“E laggiù, da dove tutto si generava, si sprigionava un calore dolce e sempre più intenso, sempre più luminoso…”
La scopata perfetta è come Echoes dei Pink Floyd.
Non lo
dico per dire, semplicemente, che Echoes è il pezzo più bello del mondo (anche perché è abbastanza ovvio che lo sia). La mia è un’osservazione concreta, pragmatica.
Ascoltatela attentamente.
Comincia con una nota nel silenzio, come un bacio. Quel singolo bacio caldo, pungente, che esplode all’improvviso. Risolve quell’attimo di silenzio, che cala come un insostenibile sipario, dopo l’ultimo argomento di conversazione, tirato fuori tanto per dire qualcosa. In mano hai ancora il drink che lascerai a mezzo. Poi una serie di note si dipanano, verso il basso. E potete proseguire tranquillamente l’analogia da soli. Il duetto tra i due strumenti che si carezzano, si vellicano, quei primi crescendo di intensità. Poi la calma quasi ipnotica e il crescendo supremo, che culmina in quell’accecante solo di chitarra, tanto splendente da abbagliarti, tanto vasto da riempire tutto il tuo orizzonte, tutto l’universo, ovunque quel suono che pulsa, oscilla, danza, nel bagliore intermittente.
Con Alessandro era così. Dopo essere stati a letto per la terza volta, era scattata l’alchimia. Prima c’era attrazione reciproca, desiderio, tensione sessuale. Dopo è stato come raggiungere quella che Pitagora avrebbe definito l’armonia delle sfere. L’accordo di due pianeti che iniziavano a proporzionare il tempo del loro eterno ciclo, e emettere un accordo celeste. Il sesso era diventato una forma di linguaggio, di comunicazione soltanto nostro. Avevamo un’intesa che trascendeva il piano fisico. I nostri pensieri, le nostre azioni si corrispondevano con una precisione quasi telepatica. Lo facevamo dappertutto, in qualsiasi momento. Scopavamo allegramente su qualsiasi cosa avesse un piano d’appoggio. “Datemi una leva e mi divertirò un mondo”, com’era scritto sul mio vecchio diario del liceo.
Quanto ci sapeva fare Ale. Madre natura l’aveva dotato il giusto e lui le rendeva giustizia con il vigore e il testosterone dei suoi 25 anni. 16 centimetri di lunghezza, si allargava sotto il glande in un’asta convessa, dalla superficie ruvida, bella soda. Ale aveva quel sacrosanto dono che hanno alcuni uomini, pochi illuminati, di mescolare naturalmente l’irruenza maschile con la dolcezza femminile. Dopo averti fatto bagnare per benino con una seduta di preliminari ben fatti (quel ragazzo non aveva FRETTA che Dio lo benedica) ti scivolava dentro con dolcezza. Una piccola coltellata di piacere, quella familiare e deliziosa sensazione di essere riempita, e un attimo dopo, l’abbandono, come se avessi affidato le chiavi del tuo corpo a qualcun altro. A qualcuno che sapeva farlo volare.
Perché subito dopo cominciava l’onda. Quando cominciava a muoversi dentro di me era come se un movimento ampio, ondulato, caldo, si sprigionasse dal mio utero per riverberarsi, come le scintille di un sottile fuoco d’artificio, in ogni angolo del mio corpo, le dita dei piedi, la punta dei capelli, la sommità dei capezzoli. Con il passare dei secondi l’onda aumentava intensità e frequenza, il suo ritmo ipnotico e ossessivo. Ed ogni fibra del mio essere sembrava sincronizzarsi ad esso, il respiro, le contrazioni dei muscoli, il battito del cuore. E laggiù, da dove tutto si generava, si sprigionava un calore dolce e sempre più intenso, sempre più luminoso. Un corpo celeste, stella e buco nero insieme, che sorgeva dal punto in cui io e Ale ci congiungevamo. Stella, perchè sprigionava energia. Buco nero perché sembrava risucchiarci, possederci, dominarci.
E quando arrivava avrei potuto contare tutte le arterie del mio cervello, una per una, perché le sentivo accendersi nella mia testa, come mille tubi colorati al neon. Avrei potuto tracciare la mappa dei miei nervi, che diventavano scie luminose di puro piacere. Avrei potuto catalogare tutti i miei muscoli, che sentivo contrarsi, fino a farmi male, mentre dimenticavo di avere un corpo. Avrei potuto se non fossi stata interamente accecata, invasa, da quel fiotto di piacere assoluto, che per lunghi, dilatati, secondi mi dominava. Per tutto quell’aureo tempo non ero che una luce di pura energia, e quel cazzo, quel marmoreo pene attaccato a un fascio di secchi addominali, era il motore, il centro, il perno del mio universo.
Quando tutto era finito giacevo a lungo, fissando il soffitto senza vederlo, con il dolce peso di quel corpo abbandonato addosso.
Non avevo mai avuto una storia così prima. In quei mesi pensavo di aver incontrato il ragazzo della mia vita. Pensavo che non sarebbe mai finita, che sarebbe davvero durata per sempre.
È durata tre anni.
Da piccola, quando avevo fatto la prima comunione, nel piccolo paesino dove sono nata, mia zia mi aveva regalato un vaso di fiori. Una meravigliosa composizione, con tanti fiori coloratissimi. Non saprei nemmeno più dire da quali piante era composto, dentro quel contenitore oblungo bianco, smaltato nero, sono passati tanti anni. Mi ricordo i gigli bianchi, che sormontavano il tutto. Da piccola adoravo i fiori e mi ero dedicata a quel vaso con cura maniacale, badando che ci fosse sempre acqua, controllando che le foglie fossero in salute, una per una. Lo sorvegliavo, per paura che qualcuno potesse danneggiarlo, per sbadataggine. Nonostante tutti i miei sforzi però, quei fiori non potevano certo durare per sempre. Così un giorno hanno iniziato inesorabilmente a sfiorire, sotto i miei occhi disperati. Il mio amore per Ale ha avuto lo stesso destino.
Abbiamo deciso, di comune accordo, di darci un taglio un pomeriggio, la scorsa primavera. Da diverso tempo ci stavamo trascinando in un atteggiamento di apatia, ma fingevamo di non vedere, nell’intima convinzione che forse era solo un periodo, che sarebbe passata. Stavamo passeggiando tra le sale di una mostra dedicata ai surrealisti. Ad un certo punto, nel dedalo di sale oblunghe tutte uguali, girando l’angolo ci è apparsa davanti una tela. Era di Salvador Dalì: L’autoritratto molle con pancetta fritta. Un ritratto deforme, con poco di umano ormai. Era una sottile maschera, molle, floscia, sorretta da poche, pietose stampelle. In alcuni punti, alcune formiche iniziavano a rosicchiarlo.
Fu come l’ultimo sussulto di una complicità che ci era appartenuta, tanto tempo prima. Quella sera facemmo silenziosamente l’amore per l’ultima volta poi ci dicemmo addio.
I giorni immediatamente successivi alla rottura furono strani. Non provavo dolore e la cosa mi stupiva. Passai alcuni giorni in preda a una strana apatia. Mi sentivo disorientata, svuotata. Come quando la sveglia ti sorprende a metà di un sonno molto profondo, strappandoti fisicamente da un sogno molto vivido. Resti qualche minuto istupidito, tramortito, senza sapere bene chi sei e dove ti trovi.
«Allora, ti è passata?»
I vivacissimi occhi azzurri di Eleonora, la mia coinquilina, mi guardavano vivaci da dietro l’orlo della tazza di tè.
«Mah… Passata. Non saprei». Lasciai correre il mio sguardo sulla credenza in stile vittoriano, sui tavoli, sul bancone. Quel locale, una sala da tè in perfetto stile inglese, era una specie di nostro piccolo rifugio in città. Sembrava una piccola casa di bambole. Ci piaceva per la sua tranquillità, ma forse, più ancora, perché ci ricordava la nostra infanzia, trascorsa a immaginare di essere delle principessine, a sognare un principe azzurro e una casa nella campagna inglese.
«Può passarti qualcosa che non ti è mai venuto?»
«Capisco che tu voglia dimenticare, ma adesso non farmi credere che di Ale non te ne fregasse niente».
«No, tutt’altro, è che ormai era finita. Non ho nemmeno sofferto troppo. È più dispiacere che dolore».
«Beh meglio così. Sei splendida, sei giovane, sei al terzo anno dell’università e il mondo è un fantastico buffet da cui attingere amica mia».
La guardai sorridere, con aria malinconica risposi: «Non saprei, per ora ho voglia di starmene un po’ tranquilla»
«Non dire stronzate Vittoria. Tu hai bisogno di dimenticare. Divertirti, distrarti. Darla un po’ via» disse, leccando lo zucchero nell’incavo del cucchiaino. «Amore mio, sono quattro anni che fai la fidanzatina. Lasciati un po’ andare».
«Non sono mai stata il tipo lo sai»
«Certo, tu sei quella da fidanzamento eterno, matrimonio, famiglia, e si cornificarono felici e contenti»
«Non dire cazzate Leo, sai benissimo che non è così. Solo non sono il tipo a cui piace scopare a caso».
Sbuffò: «Nemmeno io! Chi parla di scopare a caso? Dico solo di vivere la vita con un po’ di leggerezza»
Chinai la testa: «Mi sa che quando spiegavano come si faceva ero assente a scuola»
«Invece mi sa che il problema è proprio il contrario, tu a scuola sei sempre stata troppo presente – si alzò e si diresse verso il bancone – oggi offro io, ma tu mi prometti che adesso vai in biblioteca e ti metti vicino a quel ricciolone molto carino che vedo sempre quando studiamo insieme».
«Ok. Con Erik com’è andata?»
«Splendidamente. Mi ha raccontato un sacco di cose del suo paese… Mi ha anche invitato a cena la prossima settimana, vuole cucinarmi un po’ di specialità della Nigeria. Ah, e hai proposito i luoghi comuni sui neri?»
«Eh?»
«Sono tutti veri!» e uscì tutta allegra dalla porta.
Passeggiando verso casa riflettevo sulle parole di Leo. E decisi che il giorno seguente avrei seguito il suo consiglio.
Ricciolone, certo. Carino, senza dubbio. Un bel fisichetto palestrato. Ma che sontuoso imbecille, vanesio e fatuo come le flatulenze del bulldog francese di Alessia. Che peraltro sono una delle emissioni più fetide di tutto il globo terracqueo.
Mi ero sistemata in biblioteca davanti a lui, attirando la sua attenzione con il più mero dei pretesti. Fu sufficiente urtarlo inavvertitamente sotto il tavolo e chiedere scusa, per poi farsi allungare un libro da uno scaffale dietro di lui. Quattro chiacchiere e il giorno dopo, allo stesso tavolo mi invitò ad un caffè. Dove parlò quasi esclusivamente di sé stesso. Mi annoiai in modo clamoroso.
Tornai a casa decisa a metterci una bella pietra sopra.
«Allora? Com’è andata?» mi chiese Leo, curiosa?
«È un codice Itdc. Inarrivabile testa di cazzo»
«Ah. E vabbè. Per una sera lo puoi sopportare»
«Ma manco per il cazzo, per me è finita qui»
«E invece è proprio per quello che devi perseverare – fece maliziosa Leo – Dai sarà un imbecille ma è carino, ti fa bagnare solo a guardarlo»
«Sì, un bel soprammobile. Guarda che un vibratore ce l’ho già ed è un conversatore più brillante».
«Daaai su, perché deve essere sempre così complicato? Fattelo, un uomo bravo a trombare che non rompe le scatole serve sempre»
«Non mi va».
«E su prova a uscirci, poi se non ti va grazie e arrivederci»
«No, non ci penso proprio. Per me chiusa qui»
Il giorno dopo lo incontrai nell’atrio dell’università. Io cercai di svicolare, inizialmente, poi mi rassegnai a fermarmi e subire le sue ciance miste ad allusioni ed avances da avanspettacolo del secolo scorso, tanto popolari soprattutto nei ragazzi del sud. Riuscì a farmi ridere. Forse anche un po’ ad eccitarmi. Così alla fine accettai il suo appuntamento, ci saremmo visti quella sera stessa, per una birra in centro.
Il marciapiede verso casa mi sembrò più lungo della muraglia cinese. Mi dilaniai per tutto il tragitto. Due o più parti di me erano in lotta tra di loro. La mia parte razionale mi diceva che sarebbe stata una noiosissima serata di vanterie, galanteria d’accatto e maschilismo da caserma. La mia parte emotiva mi supplicava di chiudermi in casa con una coperta, un buon libro e una vaschetta di gelato. La mia parte animale non voleva sentire ragioni. Pensando a quei lunghi riccioli biondi, a quel viso dai lineamenti delicati ma virili, a quelle spalle forti, a quel sedere d’acciaio sentivo quella familiare sensazione di turgore ai capezzoli ed un morbido prurito richiamare la mia attenzione altrove. Quel pomeriggio passai molto tempo in bagno. Mi lavai, profumai con tutti i saponi, le lacche, gli shampoo, i balsami e le creme che possedevo. Mi depilai accuratamente, scegliendo un taglio minimale ed ordinato per l’inguine. Passai molto tempo anche davanti allo specchio, abbinando gonne, completi, maglie, spolverini. Mi sentivo come ai tempi del liceo, prima del ballo della scuola. In ultimo, scelsi il mio completo di biancheria più sexy.
Mi presentai all’appuntamento in leggero ritardo. Noblesse oblige. Ci sedemmo al tavolo. Iniziò così una delle serate più noiose e deprimenti della mia vita. La vacuità della sua parlantina era intollerabile. Appena prima che trovassi la scusa giusta per fuggire da quel posto si sporse in avanti con decisione e mi baciò, cogliendomi di sorpresa. Baciava pure da schifo. Quando sentii la sua mano afferrarmi con decisione la chiappa destra decisi che era troppo. Mi alzai e me ne andai, non mi ricordo nemmeno bene cosa dissi.
Vagai per le vie della città, delusa e ferita. Tutta quella fatica per prepararsi, l’ansia, lo stress emotivo, quell’eccitazione che non provavo da tanti anni. Tutto buttato via con un cretino. Tornai a casa piangendo di rabbia.
Nei giorni successivi andai a studiare in un’altra biblioteca: non avevo nessuna voglia di incrociare il soggetto. Non intendevo tentare approcci con altri individui, così mi misi a studiare in un tavolo solitario e defilato, nascosto da una fila di scaffali, dove non sedeva nessuno. Stavo assorta nella “Dimensione estetica” di Marcuse da una mezz’oretta buona quando sentii una mano sulla mia spalla. Mi girai e rimasi folgorata.
«Ciao, sarebbe il tavolo riservato ai dottorandi ma direi che si può fare un’eccezione vero?»
Davanti a me c’era uno degli uomini più eccitanti che avessi mai visto in tutta la mia vita. Aveva un volto estremamente volitivo, una mascella importante ricoperta da un’ampia barba (che su di me ha sempre avuto un effetto potentissimo). Capelli radi, chiari e due occhi verdi che ti trafiggevano. E un fisico semplicemente perfetto. Rimasi a bocca aperta per qualche secondo, senza riuscire a proferire verbo.
«Io… Io… Scusami» balbettai
«Non scusarti, stavo scherzando! Io mi chiamo Roberto, piacere e tu?»
«Vit..Vittoria»
Si sedette, depose sul tavolo il computer e qualche libro. Ma il computer non lo accese mai.
Vi è mai capitato di incontrare una persona con cui scoprite una sintonia talmente perfetta da sembrare quasi soprannaturale? Di incontrare un ragazzo che sembra una calamita vivente per voi? Che sembra semplicemente che sia stato creato apposta per incontrarvi? Quel pomeriggio, mentre parlavamo, avevo la sensazione di conoscerlo da tutta la vita. Era intelligente, era simpatico. Era sulla mia lunghezza d’onda. Avevamo una sintonia istintiva straordinaria. Non mi era mai capitato nulla del genere. Provavo una sensazione indescrivibile di leggerezza. Fummo interrotti dall’inserviente che veniva a chiudere bottega, come di consueto almeno 40 minuti buoni prima dell’orario di chiusura. Va bene Mario, lo so che devi prendere il treno, però accidenti…
Uscimmo dall’università. Era buio. «Stasera non ho programmi, perché non ci mangiamo una pizza insieme?»
All’invito ebbi un moto di timore istintivo, ma durò meno di un ragazzino al primo rapporto: non ebbi dubbi: «Certamente!»
Finimmo a mangiare in una delle più infime pizzerie da asporto del quartiere, ridendo e divertendoci come bambini. Poi fuori dal locale ci baciammo. Uno dei baci più eccitanti che avessi mai provato in tutta la mia vita. Mi schiuse le labbra e mi accarezzò morbidamente la lingua con la sua. Sentivo il mio cervello, i miei freni che provavano a ribellarsi. «Sta succedendo tutto troppo in fretta» sentivo l’eco di questo unico pensiero rimbalzarmi in testa, nel vortice di emozioni e di eccitazione che mi aveva travolta. Ma ormai ero persa. Sarei andata fino in fondo, a qualunque costo.
Il tragitto fino a casa sua mi sembrò lungo quanto un battito di ciglia. Il giorno dopo uscita dal portone avrei dovuto fermarmi qualche istante per orientarmi, perché non sapevo minimamente dove mi trovassi. Salimmo le scale, ci chiudemmo la porta alle spalle nel silenzio del piccolo monolocale, rotto solo dal nostro respiro affannoso, e ci buttammo sul letto, in mezzo a qualche libro di Cormenalaise e a un catalogo dell’opera di Vasarely. Scalciai via un Derrida, mentre accolsi con le braccia il suo corpo in un abbraccio totale. Ci baciammo, ancora, a lungo, profondamente. Le sue labbra percorsero la mia pelle. Avvertivo pochi colpi della sua lingua sul collo, sull’incavo dei seni. Fui scossa da brividi roventi. Mi scostò la maglietta, succhiò e mordicchiò il mio capezzolo destro, mentre io affrontavo con le labbra l’ispido bacio della sua barba, affondavo il viso contro la sua gola, inebriata dal suo ruvido profumo maschile. Gli tolsi la maglietta, dando qualche rapido colpo di lingua sui capezzoli, poi scesi in basso e con, pochi gesti sicuri, sciolsi la cintura dei pantaloni. Dal denim scuro comparve, il tessuto grigio dei suoi boxer.
Sollevai lo sguardo, incrociai i suoi occhi. Sorrisi, maliziosa, e abbassai la tela.
E lanciai un gridolino.
Restai a fissarlo a bocca aperta per quello che a me parve un tempo interminabile. Non avevo mai visto niente del genere. Quello che quel ragazzo aveva tra le gambe era indescrivibile. Era un cazzo grosso quanto una lattina di deodorante. Era semplicemente enorme. Non avevo mai visto nulla del genere.
Lo toccai. Mi scappò una risatina.
«Oddio, ma questo coso è enorme. Mi spacchi in due»
«Ma no vedrai andrà benissimo – mi fece l’occhiolino – anzi ti piacerà, fidati»
Rimasi lì con le mani sulla bocca ancora qualche secondo. La salivazione mi si era azzerata. In compenso là sotto mi sentivo andare a fuoco. E fu nel momento in cui lui si avvicinò per abbassarmi le mutande che mi ricordai di una piccola questione.
«Oh no cazzo!»
«Che c’è piccola?»
«Ho il ciclo Cristo… Ma proprio oggi porca puttana».
Mi era venuto la mattina precedente. In tutto il trambusto me n’ero completamente dimenticata.
«Dai non ti preoccupare. A me il sangue non fa impressione. Dovrai rinunciare all’aperitivo purtroppo».
Mi risparmiò battute su sesso e ciclo. Tipo “Ehi non ti preoccupare, il sangue non mi fa impressione: ho visto sei volte Salvate il Soldato Ryan” oppure “Tranquilla, adoro le bistecche al sangue”. Lo amai per questo.
«Vero, ma siccome sono una gentildonna non c’è motivo per cui debba rinunciarci tu»
Afferrai l’asta con la mano. E lo accolsi nella mia bocca. Iniziai a lavorarlo con dolcezza. Non era nemmeno esageratamente lungo, solo che, accidenti, era larghissimo. Coordinai mano e lavoro di lingua per un po’, finché non lo sentii perfettamente teso e fremente. Al ché con un gesto rapido gli infilai il preservativo che lui aveva appena aperto e mi sdraiai, a gambe aperte.
E cominciò il dramma.
Non ci fu verso di farlo entrare. Sarà che era la mia prima volta con un calibro del genere, sarà che non ero nel mio periodo migliore per dilatarmi al meglio. Quel coso non riuscì a scivolarmi dentro per più di pochi centimetri senza procurarmi dei dolori lancinanti.
«Ok… Piano… Piano…AHIA!»
«Cazzo! Scusa…»
«Aspetta un secondo… Spingi, piano pian…AHI BASTA BASTA»
«Aspetta provo con un po’ di lubrificante»
«Ok dai… Ahia! Ahia! No, niente da fare fa malissimo».
Ci provammo per un’ora e mezza buona. Dopo aver fatto pulizia con un fazzoletto lui tentò persino a titillarmi il clitoride con la lingua, per cercare di aprirmi ancora un po’, ma fu tutto inutile.
Crollammo esausti e un po’ depressi sul letto. Mi guardai intorno. Tra il mio ciclo, i lubrificanti, il sudore, il letto sfatto sembrava lo scenario di un efferato omicidio.
Passammo il resto della notte a dormire insieme.
Mi sentivo come un ragazzino dentro al più bel Parco di divertimenti del mondo.
Chiuso.
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