupida e così se qualcuno ci provava lei non faceva troppe storie. Noi braccianti delle tenute Zema eravamo tutti scapoli e quando uno aveva scoperto la benevolenza di Mirella, aveva passato la voce anche agli altri e singolarmente o in compagnia molte erano le sere che andavamo a trovarla, portandole piccoli presenti per cenare insieme e vivere piacevoli dopo cena con lei. Molti altri del paese ci provavano ma a pochi altri lei diceva di sì, perché conosceva le lingue lunghe dei compaesani e la loro mania di vantarsi, per questo preferiva noi ragazzi forestieri o quelle persone del paese veramente riservate.
A Mirella piaceva scopare, non faceva storie, ma aveva il suo “menù” piuttosto rigido: non le interessava se ci fosse qualcuno ad aspettare il suo turno guardando o facendo altro, ma lei si dedicava ad un solo uomo per volta e non ne voleva altri che la infastidisse con baci e carezze; se c’erano altri, li accontentava dopo, uno dopo l’altro, mai insieme. Non faceva sesso all’aperto o in piedi, non concedeva tutte le parti del suo corpo, il suo lato b lo si doveva lasciar perdere altrimenti andava in bestia e mandava a monte tutto.
Agostina invece faceva sempre storie fingendo di essere infastidita quando si incominciava a stuzzicarla e fingendo di averlo fatto per costrizione quando si finiva, ma invece era una vera, grande, fantastica, adorabile troia che andava e mandava in visibilio quando faceva all’amore con più uomini contemporaneamente. In teoria lei diceva un iniziale “no, questo no” a tutto, ma poi- sia pure chiedendo “Ma che mi fate fare? Maialoni!”- si lasciava scopare da tutte le parti e da più uomini contemporaneamente.
Quel giorno infatti, mentre fuori imperversava il temporale, Andrea si scopava tranquillamente la Mirella e Denuc fingeva di aspettare che Andrea finisse, per scopare (diceva) anche lui la Mirella, io e Fabio venimmo svuotati per bene da Agostina che come impazzita passava da una posizione all’altra per prendere i nostri cazzi in ogni orifizio possibile. Si comportava da insaziabile succhiando con la bocca, sedendosi a spegnimoccolo su uno di noi, piegandosi poi come a voler essere penetrata sia davanti che da dietro. In quella fase avevo fatto cenno a Denuc di aggregarsi pure lui. Nel suo italiano molto approssimativo disse che aspettava Mirella, che finisse con Andrea, ma timidamente si era avvicinato a noi, toccandosi, anzi menandosi l’uccello con una mano e con l’altra accarezzando timidamente i corpi, in particolare le mie spalle e le cosce di Fabio.
Quando Andrea ebbe soddisfatto se stesso e Mirella, Denuc aveva già eiaculato menandosi da solo e non prese il suo posto. Io Fabio e Mirella invece ce la spassammo ancora per un bel poco, fregandocene di chi aveva già finito e di chi neanche aveva iniziato.
Più tardi, senza fretta ci rivestimmo e siccome la pioggia, anche se rallentata, cadeva ancora, con il furgone guidato da Fabio lasciammo il podere per riaccompagnare le due donne alle rispettive case e poi tornarcene alla villa.
Già, noi salariati fissi vivevamo nella villa del dottor Zema che molti chiamavano “il padrone” perché effettivamente era il proprietario della villa e di molti terreni, prevalentemente agricoli e anche di diversi appartamenti, locali per uffici o negozi ed anche alcuni capannoni industriali dati in locazione. Le sue entrate erano talmente tante che non aveva bisogno di svolgere alcun lavoro e la laurea gli serviva solo per fregiarsi del titolo di dottore. Non si occupava neppure di curare i suoi beni. Aveva assunto un ragioniere per le questioni amministrative e l’insopportabile Mario per occuparsi del personale dipendente, cioè per dare ordini e rimproveri a noi.
Certo, noi stavamo nella villa, ma nel dormitorio ricavato dalla ristrutturazione delle ex scuderie, mica nel palazzo di fine 800, al centro del vasto parco dove il “padrone” abitava ed ospitava donne bellissime. Nell’immenso palazzo ricco di stanze, sale e salottini sontuosamente arredati dal piano nobile in su viveva solo il dottor Luigi Zema, il “padrone” e le sue ospiti sempre diverse, tutte bellissime. Al piano ammezzato era rimasto di originale solo l’ampia cucina, il resto era stato modificato per ricavare uno studio per il ragioniere che si occupava delle contabilità e pratiche burocratiche e un alloggio per Mario e sua moglie Ada. Mario, brutto, arrogante e presuntuoso era più cafone maleducato che tiranno, perché sbraitava ma non capiva un tubo di nessun lavoro e per questo ce lo potevamo rigirare a nostro piacimento. Ada, che si limitava a non darci confidenza ma non era scontrosa come il marito nei nostri confronti, era la cuoca-cameriera che accudiva sia il palazzo che il dottor Zema.
Costui, per quanto io ne sapevo, era sposato, separato ma non divorziato con una certa “donna Ersilia” che non ho mai vista. Dicono che viva a Milano, teoricamente per lavoro (ortottica presso uno studio oculistico), in realtà perché si è rifatta una vita con il medico oculista titolare dello studio. Pare sia lei a non volere il divorzio a meno che Zema non le conceda un ragguardevole vitalizio. Secondo alcuni Zema non ci pensa neppure al divorzio: l’essere sposato lo mette al riparo da certe mire di alcune donnine che frequenta interessate anche ai suoi soldi.
Secondo il mio amico e collega Fabio, che sta alle dipendenze del dottor Zema da qualche anno più di me, le donne che il “padrone” porta alla villa, a volte anche più di una, spesso ospitandole anche per alcuni giorni, non se le “pappa” da solo ma con quel porco di Mario e la moglie Ada. Pare che sia Ada ad organizzare orge pazzesche con le ospiti. Oggettivamente dopo aver sentito questo, a ben guardarla, la Ada che ci snobba tutti forse non lo fa perché ci considera plebaglia me perché siamo uomini e qualche sospetto che lei sia lesbica o prevalentemente tale ce l’ho. Fabio dice che non mi sbaglio. Fabio pare certo, non so sulla base di quali elementi, che nelle stanze del palazzo padronale, succede di tutto, dalle ammucchiate alle pratiche sado-maso. Io non so se sia tutto vero, però in genere Fabio non dice balle e non ho motivi per dubitare di quel che dice.
Noi al palazzo padronale possiamo accedere solo una volta la mese, quando andiamo a ritirare il salario nella stanza-studio del ragioniere. Il nostro “mondo” è nei campi e, a volte, nel parco per accudire anche al giardino, non nel palazzo centrale. Per noi lo spazio a disposizione è solo quello nelle ex scuderie, ai margini del parco, dalla parte opposta della facciata principale del palazzo padronale.
Ognuno di noi dispone di una stanza minuscola, quasi una cella, sui dieci metri quadri al massimo, per dormir e tenere le cose personali. Poi condividiamo sia i bagni, sia la lavanderia, sia l’unico grande locale adibito a cucina e stanza di soggiorno. Dobbiamo provvedere da soli al nostro vitto ed alla pulizia del nostro vestiario e degli spazi privati e comuni. O meglio “dovremmo” ma qualche volta invitiamo anche le donne delle quali ho parlato prima così ci danno una mano e, tranne che con la Francesca che non ci sta proprio, ce la spassiamo un poco.
Ovvio che non lo facciamo al livello di quelli del palazzo padronale.
Cosa facciamo noi? Cosa fanno dentro il palazzo?
Beh, l’avevo avvertito in premessa: la storia è lunga, servono altri capitoli, questo è solo quello introduttivo. Abbiate pazienza e vi racconterò molte cose.

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Lui & Lei

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