“E’ seduta vicino a me, a questa tavola rotonda che ha ben poco in comune con quella dei cavalieri del Grande Re…”
Nel suo abito rosso, che lascia scoperto gran parte del seno e
nude le spalle, lei risplende. Io impeccabile nel mio abito grigio con la camicia e la cravatta perfettamente intonata al verdeazzurro dei miei occhi.
E’ seduta vicino a me, a questa tavola rotonda che ha ben poco in comune con quella dei cavalieri del Grande Re.
Non siamo a Camelot, ma in una nota località turistica semideserta -visto il periodo metà novembre -in un lussuoso ristorante, una ex villa di antica costruzione, dove il salone delle cerimonie, che occupa l’intero piano terreno, è stato adibito a sala da pranzo; i commensali che ci fanno compagnia la trattano con galanteria e qualcuno si azzarda a sbirciare nella invereconda scollatura.
I nostri commensali sono compassati promotori finanziari, tutti miei colleghi. Mentre lei si china verso di me per mormorarmi qualche cosa di vago, ma in realtà, solo per assaporare quell’odore di complicità che all’improvviso la stordisce, so che inutilmente ripete a se stessa che sono sbagliato per lei, un errore visto che il suo corpo non sente ragioni. Io le sorrido e, forse, è proprio in quell’istante che lei decide di lasciarsi andare. Per giorni ha tentato di opporsi, di resistermi, ma so che stasera si arrenderà e allora non conterà più nulla. La voglio e cerco di farglielo capire e sentire.
Mentre la noiosa cena di lavoro va avanti, noi due continuaiamo a scambiarci occhiate di rapina, inquiete, interrogative.
Le schiene sono erette, i gesti controllati, un poco rigidi, ma attraverso i nostri movimenti quasi leziosi – i suoi accuratamente studiati per attirarmi a lei come farebbe un ragno con una mosca nella trappola della sua invisibile tela – è evidente che l’attrazione reciproca aumenta vorticosamente con il passar del tempo per assomigliare sempre più a un fiume in piena che minaccia a ogni istante di straripare.
Per calmarsi guarda fuori dalle grandi finestre le cui tende bianche e leggere si gonfiano al vento del lago come vele, la vedo perdersi nella contemplazione dei giganteschi cedri del libano che fan da mura verdi alla enorme villa.
Sotto la tovaglia le nostre ginocchia si sfiorano casualmente e vedo che il contatto la imbarazza, la fa arrossire, già penso al richiamo infuocato del suo ventre.
Non è cambiato nulla nei nostri gesti, ma il desiderio, in realtà, è così intenso che lo si può palpare, diventa una nebbia densa e calda che ci isola dal mondo circostante.
Solleva la forchetta, socchiude le labbra e mentre le nostre dita sulla tovaglia paiono inseguirsi, provo ad indovinare il sapore della sua saliva, provo a sentire la sua lingua muoversi nella mia bocca come un mollusco soffocante e avvolgente.
La guardo negli occhi e sento salire alle labbra le seguenti parole “Ti voglio”. Cerco di dissimulare, impaurito che qualcun’altro possa leggere tra le mie labbra quelle parole, per cui tossisco con discrezione.
Ma in realtà sembra che nessuno si accorga dei nostri turbamenti: i riti di etichetta vengono compiuti a fovere; ma anche se entrambi partecipiamo alla conversazione generale, in realtà non sentiamo niente di quanto viene detto.
L’uragano del desiderio ci rende sordi al mondo.
Ormai abbiamo scatenato forze primitive: ansimi e ruggiti di guerra, immagini di carne cruda, di abbracci crudeli, di fiori carnivori.
Senza toccarci sentiamo l’odore e il calore reciproci, intuiamo i nostri corpi nell’atto della resa totale e del piacere, immaginiamo carezze nuove, mai sperimentate prima, così intime e audaci da essere solo nostre. La sua mano sfiora casualmente la mia mentre, in un soffio, mi mormora all’orecchio:
– Tra quanto finirà questo supplizio? –
Si vede che è atterrita dalla furia travolgente delle sue emozioni mentre conta i minuti di questa cena eterna e noiosa; ma allo stesso si nota che vuole che la tortura si prolunghi, fino a che il desiderio diventa insostenibile, tanto da indurci a far l’amore qui, su questo tavolo, davanti a tanti fantasmi in abiti eleganti, e si vede, costretta da me, a piegarsi in avanti, il seno premuto contro la tovaglia sporca, in mezzo a piatti e bottiglie rovesciate, il vestito ridotto a inesistente straccio sotto le scapole, esposta alla luce dei lampadari viennesi, scarmigliata femmina senza dignità, mentre io la prendo con forza da dietro; allora tra gemiti e parole spezzate, preziose stoviglie rotte, macchiati di salsa, gocciolanti di vino, mordiamo e divoriamo.
Ad un certo punto prende la parola
– Scusatemi, vi prego – mormora alzandosi – devo telefonare; esco nel parco, speriamo ci sia campo
Alzandomi di scatto aggiungo – Vengo anche io, ho lo stesso tuo problema. –
La mia mano sulla sua schiena che imprime un marchio di fuoco, lei malferma sulle gambe, insieme nel parco che circonda la villa, alla ricerca di un posto buio e tranquillo dove consumare il nostro pasto nudo.
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