Il sogno americano cominciò in quell’ aprile del 1607, quando i vascelli dei primi esploratori anglosassoni entrarono nella baia di Chesapeake. Quel giorno la tempesta infuriava nei cieli e sul mare. Non fu facile approdare, ma quando il cielo si schiarì, fu come se il coperchio di un forziere si fosse aperto, e avesse illuminato con i suoi bagliori nascosti all’interno i visi, tormentati dal vento e dalla stanchezza, di questi uomini stupefatti. La terra che si distendeva davanti a questi pochi uomini, disposti a sfidare la morte in un viaggio lungo, a rischio di malattie e di naufragi, era bellissima. Dopotutto, qualche volta i sogni esistono, da qualche parte, e questo sogno, immenso, quasi inabitato, inesplorato e terribile era lì oltre il tramonto del sole, molto più a nord di dove, quasi più di un secolo prima, quel cocciuto navigatore italiano era approdato, convinto di essere sbarcato nelle Indie.
Era l’inizio.
Alla colonizzazione anglosassone seguirono le altre.
I Francesi preferirono le terre del meridione: Carolina del Sud, Georgia, Alabama, Louisiana.
E in Louisiana furono trascinati, in catene, i miei antenati.
Quasi metà morirono durante il viaggio.
Bénédicte Lagardère, la mia guida, aveva gli occhi fissi nel vuoto, come se nella mente passassero ricordi vissuti, mentre diceva ciò.
Ma questo era accaduto secoli prima.
Eravamo comodamente seduti al Café de Paris, nell’interno del Marriott, a Baton Rouge, Louisiana, e dovevamo concordare il lavoro dei giorni successivi. Avevo pregato l’agenzia, prima della partenza, di provvedere per una guida-interprete, e Bénédicte parlava correntemente inglese francese, spagnolo, italiano, e anche molto bene alcuni dialetti locali.
Inoltre, faceva al caso mio perché si era specializzata come interprete tecnica.
Era uno splendido esemplare creolo, risultato della selezione realizzatasi attraverso i numerosi incroci che si erano succeduti nei tempi.
Mi aveva anche precisato che, di regola, si chiama creolo chi nasce da padre bianco e madre di colore, ma che il termine era usato, ora, indifferentemente per i sangue-misti, estendendolo anche ai meticci del centro-america.
Mi interessavano storie del genere, e pregai Bénédicte, se non avesse avuto nulla in contrario, di parlarmi della sua gente.
Sorrise, si accomodò meglio sulla poltrona, accavallò le eccezionali gambe, e disse che mi avrebbe raccontato la storia di una sua ascendente, che aveva il suo stesso nome, Bénédicte.
Era una delle più vaste piantagioni e rendeva molto perché, in un certo senso, gli schiavi erano trattati abbastanza bene. Si era capito che il capitale umano andava salvaguardato essendo parte determinante ai fini della produzione.
Solo contro le intemperie non potevano far nulla, salvo che intervenire tempestivamente nel tentativo di limitarne i danni.
Anche contro gli incendi c’era tanta prevenzione e, infatti, non se ne verificavano.
Piantagione vasta, e le balle gonfie venivano trasportate al fiume, caricate sulle maone che poi erano rimorchiate fino al mercato centrale.
Vita uniforme, ripetitiva.
La rinsecchita Mademoiselle Louise, che pur aveva trovato, alla sua età e col non certo attraente fisico, il negro che le riscaldava il letto, cercava di trasmettere un po’ di sapere alla scalpitante Bénédicte, più interessata ad andare a cavallo, girare per i campi, restare a lungo a guardare gli animali che si accoppiavano, incantata soprattutto dall’abbondanza del sesso dei cavalli.
Fu così che, sempre più eccitata, e sempre più morbosamente attratta dagli schiavi che non curavano troppo la riservatezza per congiungersi, disse a Hamin di portargli un secchio d’acqua, in camera, perché voleva fare un bagno.
Quando il giovane entrò, Bénédicte si fece trovare nuda, sul letto, con le gambe spalancate.
Povero Hamin, non pensò che stava giocandosi la vita.
Quello spettacolo gli fece andare il sangue al cervello, il suo fallo divenne lungo e duro come un palo, e andò a infilarlo di colpo nella vibrante vagina della donna che lo accolse palpitante e bramosa.
Pur nel piacere crescente che la travolgeva, Bénédicte si ripeteva che quel colosso color ebano l’avrebbe ammazzata, sfondata, ma era così bello e così voluttuoso che non si accorgeva di come si spingeva verso lui, come lo invitava a penetrarla sempre più.
Fu il primo orgasmo della sua vita, e uno così era convinta che non lo avrebbe conosciuto mai più.
Quando il seme di Hamin si scaricò in lei, la invase, e cominciò a colare, con qualche lieve traccia della infranta verginità , Bénédicte tornò improvvisamente i sé, si scosse, lo spinse, gli sussurrò di andar via, subito, andò a sedersi nella tinozza, si lavò accuratamente, si asciugò, fu lei stessa a svuotare il recipiente, senza chiamare Borière, che era rimasta, tremante, dietro la tende, nell’altra stanza, già piangendo l’impiccagione di Hamin.
Era tipico delle bianche assatanate, poi, accusare il maschio negro di aggressione.
Bénédicte non parlò con nessuno, nemmeno con Borière, e le sue giornate seguitarono a scorrere come se nulla fosse accaduto.
Ma qualcosa era accaduto.
La settimana dopo attese invano le sue regole.
Rimase meditabonda.
Poi decise che doveva agire. E senza indugio.
Due giorni dopo, prese del sangue di gallina e se lo spalmò nella vagina, abbondantemente.
Poi disse ad Borière di andare a chiamare il padre.
Un omone, alto e grosso, sanguigno, e gran fecondatore di schiave.
Era detto il padre della piantagione.
Bénédicte ne conosceva il debole ed era sicura della trappola.
Hamin non aveva resistito, a costo della propria vita, ma era certa che anche il vecchio non sarebbe restato insensibile alla sua provocazione.
Solo che non doveva farsi trovare a gambe aperte, si sarebbe potuto scorgere il sangue col quale si era imbrattata.
Si fece trovare con una leggera vestaglietta, sbottonata.
Michel entrò, vide la sua bella figliola in quella tenuta e ne fu più eccitato che turbato.
Chiuse la porta.
‘Allora, Bénédicte?’
‘Volevo vederti, papà , dato che non stiamo mai vicini, perché non vieni vicino a me?’
Andò a sedere sul letto, l’uomo la seguì.
Bénédicte aveva previsto bene, il gonfiore tra le gambe di Michel era vistoso, e non appena le fu vicino, lei gli afferrò il fallo con la manina, e con l’altra cominciò a sbottonargli i pantaloni.
L’uomo divenne paonazzo, cominciò ad ansare, e quando quel batacchio gli fu tirato fuori dalle mutande e si drizzò in tutta la sua imponenza, non resisté più, spinse Bénédicte sul letto, e le montò sopra indirizzando il suo poderoso manganello nella vagina della donna, che si accorse che quello che doveva essere un di sacrificio diveniva, invece, una meravigliosa sgroppata erotica.
Furbescamente, strinse un po’ le gambe, quando lui iniziò a penetrarla, a simulare un ostacolo, ma poi partecipò attivamente alla galoppata, curando, sia pure nel piacere, che non si sfilasse da lei prima di averla inseminata.
Michel non ci pensava proprio.
Quella bella carne fresca, quel culetto sodo, quelle tettine provocanti, non gli consentivano di essere presente a sé stesso.
Straripò violentemente il lei, mentre le sbaciucchiava le labbra.
Quando s’alzò, Bénédicte mise le mani tra le gambe, mostrò al padre le dita insanguinate.
Michel scosse le spalle, si riaggiustò alla meglio, se ne andò.
Due giorni dopo, Bénédicte parlottò col padre e lo convinse a mandarla da alcuni loro parenti, nell’Arkansas, accompagnata da Borière che, a quanto sapeva, aspettava anche lei un figlio.
Borière, l’aveva subito chiamata così la nonna, che aveva assistito al primo parto della sua giovane figlia.
Nel gergo francesizzato di quella gente: Borière, beau derriére, sarebbe a dire bel culo!
Il viaggio, preparato in fretta e furia, fu abbastanza lungo e non privo di disagi.
Era stato necessario stilare una serie di documenti, non proprio falsi ma esclusivamente di comodo e accompagnati da altrettanti, segreti, che revocavano l’efficacia dei primi.
Era opportuno, infatti, attestare che tutti gli accompagnatori erano cittadini liberi, cioè affrancati da ogni vincolo di schiavitù, ciò avrebbe evitato eventuali noie burocratiche, o tentativi di acquisto, considerato il fisico di quei magnifici campioni.
Infatt, l’équipe rapidamente scelta, era composta, oltre che dalle due donne, dai guidatori dei due chariots, di cui uno attrezzato per il riposo di Bénédicte e Borière, da Louison, il robusto chef de route, un ex galeotto bretone, e dall’erculeo Hamin, il giovane e intelligente tuttofare.
In tutto, sei viaggiatori, che partirono poco dopo l’alba, con la benedizione di Pére Etienne.
Avrebbero seguito le piste che si mantenevano vicino al grande fiume, fino al punto dove si immetteva l’Arkansas, poco prima del luogo di destinazione, avrebbero attraversato le terre dei Chitimaca, dei Choctaw, i più numerosi, e dei Natchez. Contavano di incontrare gente, lungo il cammino, e stimavano di coprire la distanza di circa trecento miglia in meno di due settimane, riducendo al minimo le soste.
Sempre che le condizioni fisiche delle donne lo avessero consentito.
Bénédicte aveva necessariamente coinvolto Borière nei suoi piani.
Sapeva che la giovane e avvenente negra era sterile, o almeno così sembrava, perché non era rimasta mai incinta malgrado i numerosi e travolgenti rapporti sessuali ai quali festosamente si abbandonava, senza pregiudizio di colore.
Borière, comunque, doveva simulare una gravidanza e imbottirsi sempre più, a mano a mano, che il tempo trascorreva.
Per lei non c’era bisogno di finzione, da un mese una nuova vita germogliava nel suo grembo.
Louison non aveva ben capito il motivo di quel frettoloso trasloco, ma faceva finta di nulla, anche se qualcosa gli diceva che c’era del misterioso.
Comunque, quel viaggio poteva anche essere un piacevole diversivo.
Il primo giorno s’era svolto senza intoppi.
La sera, Louison scelse uno spiazzo tra gli alberi, fuori mano, con delle siepi che avrebbero garantito la privacy alle donne, quando si sarebbero necessariamente appartate.
Fu preparato un pasto caldo, si mangiò e giunse l’ora del riposo.
Era prudente sorvegliare il luogo, anche se non erano prevedibili pericoli di alcun genere,
Louison stabilì che il primo turno l’avrebbe fatto Merk, uno dei conducenti, seguito dall’altro, Darc, e all’ultimo avrebbe pensato lui perché poi sarebbe stata ora di ripartire.
Lui confabulò con Borière, e quando fu l’ora di riposare, disse a Bénédicte che poteva ritirarsi nel suo carro, a Hamin e Darc, di andare con le coperte a dormire sotto l’altro carro, quello dove lui aveva già fatto salire Borière.
Bénédicte non ritenne di dover restare sola a lungo.
Si affacciò sul retro del carro, scostando il tendone, e fece cenno a Hamin, che se ne stava seduto a fissare il luogo dove la fata bianca avrebbe dovuto riposare, di avvicinarsi.
Lo fece salire.
Natte di sesso sfrenato, col grosso Louison che si faceva gioiosamente cavalcare dalla scatenata Borière, e la golosa Bénédicte che si dimenava voluttuosamente tra le braccia possenti di Hamin che le pennellava fantasticamente la vagina.
E fu così per tutto il viaggio.
Per assicurarsi il silenzio complice degli altri due, i conducenti, Louison fece finta di non accorgersi che la generosa ed esuberante Borière non lasciava a becco asciutto nessuno, ne aveva per tutti, e in abbondanza.
Arrivarono a destinazione.
Accolti cordialmente.
Già sapevano delle due donne incinte, e si misero a disposizione, la grossa padrona di casa e sua sorella, ma Bénédicte e Borière assicurarono che non avrebbero arrecato nessun fastidio, da quel lato, la negra era una brava ed esperta levatrice.
Necessitava solo di acqua calda.
Ma il momento non era ancora vicino.
Bénédicte e Borière avevano salutato con volto sereno ma la mestizia nel cuore, e il vuoto nel grembo, la partenza dei loro accompagnatori.
Erano quasi sempre insieme, a confabulare di continuo.
E le loro pance crescevano.
Il piano escogitato da Bénédicte era scaltro, ma abbastanza fantasioso, e contava anche sulla dabbenaggine di chi le ospitava.
Era molto diffuso, a quei tempi, l’infanticidio dei miseri frutti delle scappatelle delle infoiate donne bianche con i gagliardi uomini di colore.
Per fortuna, le negre cui era demandato il compito di sopprimere quelle innocenti creaturine, quasi sempre nascondevano i neonati tra la loro gente, ed era facile, poi, scambiarli per i figli che i ‘padroni’ avevano seminato tra le schiave.
Quando si giunse agli sgoccioli, e venne il tempo, scattò la duperie, l’imbroglio.
Un cuscino sulla bocca di Bénédicte ne soffocò le urla di dolore.
Il grosso bambolotto color caffèlatte fu lavato e avvolto nei lini.
Un altro involto, con placenta e panni sporchi, fu gettato nella profonda forra che era dietro l’edificio.
L’indomani mattino, con gli occhi rossi e il volto disfatto, Bénédicte raccontò come il suo piccolo fanciullo fosse venuto al mondo deforme e morto, e quanto forte fosse il fisico di Borière che, turbata dall’accadimento, s’era sgravata del suo fardello, ed ora lo cullava.
La brava Borière che poco prima del parto, aveva gettato l’infelice mostriciattolo nella forra.
Il giorno successivo, Bénédicte scrisse al padre.
‘Mio caro padre,
giustizia e misericordia del Signore, non hanno voluto che il frutto della nostra lussuria restasse a testimoniare la turpitudine commessa. Era brutto, deforme e senza vita.
Ma la delusione di aver visto frustrate le sempre trepidanti attese di una madre, mi hanno gettata nel più profondo sconforto.
Per fortuna, Borière mi consente di stringere tra le braccia il suo piccolo bambolotto, che credo abbia concepito con voi, perché ha i vostri tratti del volto, ed è del più bel colore che abbia mai visto in un sangue misto.
Ho pensato di farlo battezzare: Benjamin.
Spero che mi concediate di allevarlo, e sono sicuro che lo vorrete considerare e trattare almeno come un vostro nipotino.
Comunque, non sono per nulla pentita di ciò che abbiamo fatto.
E sono per sempre la vostra Bénédicte.’
La donna, ovviamente, non aveva detto al padre che Benjamin era l’incontro di Bénédicte e Hamin.
Un veloce cavaliere fu incaricato di portare la missiva a Michel.
Quando, sudato e stanco, l’uomo giunse alla piantagione, il ‘padrone’ era intento a fumare, sulla veranda.
Aprì, lesse.
In fondo, era contento che tutto si fosse concluso così, gli sarebbe seccato veder girare per casa il testimone vivente del suo incesto.
Che Bénédicte allevasse pure quel negretto, come si chiamava, Benjamin, che forse, sì, era proprio suo figlio, perché Borière, ogni tanto, gli aveva scaldato il letto.
Visualizzazioni:
445