Guardandolo ed esaminandolo per bene la prima volta, scoprii che ero stata realmente e inconfutabilmente fortunata, perché lui aveva dentro di sé tutti gli attributi, gli ingredienti e i segni tipici degli abitanti dell’America meridionale. Era fornito e possedeva una dose smisurata d’esultanza, di felicità e di sensualità che gli esplodeva da tutti i tratti della persona, io solamente dopo pochi secondi, infatti, ero rimasta inevitabilmente e piacevolmente avvolta da sensazioni incantevoli e divine da cui non volevo per nulla sfuggire.
Per la precisione correva l’anno 2000, nel tempo in cui io e la mia famiglia eravamo partiti dall’Italia per cercare tentando di trovare fortuna e prosperità in Brasile; ormai era passato un anno e quattro mesi da quel viaggio, verso la fine dei diciassett’anni d’età trovavo infine l’amore, la libertà , l’autonomia e da ultimo individuavo e scoprivo lui, Ven’ncio per l’appunto. Il suo cuore era la musica samba, la sua pelle era il caffè, lui era la sua nazione, la sua anima era affascinante, ignota, intrigante e misteriosa come la foresta amazzonica, lui era il Brasile in tutto e per tutto.
Ven’ncio mi desiderava e mi pretendeva come nessun altro uomo al mondo aveva giammai azzardato e osato fare, per il fatto che diceva e ripeteva in continuazione, che il mio volto di donna angelica, che i miei occhi azzurri affusolati, che la mia bocca carnosa, che i miei lunghi capelli neri e le mie sopracciglia folte si collegavano allacciandosi tra di loro come fa l’edera sui rami. Queste sensazione uniche non lo facevano più dormire la notte e gli provocavano una serie d’erezioni a catena, che lo obbligavano costringendolo a sputarsi sulla mano per masturbarsi fino a tre o quattro volte il giorno, quando le prime parole che gli dissi guardandolo fisso nei suoi occhi neri furono:
‘Esistono due sole emozioni al mondo: l’onnipotenza e il godimento. La prima la sto provando in questo momento, la seconda non l’ho mai sperimentata e adesso sono qui per essa’.
In un attimo, come un animale crudele e selvaggio che trasporta la sua preda nella tana per cibarsene, Ven’ncio mi strattonò fino al capannone, dove un tempo venivano puniti gli schiavi e con una spinta mascolina e virile io caddi sul pavimento. Lì per terra giacevano vari strumenti e d’utensili differenti adoperati per le torture, lui era lì in piedi davanti a me, si sfregò bene il cazzo, ci sputò sopra ed ebbe un’istantanea e poderosa erezione. Era un grosso cazzo di circa venti centimetri d’estensione del colore della cannella, aveva delle grosse venature e la punta era d’un colore violaceo intenso. Quello era il mio primo cazzo che vedevo nella mia vita, perché nella sua indiscussa imponenza m’aveva addirittura spaventato, per il fatto che se ne stava lì bello orgoglioso e sull’attenti pronto per lacerare e per recidere le mie vergini carni. In quel momento mi sentii completamente incustodita, indifesa e vulnerabile, lui era il mio padrone, io ero la sua discinta e sguarnita schiava bianca.
Io guardai Ven’ncio intensamente negli occhi, essi stavano scintillando, giacché avevano il fulgore e la luminosità delle stelle, poiché in quel momento mi uscì dalla bocca una sola parola: dono. Nel sentire questa parola, il suo eccitamento assieme alla sua emotività decollò in modo vorticoso; lui m’afferrò con tutta la forza che aveva in corpo, visto che i capelli e il mio viso finirono dritti contro il suo cazzo. Io lo afferrai con le mani, poiché era morbido e depilato, poi con la lingua iniziai a disegnare dei cerchi lungo la sua cappella. Lo sentivo crescere e aumentare ancora di più dentro la mia bocca, alla fine sputai un po’ e iniziai a succhiare. All’improvviso, come tutte le volte che m’innervosisco e mi spazientisco, uscii un momento dal capannone e andai a urinare, in seguito mentre raccoglievo delle foglie per pulirmi un po’, sentii una voce dietro di me che imprecava e inveiva in modo furioso e alquanto risentito:
‘Brutta puttanella, sporca e svergognata italiana. Lo sapevo io, che erano migliori gli schiavi negri. Schifosa e sconcia, m’hai pisciato sopra i fiori che ho appena seminato, se ti prendo ti faccio frustare come un animale’.
In quel momento corsi nel capannone e Ven’ncio mi fece nascondere dietro a dei grandi sacchi di canna da zucchero e di caffè: adesso non avevo più scampo, in pratica non avevo più via d’uscita, perché ero totalmente sua e in suo potere pensai. Lui mi voltò e con la sua lingua appassionata iniziò a leccare la mia pelosa fica umida e odorosa, arrivò fino al clitoride e lì si soffermò per un paio di minuti, io ero completamente bagnata, dal momento che non capivo più nulla, sragionavo dal piacere, Ven’ncio me lo spinse dentro, io ansiosa e impaziente iniziai sovente ad ansimare e a ripetere:
‘Ah, ent’o sim, meu amor, ainda mais para dentro’ (Ah, sì così amore, ancora più dentro).
I nostri umori si mischiarono e si unirono, Ven’ncio stava per sborrare, io allo stesso modo, cosicché per un attimo lui si trattenne rimandando l’acme del piacere, dopodiché mi legò le mani e i piedi a quella ferraglia per gli schiavi, mi collocò in piedi con la faccia contro il muro, mentre le sue mani afferrarono i miei seni e il suo cazzo mi penetrò lentamente da dietro, in quel preciso momento io ero la sua ‘escrava’ (schiava).
In brevissimo tempo avemmo un orgasmo simultaneo e prorompente, mi sembrava di volare, io ero fuori di senno, gridammo forte come se ci stessero torturando, lo sperma era tanto, giacché gocciolò lungo le mie cosce e cadendo al suolo si fuse, impastandosi e mescolandosi con la terra.
Ebbene sì, lo ricordo nitidamente ancora oggigiorno quel meraviglioso episodio, per il fatto che sopra quella terra benedetta e santa di schiavi e di padroni, io persi volontariamente la verginità donandomi incondizionatamente nelle mani di Ven’ncio, perché quella era diventata in conclusione la nostra terra, il nostro beneamato Brasile.
{Idraulico anno 1999}
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