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LETTERE DA COPENAGHEN – XX I GIARDINI DELL’EDEN E MIRABELLE

Africa Coloniale Tedesca, 18 dicembre 1917.

Passa la vita, passa l’affetto, un giorno dopo l’altro, un istante dopo l’altro, un bacio dopo l’altro, un’illusione dopo un idillio. Passa, passa, ma rimane sempre la mia perpetua ed immortale giovinezza, accompagnata dal desiderio di piacere, dall’amore della carne, in un’estate senza fine.
Il mio amato si chiamava Friedrich. Era come se l’avessi trovato in uno scrigno, pieno d’oro e pietre preziose.
Talvolta, accadeva che chiudessi gli occhi e sognassi i giardini dell’Eden. Erano giardini incantati, adorni di fontane di marmo bianco, di statue di Venere, di giovani donne vestite di candore, che cantavano e giocavano a rincorrersi a destra e a manca. Erano giardini di primavera, ingombri di profumo, di fiori mai visti e delicati, che crescevano in mezzo all’erba verde.
Mi immaginavo nuda, mentre mi rotolavo sull’erba, i piedi scalzi che carezzavano le margherite, le gambe nude, toccate, eccitate da quegli steli, avevo le labbra semiaperte, mi lamentavo per il piacere. Gemiti di voluttà uscivano dalle mie labbra, mentre le toccavo con un dito, come per regalare un bacio all’etere tranquillo, nel quale volava un’armonia di liuti e di arpe.
Avevo occhi di orchidea, lingua di cristallo, orecchie di pizzo, pelle di perla.
Ecco, Friedrich arrivava a cavallo, scendeva allegramente, era nudo, o meglio, abbigliato soltanto con quella veste di carne irsuta e virile che tanto lo rendeva maschio.
Vedevo il suo lungo fallo, il suo organo sessuale dalle dimensioni indicibili, che gli arrivava quasi al ginocchio, egli era figlio di Venere, sì! Le mie mani nude desideravano ardentemente quelle sue natiche sode, piccole, ruvide, ricoperte di un pelo leggero, fatte apposta per essere incastrate nella carne di una donna.
– Il giardino dell’Eden &egrave qui, in questi istanti, sulla mia pelle ‘ dissi, come inebriata.
Sesso e fecondità, sesso e fecondità, felicità, affettività, nient’altro’ Questo era quello che desideravamo entrambi.
In quella visione paradisiaca, mi vedevo mentre lui alzava una delle mie gambe, prendeva il mio piede statuario, dalle dita lunghe, per poi tenere il mio alluce tra le labbra e succhiarlo, succhiarlo, succhiarlo, ardentemente.
– Ah! Ahi! ‘ feci, sentendo i suoi denti sulla pelle.
Eravamo senza mutande, senza veli, io portavo indosso soltanto un braccialetto d’oro, che faceva brillare la mia mano grande, dalle dita lunghe, fatte per toccare.
– Vieni, vieni tra le mie braccia ‘ mormorai ‘ assaporeremo insieme le gioie del coito!
L’accoppiamento cominciò all’improvviso, mentre tre o quattro vergini danzavano intorno ai nostri corpi nudi, intrecciati, volteggiando, disegnando nell’aria delle nuvole di stelle filanti, cantando in una lingua sconosciuta che sapeva d’amore e di voluttà.
Anche lì, in quel giardino onirico che esisteva soltanto nei miei pensieri, mi accorsi che il piacere arriva soltanto quando si &egrave selvaggi e bestiali, se ci si lascia andare alle gioie della carne, se si ha il coraggio di parlarsi a versi, a gesti, a colpi di lingua, se l’organo sessuale di lui &egrave come un bastone per il sesso di lei.
I giardini dell’Eden erano recintati, avevano un cancello, fatto d’argento, per noi fu come rimanervi chiusi dentro. Che felicità, che felicità, che fraternità! Mi vedevo, mentre passeggiavo scalza sull’erba, senza portare indosso altro che la pelle, tenevo in mano le mie scarpine bianche, col tacco a spillo, che sembravano quelle di una sposa. Saltellavo come un merlo o una coniglietta dalle orecchie lunghe e candide, mentre tenevo con la mano destra la mia immensa chioma, che arrivava a coprirmi il pube, velando il mio sesso carnoso e saturo di piacere.
Una volta, io e il mio Friedrich avevamo fatto un viaggio fino in Danimarca e avevamo visitato Copenaghen. Durante la strada, ci eravamo fermati per dormire ad uno dei favolosi kro, che si incontravano di tanto in tanto. Erano fabbricati dai tetti spioventi, dove gli osti servivano la birra, contenuta in grandi botti ottocentesche, tanto belle. Era accaduto durante la bella stagione e avevamo visto spuntare quell’edificio antico e rossastro da lontano, nel bel mezzo di un campo di colza in fiore. Oh, quanto giallo, quanto giallo, fra tanto verde! A destra e a manca, c’erano dei filari di faggi, mentre al centro correva il sentiero, un tempo praticato dalle carrozze. Ricordo che prima di arrivare alla nostra meta eravamo passati attraverso un bosco, dove ci avevano aggredito dei briganti. I loro volti mascherati, i loro abiti logori e a brandelli mi avevano fatto paura. Per fortuna potevo stringermi al braccio del mio Friedrich, che aveva con sé una pistola a canna lunga’ Bum! Un colpo in aria era bastato per spaventare i fuorilegge e per fare sì che si dessero alla fuga.
Non mi sarei mai dimenticata dei dolci abbracci di Copenaghen, dei dolci baci sulla bocca assaporati sul ponte di Odense, la città di Odino, delle promesse e dei ricordi amorosi fallaci e sfuggenti, sotto quei cieli colmi di albatri e stelle.


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Etero

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