Nino,
Non leggerai mai questa lettera, perché non la spedirò.
Perché la scrivo?
Perché mi sembra di averti ancora vicino, di parlarti, di rivivere quei giorni.
Per rinnovare e più profondamente scolpire il ricordo che ho di te.
Per custodirti ancor più profondamente nel mio cuore, nella mia carne. Sentirti ancora in me, anche se il tempo mi ha fatto ancor più appassire. Forse non sono stata mai in fiore. O non me ne sono accorta.
Sono entrata nella tua casa che non avevi ancora diciotto anni.
Ero la sposa, la seconda moglie, di tuo padre.
Non ho mai inteso prendere il posto della tua mamma, anche avendo la sua stessa età .
Non avrei potuto, l’ho intuito subito, senza rendermene conto.
Non era stato un matrimonio di sistemazione, come si usa dire, perché la mia famiglia era agiata, avevo tutto quello che poteva servirmi. O quasi. Ma i miei temevano che, col trascorrere degli anni, mi sarei trovata sola. Troppo sola.
Non era neppure la necessità di risolvere i miei problemi sessuali. Non ero mai stata esuberante, né esigente, in materia. I sensi non erano spenti, ma certamente assopiti per la castità fino allora durata che, del resto, non mi tormentava. Non mi ritenevo brutta, anzi, ma la mia vita era stata dedicata alla mia famiglia d’origine, ai miei fratelli, e non avevo mai incoraggiato qualche sguardo, o tentativo, che pure non erano mancati.
Si, mi sono guardata allo specchio.
Nuda.
Le gambe non erano male, il petto florido e sodo, i fianchi ben disegnati, ma quella cosa lì, tra le gambe, riuscivo a quasi metterla nel dimenticatoio.
Poi, il primo è stato tuo padre. Niente male. Fin dal primo istante si è instaurato un tranquillo rapporto di coppia. In tutti i sensi.
Tutto trascorreva come le calme acque di un fiume pacifico e lento. Mi veniva in mente il ‘Placido Don’, di Scholiokov.
Poi giunse la sera che eravamo soli, a casa.
Lui era via, per motivi professionali. Io ti salutai e mi avviai nella mia camera. Non chiusi del tutto la porta. Tra la mia camera e la tua c’era un terzo vano, vasto. Ricordi?
Mi sembrò sentire un passo felpato. Guardai verso lo spiraglio della porta ed ebbi la sensazione d’essere guardata, osservata. Lo specchio accoglieva la mia figura, che, col seno scoperto e indossante la sola gonna, stava per infilare la camicia da notte. Indugiai, così, senza ragione. Mi pareva che la porta si schiudesse un po’ di più. Proseguii quello che stavo facendo, misi anche una vestaglia e mi accostai alla porta, la aprii. Non c’era nessuno. Dalla tua camera non filtrava alcuna luce. Forse era tutta colpa della mia fantasia. Tornai sui miei passi, mi infilai nel letto. Faceva abbastanza caldo, anche il solo lenzuolo m’era pesante. Per far circolare l’aria schiusi aperta la porta. Del tutto. Spensi la luce. Il chiaro della luna filtrava tra le persiane e colpiva il mio letto, mi avvolgeva d’un raggio d’argento. Dopo qualche tempo, un piccolo fruscìo mi fece aprire gli occhi, solo un poco. Tu eri sul limitare dell’uscio. Mi guardavi. Indossavi solo i pantaloncini del pigiama. Non ti distinguevo bene, ma fu allora che mi accorsi quanto fossi uomo. Non un ragazzo. Quegli occhi, nella penombra, mi turbavano. Per la prima volta le mie viscere sussultarono, palpitarono, si contorsero d’una strana bramosia. La mia vagina, beante e rorida, sentiva tutto il tormento d’essere deserta. Fui assalita dal desiderio di mostrarmi, esibirmi. Indossavo la sola camiciola, mi voltai di spalle e feci in modo che si sollevasse lasciando scoperta quasi tutta la schiena. Sentivo la tua presenza, percepivo perfino la tua eccitazione. Forse non così violenta come la mia.
L’indomani mattina parlavi al telefono. Nello studio. Coprii il microfono ed alzai quello che era sul mio comodino. Gli apparecchi non erano indipendenti, da ognuno si poteva ascoltare la conversazione dell’altro. Non ti eri accorto del mio furtivo inserimento. Conversavi con Paolo.
‘Si’ -dicevi- ‘non è più una ragazzina ma ha un corpo che è uno spettacolo. Vedessi che zinne. Mi piacerebbe addentarle, morderle i capezzoli. Non ti dico, poi, quando s’è voltata, un culo indescrivibile, che nemmeno una modella. Tondo come la lama d’una falce, imbiancato dalla luna che la illuminava. Si, una falce alla quale volentieri avrei infilato il manico che manca. Eccome! Stasera, altro spettacolo. Poi ti racconto. Ciao!’
Non sapevo se andare in collera. Con un tuo amico parlavi di me. e in che termini. Zinne’. Culo. Almeno avessi detto seno’ fondo schiena, ma si anche natiche. No, culo! Però ne avevi parlato in maniera lusinghiera. Non ero una ragazzina, lo sapevo bene, ma fa sempre piacere essere considerata perfino migliore d’una modella. Anche se nei termini che avevi usato tu.
Ebbi la conferma: Nino era un uomo, e come tale mi giudicava.
Mi sorpresi che stavo tormentando i miei capezzoli, immaginando che fossero i tuoi denti.
Ricordi? Fu quella mattina che entrai nello studio e ti chiesi se ti sarebbe piaciuto un vogatore. Nella tua camera c’era posto. Ne avevo visto uno, dei più moderni. Accettasti entusiasta. E mi abbracciasti. Mi parve sognare quando mi stringesti a te, con la tua mano che palpeggiava con indifferenza quello che tu avevi chiamato ‘culo’. Mi faceva fremere. Che dirti, poi, del tuo caldo bacio che, essendomi voltata di scatto, finì quasi sulle mie labbra?
Telefonai al negozio di articoli sportivi. Dopo un’ora il vogatore era nella tua camera, e tu, con i soli pantaloncini, abbastanza larghi di gamba perché il mio sguardo vi si intrufolasse, stavi vogando. Ero di fronte a te, in poltrona. Incantata. I tuoi muscoli si tendevano, un leggero sudore li rendeva lucidi, attraenti. Non m’ero accorta del movimento che, senza accorgermene, facevano le mie gambe: si aprivano e richiudevano, ritmicamente, e ciò aveva fatto salire la gonna sulle cosce. Pur seguitando a vogare, mi guardavi fisso, sentivo il tuo sguardo che mi carezzava, ed era ben visibile la tua erezione. Ecco, di nuovo il tormento del grembo.
Quella sera lasciai uno spiraglio maggiore, accesi la luce centrale e quella sul comodino. Andai a sedermi alla toletta, nuda. Indugiando a spazzolare i capelli. Poi, provocante, mi alzai e mi voltai. Passai lentamente la spazzola sul pube, e mi piaceva, era morbida, carezzevole. Divaricai le gambe e, lievemente, seguitai a sfiorarmi con essa le grandi labbra che erano sempre più tumide. Un godimento soave. Sapevo che tu eri la, e guardavi. Pensai ai tuoi denti, mi strinsi i capezzoli. Pensai al tuo’ manico, mi voltai per mostrarti l’arco della mia falce, mi chinai fingendo di guardare qualcosa sul piede, per farti rendere conto di cosa racchiudessero le mie natiche, il roseo del buchetto, e quello della vagina che sentivo schiudersi disperatamente.
Anche quella mattina attesi che ti confidassi col tuo amico.
Non dovetti attendere molto.
‘Quella mi fa morire. Se tu avessi visto che show. Si spazzolava i riccioli del pube e poi anche la fica. Che tocco di sorca, Paolo, io non resisto. Ma come faccio? Non ti dico poi, quando si è voltata. S’è perfino chinata. Una visione che avrebbe fatto arrapa’ perfino un morto. Che devo fa’? Non lo so, Paolo, ma io ci lascio le penne con quella donna!’
Chi stava consumandosi nel desiderio, nella passione, infoiata più d’un animale in calore, ero io.
Avevo preso i calzoncini che indossava al vogatore. Sapevano di te. Inebrianti. Mi chiusi in camera, me li strofinai tra le gambe. Ne arrotolai una parte e cercai di introdurla in me. Stavo perdendo la testa, farneticando, in uno stato di allupamento vergognoso per una della mia età verso un ragazzo che poteva essere suo figlio.
Si, ma che ragazzo. E poi: non era mia figlio.
Dovevo uscire da quell’ossessione.
Ricordo un vecchio proverbio che dice: se vuoi liberarti dal richiamo del vino, ubriacati. Ti verrà a nausea.
Dio sa se mi sarei ubriacata di te, Nino!. Ma come?
Fui attraversata da una fantasia assillante.
Prendi l’iniziativa, mi suggeriva, affronta la sorte, getta il dado. Gettare, in latino é iacere, ma cambiando l’accento della prima e, significa anche giacere. Ed era ciò per cui mi struggevo. Giacere con te.
Quella sera illuminai tutto, mi pettinai, mi profumai leggermente, mi guardai nello specchio per accertarmi d’essere in ordine, per considerare il mio aspetto. Ero completamente nuda. Indugiai, stuzzicante, forse impudica. Finsi di avvicinarmi al letto ma, di colpo, mi girai e spalancai la porta. Eri lì. Con gli occhi sgranati, il fallo che forzava i pantaloncini.
Ricordi, Nino?
Facesti un passo avanti, allungasti la mano, mi sfiorasti il seno.
Lasciai credere che volevo indietreggiare, lentamente, verso il letto. La tua mano divenne più invadente, intrigante. La poggiasti sul mio grembo. Io caddi sul letto, e tu mi fosti sopra, mordendomi, finalmente, i capezzoli. Premendomi sul ventre il tuo fallo prepotente. Fosti abile nello sfilarti i pantaloncini e non ti accorgesti, preso dal desiderio che ti invadeva, ci invadeva, che la mia mano stava guidando il tuo sesso tra le mie gambe, sempre più vicino alla palpitante e turgida vagina che ti attendeva, che ti accolse avvolgendoti nelle sue irresistibili contrazioni.
Credesti di scoparmi furiosamente. Fui io, invece, a possederti con impeto, passione, suggendo fino all’ultima goccia di te, ubriaca, si, ma non sazia.
Giacesti su me, splendidamente affannato, e sentivo che stavi rifiorendo in me. Ti abbracciai stretto, per voltarci così avvinti, perché potessi cavalcarti con sconosciuta voluttà , in estasi, raggiungendo sconosciute vette, inimmaginabili orgasmi.
Rimasi così, su te.
Ero ubriaca, si, ma ben lungi d’essere nauseata, sentivo il fascinoso richiamo della frizzante e fresca delizia d’un prelibato spumate, tu, dopo il solito scialbo vinello della casa.
Mi carezzavi la schiena, le natiche, la tua mano si inseriva tra esse, curiosa, indugiavi sul palpitante buchetto che racchiudevano.
Ricordi? Mi sussurrasti che il mio culo era arcuato come una falce.
‘Si’ ‘ti risposi- ‘ma senza manico.’
Mi guardasti sorpreso.
Ti piaceva dare al mio corpo nomi legati a ciò che ci nutre, alimenta.
Ero d’accordo, tu eri i il mio solo cibo del quale non mi saziavo mai.
Mordicchiavi le grosse fragole dei miei capezzoli, suggevi il miele della mia lingua, lisciavi la vellutata pesca delle mie natiche, e usavi anche il francese miche, quando ti rivolgevi ad esse. Dicevi che era il tuo pane fragrante.
Il mio pane era la tua baguette. E quelle baguette!
Da allora, i giorni in cui non potevo sentirti mio furono tetri e malinconici. Cercavo di anticipare ogni tuo desiderio, ogni tuo ghiribizzo, ogni fantasia.
La mia inesperienza mi indusse a sfogliare, di nascosto s’intende, i più stravaganti compendi erotici.
Mi bisbigliasti che ti sarebbe piaciuto farlo ‘alla pecorina’, un mio libro la chiamava la posizione della mucca, un altro la definiva della cavalla. Forse più esattamente, perché tu ti aggrappavi alla mia lunga criniera scura, e tiravi, facendomi godere invece di farmi male.
Poi fu la volta della tigr, dell’elefante, dello chat, del colore, della cortigiana. Quando eravamo esausti tornavamo a quella del missionario. Era meraviglioso sentirti sopra di me, e dentro.
Ricordi quando, carezzandomi tra le natiche dicevi che a una magnifica giumenta, come mi chiamavi, mancava solo la coda?
Eri dietro di me, allungai la mano e afferrai il tuo sesso sempre eretto, me lo introdussi tra i glutei.
‘Ecco la mia coda, Nino.’
E non ti sembrò vero quando, grazie alla tua tenacia e alla mia volonterosa, anche se non semplice, collaborazione, piantasti in me la tua coda, completasti la mia falce col tuo manico.
Mi piacque, sai?
E cosa non mi piaceva di te?
Non mi sembrava vero che la cosa durasse nel tempo, che tu non ti stancassi di me, della tardona pretenziosa.
Bastava che la tua mano mi sfiorasse per farmi fremere.
Tu non lo hai mai saputo, ma io ho serbato religiosamente il lino nel quale avevo raccolto il tuo seme della prima volta, quello che stillò dalla mia vagina. Era tanto.
Sono certa che sarò tacciata di feticismo, ma quando eri lontano, all’università , lo stringevo tra le mie gambe, tra le grandi labbra, lo passavo sul mio sesso ardente, e mi sembrava sentire te.
Sono passati tanti anni, Nino, ma io rivivo intensamente tutto questo.
La tardona è una vecchia, ma solo nell’aspetto.
Quel lino mi sa dare ancora inebrianti sensazioni.
Grazie.
Lia
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