C’era una volta un paese dove si scopava, si scopava e si scopava. Cazzo!
E c’erano tante fiche bagnate, tanti uccelli che grondavano sperma, e un mucchio d’allegria.
La piazza era sempre gremita di pagliacci che lasciavano volare via nel cielo nuvole di palloncini colorati.
E alle fontane c’erano distributori automatici di chinotti, aranciate, e champagne. Anzi, c’erano addirittura fontane da cui sgorgava vino, o acquavite.
Alla stazione c’era sempre gente in arrivo, e quasi mai in partenza.
Potevate incontrare allegri negri vestiti a colori vivaci, o, cavolo! donne che vi chiedevano subito di farle orgasmare.
E quando scendevate dal treno, quel treno che fischiava tanto allegramente, vi tiravano addosso una nube di coriandoli.
Faceva caldo. In verità, c’erano anche le scuole, ma ci si andava soltanto per farsi le seghe, o per far chiasso.
Gli abitanti di quella città non avevano voluto un cimitero, perché dicevano che non ce n’era bisogno, ed era vero. Ah, alla malora le malinconie, e le schifezze della vita!
Faceva sempre caldo, e per le strade decorate di bandierine, vedevate spesso
sfrecciare delle automobili dipinte di giallo, di verde, di arancione, di azzurro’
Era mezzogiorno.
Un allegro rumore di campanelli d’argento aveva annunciato anche per quel giorno la fine delle lezioni; a bordo della nostra botomobile turchina andavo al liceo a prendere la mia adorata sorella, diciannovenne e bellissima.
Oh, la nostra botomobile! Era davvero graziosa, con quel grandi fari rotondi davanti, che sembravano due occhi fatti per guardare, e la sua graziosa linea da Bugatti le dava un aspetto comico e simpatico allo stesso tempo. Aveva un clacson manuale che faceva ridere.
Ce l’aveva regalata papà.
Ah, il nostro caro papà, che lavorava sempre, e noi non vedevamo mai’ Ma aveva davvero un cuore grande così, perché bastava che io o mia sorella Minta andassimo da lui, perché ci riempisse le manine di bigliettoni di banca.
Oh, era il massimo, soddisfaceva ogni nostro desiderio! Quant’era buono, e ci lasciava liberi di fare quello che volevamo!
Mia sorella si chiamava Minta, vi ho detto. Era una ragazza perbene, ma da quando la mamma ci aveva lasciato, lei non credeva più in niente, eh’
Quel mezzogiorno salì in macchina mostrando a tutti le sue lunghe, meravigliose gambe, avvolte nelle calze a rete, e le sue scarpe coi tacchi a spillo, che però lasciavano vedere favolosamente anche tutto il piede, e le unghie dipinte di rosso.
– Andiamo! A cento all’ora! ‘ urlò, festante, accomodandosi il suo spiritoso cappellino nero decorato a fiori.
Io la guardavo. Aveva i capelli così rossi, così lunghi e ben pettinati, aveva le ciglia così nere, gli occhi così verdi, le labbra così coperte di rossetto, era così truccata, così piena di ombretto azzurro, così eccitante in quel suo vestitino nero che mostrava tutto.
– Non sai quanti pompini ho fatto stamattina! ‘ mi disse ridendo. ‘ Tutti gli scolari ne volevano uno, certi anche più di uno’
– E vanno a scuola apposta per quello, no?
– Già, proprio così.
– E tu non ti stanchi mai?
– E perché dovrei? ‘ con un sorriso mise in mostra i suoi denti bianchissimi, d’avorio, che sembravano quelli di una statua. ‘ Ti dispiace se accavallo le gambe, fratellino? Oh, spero non ti dia fastidio, non ti faccia star male!
Era lei quella che diceva sempre che nella vita bisogna godere, godere e godere, perché alla fine arriva il caro Papà, che ti rompe il naso e ti fa piangere’
Accese una sigaretta e cominciò a fumare come solo lei sapeva fare.
– Ah, io non ci credo ‘ mi diceva sempre, con quel sorriso beffardo, che faceva risaltare ancor più le sue labbra di fuoco, di bambola. ‘ Ricordi com’è morta la mamma? Oh, e tu credi che se Dio ci volesse bene ci farebbe soffrire così, si nasconderebbe, invece di brillare nel cielo come il sole? La vita è stata generata da un processo crudele e non finalizzato, chiamato evoluzione’
E diceva anche:
– Dimmi, hai mai incontrato Dio? Ha mai esaudito qualcuno dei tuoi desideri? Ti ha mai parlato? Ha mai risposto alle tue preghiere? Ah! ‘ concludeva ridendo ‘ E tu crederesti a un papà che si mostra al suo bambino solo dopo averlo fatto morire? Che lo mette alla prova e lo rende felice in un mondo che nessuno ha mai visto, solo dopo averlo costretto a mangiare la merda?
Sghignazzava.
E nel frattempo, fumava come una turca, lasciando sfuggire dalle sue
labbra di corallo delle nubi di fumo bianco e malizioso.
Pareva tirasse dei baci, e di piacere.
Non la sopportavo, quando faceva così. E anche quel giorno, mentre la riportavo a casa, Minta ripeteva la solita romanzina. Era per tentarmi’
E mentre guidavo, con la sua bocca rosso fuoco mi veniva vicino vicino, per sussurrarmi:
– Chiamiamo Dio qualcosa che è degno di essere venerato, chi crederebbe senza fondamento? E perché Dio si dovrebbe manifestare agli altri e non a te? Prega per tre giorni, chiedendogli una prova chiara e personale della sua esistenza’ Se te la da, credigli. Ma se non te la dà, odialo per sempre, perché vuol dire che non può dartela, non può nemmeno sentirti, e non è Dio. Non può esistere e non volertela dare, perché una mamma non rifiuta una cosa simile al suo bambino’
E quasi mi baciava, dicendomi queste sciocchezze. Anzi, mi baciava, e sulle labbra, mi mostrava le cosce, i seni prorompenti, mi toccava con le sue braccia nude. E io guidavo’
– Ti amo, fratellino ‘ diceva Minta, pettinando all’indietro i suoi lunghi capelli rossi, di bambola. ‘ E non farti fregare, quello che conta nella vita è il sex’
E fumava, fumava, fumava, come una turca, provando un immenso piacere mentre stava per arrivare alla fine della sua sigaretta.
Alla fine la spense, ma sorridendo.
Sì, perché almeno se l’era goduta, anche se era passata.
– Allora non sei religiosa?
Mi baciò sulla bocca e scoppiò in una fragorosa risata.
Eravamo sempre a bordo della nostra grottesca automobile, quando lei si sporse dal finestrino, e, sghignazzando, mostrò le splendide tette a un gruppo di studenti di medicina, col camice bianco, gridando:
– Allora, quando scopiamo?
E suonava il clacson.
Quando ci fermammo davanti alla nostra grande casa, Minta mi gettò le braccia al collo, perché si era accorta che le sue parole tristi mi avevano fatto piangere’ E mi copriva di baci, di tenerezze, guardandomi con quei suoi grandi occhi azzurri e languidi languidi:
– Tanto lo sai che quello che conta è che ci amiamo’ E io ti amo alla pazzia, fratellino’ ‘Love is the meaning of life’. Lascia che ti abbracci, che ti baci’ Non ti lascerò, sai? No, non ti lascio da solo a soffrire’
Mi stringeva a sé come una buona mamma’
– Se credi nell’amore, allora abbracciami.
Lo feci.
E così m’addormentai.
E io che pensavo che mi raccontasse l’ennesima storia di sesso sfrenato, come quel giorno, in cui mi aveva parlato, cavolo! di quel suo compagno di scuola che aveva avuto la fortuna di scoparsi sua mamma, una gran fica,
alta, coi tacchi a spillo rosa, credetemi, questo era stato per lui un motivo di vanto!
E che vanto!
Anche Minta gli aveva fatto i complimenti sottovoce, quella volta. E quel suo compagno, come l’ aveva raccontata, quella bella impresa! Beato lui!
Ah, quante seghe si facevano al liceo che frequentava mia sorella. Sì, erano solo seghe e musica techno, di noioso c’era forse solo un po’ di matematica, che però studiavano solo una volta ogni tanto.
Ma che faccio?
Dimentico di descrivervi la nostra favolosa casa!
Era tutta ricoperta di marmo grigio, e sulla facciata c’era un gran porticato, a colonne greche, con degli archi a sesto acuto.
Dovunque erano scolpite figure gotiche, erano vecchie storie della mitologia germanica e nordica.
Potevate ammirare grandi figure di streghe, vestite con lunghi mantelli che facevano paura, o di cavalieri, immortalati mentre infliggevano il colpo di grazia a dei mostri sacri.
Ma c’erano anche figure mitiche di maghi, di fate, di principesse incatenate che esalavano l’ultimo sospiro, la mano sul petto’
Vi erano pure dei castelli, delle figure di fantasmi, di guerrieri, che avevano combattuto fino all’ultima stilla del loro sangue ed erano morti nel coraggio e nel valore.
E al sommo di due pilastri avevano ritratto due enormi leoni, che parevano ruggire al vostro ingresso.
La facciata della villa era sempre illuminata da un sole accecante.
Mi risvegliai nella nostra bella stanza dei giochi.
Fu allora che vidi Minta, ritta in piedi, vestita da cameriera, che suonava un gran tamburo militare, bianco. Lo faceva rullare con abilità, picchiandolo a tempo con le bacchette di legno.
E io la guardavo’ Guardavo quel fiocchetto bianco, che le ornava il colletto, il suo grembiulino candido, quella cuffietta che tanto donava ai suoi capelli color fuoco.
E quei suoi occhi color cielo, oh, quanto brillavano!
Aveva una gonna nera corta e stretta, due calze a rete da far paura, le scarpine col tacco a spillo, lei che a piedi nudi era alta uno e ottantadue’
Mi guardai intorno. C’erano i soliti quadri antichi, che raffiguravano figure di antenati, le pareti erano tappezzate di seta di persia, ma soprattutto mi accorsi che c’era un’altra ragazza, seduta su uno sgabello, era alta, bionda, portava delle scarpe dorate col tacco a spillo, teneva le belle gambe accavallate, mostrandole con piacere. Sfogliava annoiata una rivista porno, e ogni tanto sbuffava.
– Allora, scopiamo? ‘ disse Minta. ‘ Dammi retta, fatti spompinare un po’, dopo la scuola non c’è niente di meglio’
Me lo prese in bocca.
Aveva delle labbra così piene di rossetto’ Era impermeabile. Cominciò a baciarmelo, a baciarmelo, a baciarmelo’ E mi faceva vedere la lingua, lunga, bellissima e soprattutto rossa, tra i suoi denti bianchissimi e grandi. Pareva volesse mangiarmi.
E quella lingua cominciò a correre sapiente lungo l’asta, cominciò a leccarmi la punta, la punta, poi entrai nella bocca di Minta, ma solo dopo essere passato attraverso il piacere di quelle labbra rosse, bagnate di saliva.
S’udiva una specie di scricchiolìo, era il rumore piacevole del mio pene nella sua bocca.
Il mio membro era letteralmente stropicciato da quella lingua, che lo accoglieva come un rosso manto, e da quelle labbra sgocciolanti, che lo baciavano.
Ogni tanto quei denti bianchissimi me lo sfioravano, ed era un brivido.
L’altra ragazza, che guardavo golosamente, stava sempre con le gambe accavallate, (ah, quelle gambe avvolte in velate calze nere, e mostrate da una gonna stretch sopra il ginocchio, che non vi so raccontare!) le piaceva agitare allegramente quei suoi piedi racchiusi nelle scarpe dorate, ma soprattutto si masturbava.
E per eccitarmi, mandava dei gemiti’
‘Ah’Ah, ah, ah, ah! Ohi’ Ahaaa’ Oh, uh, ahi, ahi, ahia”
Minta mi guardava, complice.
Allora capivo!
Lei non poteva eccitarmi coi suoi gemiti, perché era impegnata col pompino, per questo aveva chiamato quella sua amichetta’ La ragazza dei gemiti ogni tanto si fermava e rideva. Poi ricominciava coi suoi versi da troietta.
– Uh’uhi, uhi’ Ah!
Riempii la bocca di Minta di sborra, bianca e calda, che lei fece sapientemente sgocciolare giù dalle sue labbra color fuoco. Scoppiò a ridere.
Ma bisognava far presto, perché stava per arrivare la nostra governante, e non vi dico come ci avrebbe sgridati, se ci avesse trovati così. Per lei eravamo ancora due bravi bambini, e se ci beccava a fare dei giochi sporchi ci sculacciava.
Minta si tolse il vestito da cameriera e si mise quello blu, decorato di pizzo, e anch’io dovetti vestirmi da chierichetto, indossando il completino gessato che mi aveva regalato papà. Misi anche il papillon e presi il bastone col pomolo d’avorio.
E la mia sorellina doveva fare attenzione a non mostrare troppo le gambette! Per questo si mise una mantellina azzurra, dopo essersi pettinata bene i lunghi boccoli rossi. Si era messa anche gli stivaletti rosa.
– Andiamo, fratellino? ‘ mi disse con una vocina infantile.
– Sì, dammi la manina, sorellina ‘ le risposi, ridacchiando.
La governante ci doveva servire il tè delle cinque, e non bisognava fare tardi! No no’
Minta era pettinata come una bambola di porcellana. Io sembravo un principino, pronto per andare a cavalcare.
Suonò il campanello, dlin dlon’
Ci sbrigammo a sederci l’uno vicino all’altra, su di un’ottomana decorata con intarsi dorati. Io tenevo la bianca mano di Minta fra le mie, da bravo fratellino che protegge la sua sorellina.
Entrò la governante, con la sua divisa da cameriera bianca e azzurra, e una gran guantiera in mano.
– Allora, avete fatto i bravi bambini? ‘ ci apostrofò severa.
– Sì sì ‘ rispose Minta, con la sua vocina piccina picciò.
– Badate bene, che sennò le pastine al cioccolato non ve le do, cattivacci!
E la discola la guardò con due occhietti innocenti innocenti, e così pieni di ingenuità, che’ oh!
– Giù le mani, dal vassoio, tu! ‘ mi disse la governante. ‘ Golosaccio! Lei è buona, lo so, sei tu il birbante.
– Oh, pietà, non l’ho fatto apposta, no’
– Comunque ti assicuro, cara, che siamo stati buoni, abbiamo fatto la nanna fino adesso ‘ disse la sorellina, buona buona.
– Guarda che ti conosco, sai? Quando dici le bugie diventi tutta rossa in viso’ non ci provare!
Ma la ‘bambina’ sapeva dire bene le sue bugie. Era così seria seria, tutta composta e ordinata, così ben pettinata ed elegante, vestita con quel suo tutù.
– Poi guardiamo i cartoni animati, vero fratellino? ‘ mi chiese Minta.
– Sì sì’
Era una provocazione.
– Posso prendere un lecca lecca, signora governante? ‘ domandò la bambola, con grande educazione.
– Tutto quello che vuoi, perché so che sei una brava bambina ‘ rispose la vecchia. ‘ Ma a quell’altro mascalzone no, perché so che ti tira le trecce e ti invita a fare i dispetti’ Ah, ma tu sei brava, e hai giudizio anche per tuo fratello!
Minta prese il lecca lecca. Era tutto colorato, e soprattutto lungo. Sorrideva, e si voltò verso di me, guardandomi quasi per prendermi in giro, mentre allusivamente cominciò a leccarlo e a leccarlo.
– Visto? Io posso leccare e tu no! ‘diceva, per farmi dispetto, uffa!
Eravamo così vicini, lì, sul divano, seduti l’uno presso all’altra, il mio corpo accanto al suo, il mio culo vicino al suo.
– E’ vero che poi posso prenderne un altro? ‘ gridò la bambina, con la sua vocina piccina picciò.
– No, che ti fa male! ‘ le risposi io, con voce grossa.
– Cattivo!
– Zitta.
– Brutto e cattivo!
E la ‘bambina’ prese a tempestare di pugni affettuosi le spalle del suo fratellino.
Oh, i due pargoli facevano baruffa!
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