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Trichechi

“Se la portò a naso e inalò a lungo…”

Quando si conobbero, lui usava un’ essenza femminile, Shalimar di Guerlain, lei
Chanel n. 5. La loro prima conversazione, nata un po’ per caso negli uffici di un agente immobiliare, fu indirizzata e protetta dai pregi dei loro profumi, che ambedue avevano notato subito. Lui poté quindi proporre un aperitivo, che lei accettò. Non ebbe poi a pentirsene.

Era uno di quei rari uomini che hanno ben presente che per le donne non tutti i giorni sono uguali e cercava di informarsi, con delicatezza, delle condizioni della sua compagnia occasionale. Quando lei capì dove andavano a parare certe domande, certe osservazioni sulla notte, sulla luna, sulle inondazioni in Francia e sul fango che travolgeva le case e le persone che ci vivevano dentro, fu prima meravigliata e quasi interdetta. Lui se ne rese conto subito e cambiò apparentemente strada, ma poi ritornò al suo tema, offrendole diverse possibilità di commentarlo informandolo, implicitamente, del suo stato. Quella conversazione ricca di doppi sensi che le lasciavano la libertà di considerarla o no irriverente, le aveva improvvisamente donato un mondo ricco, pieno di significati, di ambiguità e di potenziali malintesi, che un poco la preoccupavano, facendola esitare a rispondere. E anche questo a lui non sfuggì. “Adesso parlo io”, disse con il tono della guida che prende il comando della colonna. Cominciò a raccontarle di quando aveva risalito il rio delle Amazzoni, fino ad un piccolo porto dove con un servizio di areoplanini si poteva arrivare fino in Perù. Lei, che aveva da poco buttato via l’ultimo tampax e si era messa un assorbentino sottile, tanto per prevenire inondazioni in quello che fra sé e sé chiamava il Bangladesh, o il delta del Nilo, tanto era capace di allagarsi all’improvviso, cominciò a sentirsi inconsuetamente allegra. Si rese conto di aver deciso, da una decina di minuti, che con quell’ uomo lì avrebbe fatto sul serio. Iniziò una discussione sui sapori, e sulla scelta del ristorante. Finirono alla Acquolina d’Abruzzo perché era a due passi. Fra il pecorino e le fragole erano ormai sicuri tutti e due di come sarebbe andata a finire.

Chiusa la porta di casa lui, salito a “bere un bicchiere”, la attirò dolcemente ma passò parecchio tempo prima che le loro lingue cominciassero una complicata lotta. Tutti e due avevano imparato che, come il cibo, il sesso ci guadagna ad essere consumato lentamente. Finirono a toccarsi con cautela sul divano, eccitandosi in maniera sempre più intensa, finché cominciarono a baciarsi e la lingua di lui prese, con lentezza di lumaca, la via del suo orecchio. Un gioco conosciuto ma sempre eccitante. Dietro l’orecchio, una sorpresa: Chanel n. 5. Lei lo metteva sempre nello stesso posto. Quella sera lo aveva fatto diverse volte ed aveva formato come un deposito. Una nuvola raffinata al momento dell’incontro, in automobile o al ristorante, in bocca dava una sensazione che era difficile dire piacevole, e certo non preferibile al gusto della mozzarella di bufala, anzi, lui pensò per un momento. Lo disse, e lei se ne uscì con una divagazione sul latte e sui bufali, di una volgarità della quale lei stessa si sorprese, nella quale si avvertivano profumi ben più animali di quelli che si vendono in costose bottigliette di vetro. Lo guardò con un occhio severo e poi lo agguantò fra le gambe con la mano unghiata e esercitata in palestra, facendogli un po’ male e senza smettere di guardarlo. Lui la morse sul collo. Poi le bocche si riunirono, la passione ebbe di nuovo il sopravvento e quella fu la prima di una lunga serie di notti. In capo ad un paio d’ore lui le disse, togliendosi un pelo dalla bocca, che Chanel n. 5 era un profumo ottimo, ma che il suo proprio era infinitamente migliore. Lei lo guardò perplessa. E ammise che anche lui, quando era un po’ sudato, aveva un odore che era un peccato coprire. Ma se non avesse avuto Shalimar quel giorno, come avrebbero rotto il ghiaccio? Alcuni uomini emettevano odori interessanti, ma pareva sempre che questo avvenisse senza che loro se ne rendessero conto. “L’ho fatto apposta”, disse lui con aria sorniona. Passò fra loro come una ventata di sfida, si sentivano sul bordo di qualcosa di indefinibile e pronti a entrarci insieme.

Era un venerdì. Rimasero a letto tutta la giornata seguente. Verso sera decisero di uscire, e scelsero un ristorante di pesce. Ordinarono gamberoni, di quelli che non si possono mangiare senza ungersi le mani. Verso la fine arrivò il cameriere con una ciotolina d’acqua e una fetta di limone dentro. La lasciarono li e passarono una mezz’ora a carezzarsi la faccia con le mani unte di pesce. Alla fine le mani erano pulite e le signore sedute ai tavoli vicini davano qualche segno di nervosismo. “Di sicuro i loro fiumiciattoli” dichiarò lei a voce un po’ alta.

Al dessert, lui si era andato a sedere accanto a lei su quella specie di divanetto che il ristorante offriva alle signore, e lei gli si era adagiata contro… “Ora io vado a veder che succede nei bagni”, gli disse guardandolo in modo languido. “Torna presto, che ordiniamo un altro dolce con la panna”, fece lui, ammiccando come un ragazzino. “Ci vorrà un po’ questa volta”, sussurrò lei, e con un dito raccolse un avanzo di cioccolata dal piattino e se lo passò sulle labbra. Lui le baciò la mano mordendola leggermente. Lei si chinò e si diedero un piccolo bacio “di cioccolata”. Lui le prese la testa le sussurrò in un orecchio “Non ti pulire”, mentre con una mano le accarezzava un ginocchio e provava a risalire la coscia approfittando del movimento che lei faceva alzandosi.. Lei lo guardò allontanandosi come Greta Garbo avrebbe potuto guardare Humphrey Bogart, poi si diresse ondeggiando verso le toilettes.

Si ritrovarono a passeggiare poco dopo, soli, su una terrazza sul mare, e lui le infilò le mani sotto la gonna con un nervosismo un po’ da matto. Non trovando lo slip, che era nella borsa, non ebbe difficoltà ad arrivare al piccolo muscolo circolare e, trovandolo lubrificato di una sostanza scivolosa e calda, ad entrarvi dentro con le dita, mentre lei gli mordeva l’orecchio, sorprendentemente condito con limone e un incredibile sapore di zenzero nel canale auricolare. Lui sentiva con le dita qualche granello duro, le fragole del giorno prima, pensò. “Che meraviglia, è pieno di stelle” le sussurrò, mentre lei, avvinghiata, guardava lontano una luna romantica che sorrideva delle loro innocenti trasgressioni. La mano di lui riapparve nell’ oscurità. Se la portò a naso e inalò a lungo. Poi la offrì alla bocca di lei, che inizò a baciargli le dita, come già aveva fatto nel ristorante, presto sedotta da quel forte odore di sé stessa che, per dire la verità, aveva sempre trovato gradevole. Era quello il lato interessante del suo ritmo quotidiano e altrimenti banale del gabinetto.

Lei era una ex del Sacro Cuore e diceva volentieri parolacce quando si eccitava. C’era in questo modo di fare una venatura di insicurezza. Lui ci si divertiva quando andava a trovarla nella sua casa elegante. Una volta, a tarda notte, lei era sul gabinetto e lui cominciò a provocarla a voce alta:
“Fica davanti e fichi di dietro. La tua merda è il tuo vero profumo.
Poco dopo si sentì correre l’acqua. Lei spense la luce tornando a letto.
-Mettimi ancora le dita nel culo. Mettimele ancora nel culo, nel culo, nel culo, subito. Sono tutta sporca di merda”.
Lui non se lo fece ripetere e lei si inarcò per facilitargli il compito. Poco dopo la mano era di nuovo fra le labbra ed il naso di lei; che sognava su di essa e la respirava come se fosse una pipa d’oppio.
“Adesso mangiati questa merda, poi mettimi il cazzo nel culo. Me lo metterai nel culo. E dopo io te lo prenderò in bocca. Ma prima mettimelo nel culo. Rompimi il culo. Fottimi in culo, rompimelo. Tira fuori il cazzo. Fammi vedere il cazzo. Ora ti faccio un pompino” e via così, con le sue trasgressioncelle da educanda. Scatenata, era scatenata. Ma non che ci fossero molte variazioni sul tema.

Continuò per giorni a non pulirsi e a farlo fare a lui con le mani, con la lingua, con la faccia. Un odore di stalla aveva cominciato ad aleggiare nella casa, dove nessuno era invitato. Lei telefonò alla domestica peruviana dicendole di non venire e di non preoccuparsi, perché le sue ore sarebbero state comunque pagate. Andasse al mare, a divertirsi. Le dettò la spesa per il lunedì. Ventiquattro ore dopo i sessi di tutti e due avevano cominciato ad emanare un certo odore che un tempo li avrebbe spinti a lavarsi subito, ma che loro adesso spiavano col naso, eccitati all’idea che l’odore sarebbe stato sempre più forte.

Lei aveva coperto il materasso con un cellophane leggero e un vecchio lenzuolo, in modo da non avere la preoccupazione del materasso. E mentre giaceva sopra a lui, ormai inebriata dalle nuove sensazioni che promettevano di non finire tanto facilmente, lo agguantò per le spalle con le unghie e mentre lo teneva fermo inizio lei a mordergli un orecchio. Poi si irrigidì e rimase immobile. E di lì a poco gli urinò addosso, generando nel corpo del suo compagno un fremito che parve quasi tellurico. Una mano si impadronì della cascata di urina e della sua vulva, insieme. Lei si sentiva posseduta da sé stessa, dal suo genio, dalla sua personalità trasgressiva. Lui sguazzava in mezzo al piscio della compagna ormai privo di ragione. Due veri porci.

La mattina del lunedì l’ufficio di lui ricevette una telefonata che per un motivo urgente si sarebbe assentato a tempo indeterminato. Lei aveva già chiamato una collega per informare la società dove lavorava di provvedere ad una sostituzione temporanea, e al medico di scriverle il solito certificato delle emicranie. Quando la domestica peruviana suonò alla porta le andò ad aprire in vestaglia, le mise in mano dei soldi e la pregò di tornare a casa, avrebbe telefonato lei quando ne avrebbe avuto bisogno. “Tutte le giornate sono pagate, non preoccuparti”.

Tornò a letto e si gettò sul suo giocattolo profumato, dopo essere passata per il cesso. E riprese il gioco delle dita, dell’orifizio, delle narici, delle labbra. “Puzzi come una bestia. Anche tu. Anche io. Sono una bestia. Sono in calore. Leccami il buco del culo”.

Ventiquattro ore dopo si era cominciato a sentire un odore pungente di urina marcita. Prese il lenzuolo e lo mise in lavatrice. Ne mise uno pulito, che presto prese anche lui l’ombra dei loro corpi non lavati. Il lezzo di urina rimaneva fastidioso e anche il gioco con la merda, oltre certi limiti, non li divertiva più. Lo avevano provato, ma poi avevano concluso che non era una attività fra le più attraenti. Urinarsi addosso era una goduria, ma l’odore dell’urina marcita sul pavimento non si poteva definire gradevole. Ben altra vibrazione erotica suscitavano gli effluvi sempre più forti emessi dai loro organi sessuali, nel quale anche l’urina marcita aveva una sua ragion d’essere.

Avevano scoperto un nuovo modo di tenersi, per così dire, puliti. Lei gli succhiava il pene regolarmente e lui la penetrava in continuazione, questo impediva che si formasse, fra il prepuzio e il glande, il cosiddetto smegma, quella sostanza biancastra e odorosa che pare esistere appunto per dare alla femmina il segnale olfattivo che il maschio è in erezione. Qualcosa di simile avveniva a lei, che praticamente non smetteva mai di strofinare la vulva sul corpo di lui. La scoperta di un nuovo mondo di odori li aveva sorpresi come ragazzini che, per inesperienza e insaziabilità, non sanno apprezzare le cose che l’età matura invece pregia di più. La prima, saggia decisione fu l’eliminazione di tutti i saponi. Si tenevano quindi puliti l’uno con l’altra, solo lasciando talvolta un po’ d’ acqua asportare quello che c’era di troppo. Avevano adottato il sistema delle doppie mutande: a contatto con la pelle un modello antiquato di cotone a coste, assorbente, da non cambiare mai. Sopra una braghetta elastica chiusa, che aveva la funzione di trattenere gli odori.

Fu il mestruo ad interrompere il loro gioco e a segnalare loro la via da seguire. L’odore del sangue mestruale era, per antonomasia, sessualmente repellente. Inoltre lei aveva voglia, ugualmente tipica dell’arrivo del ciclo, di levarsi l’amante di torno e starsene un po’ da sola. Decisero di ritornare al lavoro e di ritrovarsi di lì ad una settimana, quando le sue voglie sarebbero di sicuro ritornate. Nulla era, per ambedue, moralmente più solido di questa sicurezza. A decisione presa lui, congedandosi, la guardò fisso negli occhi e le mise l‘ultimo dito nel culo. “Guai se ti lavi col sapone, maiala” “Guai a te se ti lavi, porco”. Si sciacquarono il viso e le mani, indossarono vestiti puliti e si baciarono sulla porta come se fossero in una scena di Via col vento.

Al suono del campanello, una settimana dopo, lei aprì le porta di strada con il citofono e socchiuse quella di casa. Aveva addosso una vecchia pelliccia e niente altro, riempita del forte odore della sua passera non lavata da giorni e che appena il campanello aveva suonato aveva cominciato a gocciolare. Aveva comprato dei grossi cuscini di un tessuto di nylon rosso, oggetti di arredamento cosiddetto high-tech, su ognuno dei quali si stava comodamente in due. Intorno, sul pavimento, c’erano ceste di frutta, scatole di biscotti, barattoli di marmellata, insomma tutto quello lui gradiva e che poteva tornare utile.

Lui entrò vestito come al solito, elegante. Andò a spogliarsi e tornò con indosso un caftano marocchino di una lana ruvida, aperto davanti, che ancora aveva l’odore dell’animale al quale era appartenuta, forse un cammello. Dal membro in erezione, che faceva capolino, saliva alle narici un odore del quale una volta si sarebbe vergognato. Si accoccolò vicino a lei e appoggiò la testa sulla coscia di lei, coperta dalla pelliccia. L’odore che ne usciva era duro come un pugno. “Puzzi da far paura, amore”. Rimasero tutti e due per un po’ a respirare, ad abituarsi. L’odore dei giorni passati persisteva nella casa elegante, ma la novità era ora nei loro nasi. Sembrava a loro che fosse finita la loro infanzia olfattiva, che forse un freudiano chiamerebbe, con una di quelle curiose perifrasi che possono lasciare seri solo quelli che ci credono, “lo stadio anale” del naso, fatto di bene e di male semplici e elementari: da un lato ciò che tutti consideravano buono, auspicabile, dall’altro un infinito bouquet di aromi che vengono comunemente rifiutati in toto, ma nei quali loro andavano scoprendo emozioni, gusti ed addirittura ragionamenti.

Ormai i profumi contenuti nei cosmetici non si addicevano più alla loro intimità. Le bottiglie di vetro spesso rimanevano inutilizzate sulla mensola del bagno. Avevano passato qualche settimana ad esercitarsi con le essenze elementari, quelle delle quali sono fatti tutti i profumi, anche quelli più costosi, e che si vendono a litri per quattro soldi. Presto si stancarono di quel gioco e si dedicarono ad altri odori. Prima erano passati alla vasellina pura, poi ad olii e grassi alimentari, infinitamente più ricchi di suggestioni. Fra gli olii di semi la scelta era vasta e primeggiava su tutti l’olio di sesamo, da usare mischiato ad altri meno forti. Ma la vera avventura erano i grassi animali. Il burro, di cinematografica memoria, era sempre presente vicino a loro. Alcuni formaggi avevano valenze interessanti. Avevano poi esperito lo strutto di maiale, il grasso avanzato delle bistecche, fino ad arrivare a rarità come il grasso di foca, lo spermaceti o l’olio di capodoglio, che lui si procurava in modi rocamboleschi e le presentava come un re mago, in contenitori preziosi e insoliti. Ma anche il semplice olio di fegato di merluzzo, che si trova in tutte le farmacie, mischiato ad altri umori, rivelava colori e profondità insospettate.

Un po’ per evitare l’uso di saponi o schiume, un po’ per intuizione, lui si era lasciato crescere la barba e adesso aveva l’aria di un fondamentalista afghano. Anche quella era stata fonte di interessanti sorprese. In generale, tutte le aree del corpo fornite di peli producono un loro odore particolare, determinato dalle diverse ghiandole che le abitano. Le secrezioni sebacee e sudoripare si potevano depositare sulla pelle delle mani, sulle dita che, imparando la tecnica di questa raccolta, una specie di massaggio, avevano fatto loro scoprire un nuovo universo sensibile alla base dei peli stessi. Al confronto della raffinatezza dell’odore di quello che lui chiamava “grasso di fica” il ricordo delle prime esperienze prendeva l’apparenza di una iniziazione. Ma i capelli, le sopracciglia, gli inguini e le ascelle avevano ora assunto significati ruoli distinti, come istituzioni di una società complessa. I radi peli che crescevano attorno ai capezzoli di lei erano un segnale preciso di un odore che, una volta scoperto, prendeva possesso di una porzione della memoria che sembrava pronta ad accogliere lui solo e nessun altro.

Le ascelle. L’estate era passata da un pezzo e tutti e due avevano i loro bei cespuglietti di peli, perfetti ricettacoli dei sudori che nel giro di un paio di giorni iniziavano a diffondere segnali precisi e irresistibili. Le ascelle erano l’antipasto, lo starter. Il sapore di una ascella non lavata fu una scoperta. Prendeva alla base della lingua e non scompariva, poi, tanto facilmente.

Il piacere dei movimenti lenti, che già conoscevano, prendeva in quelle circostanze un ritmo nuovo, quasi rituale. La pelliccia ed il caftano avevano ormai un’aura sacerdotale. Prima di fare l’amore facevano passare un tempo infinito. Quando lei muoveva le gambe, una ventata più forte usciva da sotto il bordo della pelliccia, e consigliava a lui l’immobilità. Il membro era spesso in erezione, e ad ogni folata diveniva durissimo, da far male. Ma con calma, con cura, poteva perdere la tensione e ritirarsi. Allora l’odore di lui si faceva un mo’ meno forte. I nasi ormai esperti dettavano loro un ritmo sconosciuto e solenne, nel quale parevano invertiti i criteri di attività e di riposo.

Presto impararono il diverso e più emozionante ritmo che l’apparire del panorama odoroso imponeva. Rimanere così, per ore, stesi sui loro cuscini, con quegli indumenti semiaperti e passare da un effluvio all’altro era cosa che richiedeva una attitudine contemplativa che il lavoro, la vita sociale e il concetto banale di atto sessuale non sospettavano. Ormai vivevano sempre più intensamente quei momenti di immobilità, di affetto reciproco. I capelli, le ascelle, il vasto torace di lui, i ciuffi inguinali, se lasciati a loro stessi, segnalavano la loro presenza con effluvi caratteristici, individuabili con una precisione che non avrebbero mai sospettato prima. Nell’oscurità il naso li guidava l’uno verso l’altro in modo infallibile. E lui sapeva arrivare a prendere in bocca le grandi labbra di lei arrivando su di esse nell’oscurità, silenzioso e senza toccarla prima, afferrandole come una pantera afferra con delicatezza il proprio piccolo. Il richiamo degli odori era diventato travolgente, totale, inevitabile. Il loro studio era dunque tutto nel controllarle la pulsione sessuale, ritardandola nel lago tranquillo della contemplazione reciproca. Era questo il tesoro che andava perduto con l’acqua dei bagni.

Alla televisione, che lui accese senza volume e scorse per un po’ con il telecomando apparivano notiziari, guerre, comici, danze, cantanti lirici e documentari d’archeologia. Ma fu quando apparve la colonia dei trichechi stesi l’uno sull’alto nel fango vicino all’acqua, che tutti e due furono folgorati dalla somiglianza con la loro situazione: Ecco cosa fanno tutto il tempo, gridò lei: si annusano! Il canale degli animali rimase aperto, sempre senz’ audio. Scimmie, pinguini, leoni, pesci… tutti guidati dall’odorato, tutti con apparati olfattivi frementi, attenti, più importanti di tutti gli altri organi, compresa la vista. A tutti essi si sentivano ora più vicini.

Le loro vacanze si svolgevano in località selvagge e poco frequentate. Avevano rinunciato a prenderle nei periodi di punta e calcolavano, calendario alla mano, il ritmo mestruale di lei, programmando settimane attorno al giorno presumibile dell’ovulazione, che lei avvertiva regolarmente, e decidendo in base ad esso il programma di viaggio.

Fu in una di queste vacanze, molto prolungata, ai tropici, che fecero un passo ulteriore: avevano affittato una villetta a Fernando de Noronha, un isola brasiliana al largo di Pernambuco. La casa era dotata di una propria spiaggia, in una situazione completamente solitaria. C’era una costruzione di legno che in passato era servita per il rimessaggio di barche e che ora era attrezzata con amache e una cucina. Lì passarono circa due mesi, senza lavarsi mai e vivendo per lo più nudi. Scoprirono che in quel tipo di vita quasi animale le soro secrezioni trovavano il giusto equilibrio, e non aveva più senso lavare la pelle naturalmente grassa.

Rimanevano, certo, odori repellenti: il sangue mestruale e quelli di putrefazione. Ma non avevano più quella carica di insopportabilità che di solito viene loro associata. Si sorpresero un giorno, in vacanza ad Atene, a passeggiare molto presto di mattina in un mercato generale, nella grandiosa galleria dei macellai. Entrando lui le raccontava di quando, ragazzo, aveva percorso in essa una decina di metri, per poi correre fuori con lo stomaco in disordine e sul punto di vomitare. Adesso invece la percorsero in lungo e in largo, osservando prima col naso e poi con gli occhi il formicolìo di vita e di morte che si svolgeva in essa. Al ritorno riprendeva, nella città fredda, il ritmo simmetrico degli incontri.

In ufficio, a lui ora bastava fiutare le colleghe mestruate e quelle in ovulazione, e sapeva a quale proporre di pranzare insieme per passare un’oretta piacevole. In fondo, pensava, anche prima il naso gli offriva quei segnali importantissimi, ma lui non sapeva riconoscerli e non ne teneva conto. Ora a colpo sicuro diceva, da dietro la sua barba imponente, la battuta giusta alla donna giusta al momento giusto. E tutte le colleghe, le amiche, lo consideravano “loro”. Le conoscenti occasionali conservavano di lui, del suo nome e di quello che aveva detto un ricordo nitido, come se si fosse trattato di un vecchio amico. Bastava che lui dicesse il suo numero di telefono perché esso venisse ricordato senza annotarlo e fatto regolarmente poche ore dopo.

Lei guardava il carosello dei maschi che si era fatto insistente. Si sentiva sicura di sé, con quegli assorbenti che si ingiallivano subito e che lei fiutava con voluttà prima di gettarli. Sapeva che il suo sesso mandava un odore che nessuno di quegli imbecilli sarebbe stato capace di sopportare e, più li trattava con sussiego, più essi le facevano la corte, studiando il modo ti avvicinarsi. Mai aveva ricevuto tanti sorrisi, suscitato tanto interesse. Chanel n. 5 ora serviva a coprire la cruda realtà e mai come adesso ne aveva fatto uso. Pure, qualcosa trapelava. Portava vestiti castigati e camicette chiuse, per impedire ai suoi effluvi naturali di raggiungere narici che, comunque, sapeva poco esercitate. Nondimeno in certe situazioni, come ad esempio in treno, avvertiva che si mettevano in moto nei maschi adulti presenti ebollizioni ormonali delle quali solo lei conosceva la causa e temeva gli effetti. Perché vedeva in che stato esse erano capaci di ridurre il suo compagno di notti. Ragionevolmente temeva che tutto quel nervosismo che non poteva ormai evitare di notare attorno a lei poteva producesse, in qualche individuo particolarmente focoso e volitivo, comportamenti incontrollabili, o magari violenti. Ma ciò non succedeva. Era diventata quel tipo di donna che fa girar la testa a tutti, sia nel senso degli sguardi dardeggianti di coloro che avevano avuto la ventura di percepire la sua aura, che lei si divertiva a sorprendere con bruschi cambi di direzione, o girandosi all’improvviso come se si fosse dimenticata qualcosa; sia nel senso di veri e propri capogiri e svenimenti prodotti da tempeste ormonali, come successe una volta ad un povero prete che doveva istruirla nella sua funzione di testimone al matrimonio di una sua amica, e che invece cadde disteso in terra e riuscì a riprendersi solo quando lei si allontanò, portando lontano i suoi spiriti sulfurei. Di tutto questo solo lei conosceva la causa; chiunque altro non avrebbe saputo nemmeno mettervi un nome. O forse avrebbe usato la parola banale, che significa tutto e non vuol dir nulla: “amore”.

Una sera, quando lui iniziò a risalire con la mano la curva delle gambe, lei si dispose prona, offrendogli le natiche. L’odore del culo non lavato era un richiamo ormai conosciuto, familiare, affettuoso. Avvicinandosi, sentì il liquido amoroso di lei, fertile in quel momento, bagnargli le mani. L’ovulazione era sul punto di avvenire. L’odore fra loro era irresistibile. Lentamente, come un coccodrillo, le strisciò sulla schiena e iniziò a possederla, mentre lei strisciava a sua volta sui cuscinoni per offrirgli la vulva come un fiore. Durò molto a lungo, in una sequela di orgasmi che la portarono ad un parossismo tale che fu lei, sazia, soddisfatta, esaudita, a pregarlo di mettervi fine. Si sfilò da sotto, gli prese in mano il membro e ne tolse, con il preservativo, l’ ultimo odore estraneo rimasto in mezzo a loro.

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