ASTA
Mi avvicinai con cautela.
Era la prima volta che andavo in un posto del genere.
Cioè, ne conoscevo lâesistenza, avevo anche visto dei programmi in televisione, certo, ma non avevo mai voluto averci niente a che fare.
Non era nel mio stile, non era compatibile con la mia cultura, la mia etica, i miei valori.
Insomma, era la prima volta che andavo ad unâasta di schiavi.
ChissĂ cosa mi aspettavo, ma alla fine mi trovai allâingresso di un edificio anonimo, grigio, con una porta a vetri scuri.
Un citofono, con la targhetta âauctionsâ, aste.
Mi fermai, esitando, senza schiacciare il pulsante.
Allâimprovviso qualcuno si avvicinò da dietro, mi disse âscusiâ, schiacciò il pulsante e guardò fisso nella telecamera.
Dopo un secondo, con un âclackâ la porta si aprĂŹ.
La persona che aveva suonato aprĂŹ la porta, entrò e si girò verso di me, tenendo la porta aperta â entra? â mi chiese
Io rimasi fermo un momento, poi sorrisi e mossi un passo, entrando â sĂŹ, grazie. Molto gentile â
Mentre la porta si chiudeva dietro di me, mi guardai attorno.
Un ingresso ampio, illuminato da lampade sul soffitto alto.
In terra pietre chiare, lucide, e su un lato un bancone con dietro tre o quattro persone vestite con una specie di divisa.
Mi avvicinai, e sorrisi.
â posso aiutarla? â mi chiese cortese una signora sui cinquanta, con una giacca blu scuro, una camicetta bianca e un foulard al collo, la stessa divisa che indossavano le tre persone accanto a lei dietro al bancone.
Sul taschino della giacca, il simbolo del Ministero.
â sĂŹ, grazieâ. Eccoâ non so bene doveâ â
â è la prima volta? â mi chiese lei, senza alzare gli occhi dallo schermo del computer
â sĂŹ, infatti â
â si è giĂ registrato on line, giusto? â
â sĂŹ, e ho stampato il passâ â dissi tirando fuori dalla tasca il documento che avevo stampato a casa dopo aver completato la procedura di registrazione
â mi faccia vedereâ â disse lei, e prese il mio pass, scannerizzando il codice a barre stampato sul pass, su cui non compariva nĂŠ il mio nome nĂŠ altri dati.
â sĂŹâ â disse lei, leggendo qualcosa sullo schermo â sĂŹâ è tutto a postoâ ha accettato le condizioni di astaâ il Ministero le ha conferito il diritto di acquistare e possedere un numero di schiavi non superiore a cinqueâ non ha ancora lâautorizzazione a rivenderli privatamenteâ quindi se volesse rivenderli lo sa, no? Deve riportali qui da noi â
â sĂŹâ â sussurrai imbarazzato, arrossendo, temendo che qualcuno ascoltasse la nostra conversazione â sĂŹ ma tantoâ cioèâ â
â qui câè lâelenco delle aste di oggi â mi interruppe lei, consegnandomi una specie di rivista â di lĂ â indicò una porta â câè la sala delle aste, mentre al piano di sopra câè il bar â aggiunse indicando una scala
â se comprasse qualcosa â âqualcunoâ, stavo per correggerla, ma mi morsi la lingua in tempo â â le consegneranno dei documentiâ li porti qui, da me o da una mia collega subito dopo aver firmato, e procederemo alle formalitĂ â mi raccomando, venga subito dopo ogni acquisto, che se aspetta la fine delle aste si trova davanti una coda e noi alle sei chiudiamo, e se non ha fatto in tempo deve tornare domani â
â no no, certoâ grazie â dissi, e mi allontanai
Guardai la porta scura, che dava alla sala delle aste.
Mentre parlavo con la signora, la sala si era affollata: almeno trenta o quaranta persone erano entrate alla spicciolata, molti formavano dei piccoli gruppi e chiacchieravano tranquilli.
Sembravano tutti normali uomini dâaffari.
Non câera nessun pazzo, violento, tatuato e selvaggio, con la bava alla bocca o con lo sguardo assassino, come normalmente venivano dipinti coloro che partecipavano alle aste di schiavi dai media progressisti e dagli attivisti dei diritti civili.
Ciononostante, tenni la testa bassa, cercando di non essere notato da nessuno.
Salii le scale e arrivai al bar, ordinai un caffè americano, trovai un tavolino e mi sedetti dando le spalle alla sala.
Finalmente mi rilassai, e presi in mano il giornaletto che mi aveva dato la signora alla reception.
Era grande piĂš o meno come una rivista, con la copertina spessa.
In alto, dopo il simbolo del Ministero, una scritta in caratteri giallo oro riportava la data di oggi e âAsta di schiavi e schiaveâ, su sfondo nero, senza nessuna foto.
Appena aperto il catalogo, la prima pagina riportava, scritto fitto e in caratteri molto piccoli, tutto il testo di quella che ormai era conosciuta come la âLegge Schiaviâ, che aveva reintrodotto alcuni anni prima la schiavitĂš nel paese.
In poche parole, chi non riusciva a mantenersi, o aveva debiti troppi ingenti, poteva essere venduto come schiavo: con le somme pagate per lâacquisto dello schiavo, il Ministero pagava i debiti dello schiavo.
Dopo le prima proteste, la maggior parte della popolazione si era convinta che il sistema aveva molti lati positivi.
Gli schiavi, invece di finire in galera venivano venduti, e chi li comprava si faceva carico delle spese del loro mantenimento.
Col tempo, addirittura, alcune persone decisero di âvendersiâ di propria volontĂ , magari per un periodo di tempo limitato a qualche anno, mettendo da parte i soldi incassati con la vendita, per iniziare una nuova vita dopo la fine del periodo di schiavitĂš.
E la legge era anche molto precisa nel definire diritti e doveri sia dello schiavo, sia del âtitolareâ: in poche parole, lo schiavo è tenuto a obbedire a tutti gli ordini del titolare, che a sua volta è obbligato a mantenere in salute lo schiavo.
Il titolare può anche punire lo schiavo che non ubbidisce, ma anche in questo caso ci sono limiti precisi, cioè senza che la punizione causi traumi o conseguenze irrimediabili, o metta a rischio la vita o la salute dello schiavo.
Scorsi molto velocemente il testo della legge, che avevo giĂ letto e riletto molte volte, nelle scorse settimane, preparandomi a questa giornata.
Avevo anche studiato decine di articoli di giornale, e insomma ero praticamente diventato un esperto sulla Legge Schiavi, la sua applicazione e le sue criticitĂ .
Quindi girai pagina.
Nelle pagine successive, ogni pagina aveva due foto.
Le foto ritraevano a figura intera una persona, uomo o donna, di fronte.
Nella prima foto la persona era vestita con una specie di tuta grigia, e nella seconda era in mutande (o mutande e reggiseno per le donne) sempre grigie.
Sotto ogni foto, una breve descrizione:
â Nome:
â Cognome:
â Data di nascita:
â Altezza:
â Peso:
â Misure di fianchi, torace, spalle:
â Studi (eventuali):
â Professioni precedenti (eventuali):
â Precedenti proprietari (eventuali):
â Motivo di riduzione in schiavitĂš (se piĂš di un motivo, specificare i diversi motivi):
â Prezzo base dâasta:
Mi trovai a sfogliare le pagine una dopo lâaltra.
Câerano piĂš uomini che donne, circa due uomini per ogni donna.
LâetĂ media era intorno ai trentâanni, la formazione culturale di solito medio bassa, i precedenti lavori erano spesso lavori di basso profilo in fabbriche o aziende che avevano chiuso.
Il motivo di riduzione in schiavitĂš era quasi sempre debiti, tranne due o tre giovani maschi che si erano messi volontariamente in vendita per un periodo di tre o cinque anni.
Sfogliavo le pagine, quasi ipnotizzato dalle fotografie, e mi concentravo non tanto sui corpi ma sui volti, sugli occhi, che erano fissi, privi di goni espressione, come se fossero delle statue, o dei manichini: probabilmente, pensai, gli dicono di fare cosĂŹ.
E poi girai una pagina ed eccola lĂŹ.
Era lei.
Mi sentii in imbarazzo a guardare le foto, soprattutto quella in intimo, e quindi mi concentrai sui dati.
â Nome: Francesca
â Cognome: â
â Data di nascita: â
â Altezza: 172cm
â Peso: 53 kg
â Misure di fianchi, torace, spalle: â
â Studi (eventuali): laurea in architettura, master in design di interni
â Professioni precedenti (eventuali): titolare dello studio di architettura XXX
â Precedenti proprietari (eventuali): nessuno
â Motivo di riduzione in schiavitĂš (se piĂš di un motivo, specificare i diversi motivi): bancarotta
â Prezzo base dâasta: 52.000,00.
Era davvero lei, il nome, il cognome, gli studi, il suo studio di design, anche altezza e peso erano quelli.
E anche la bancarotta, di cui avevo letto per caso mesi fa in un trafiletto in una rivista abbandonata su una panchina in stazione, dove si diceva che per Francesca câera il rischio dellâapplicazione della Legge Schiavi.
Da allora su internet avevo seguito passo passo la vicenda di Francesca.
I tentativi infruttuosi di trovare i soldi, le false speranze, il processo, lâavvocato che abbandona la difesa perchĂŠ Francesca non era piĂš in gradi di pagare le parcelle, lâavvocato dâufficio che combina un disastro dopo lâaltro, fino alla condanna alla schiavitĂš per 10 anni.
Era stato allora che avevo per la prima volta pensato davvero di farlo.
PerchĂŠ a me Francesca era rimasta dentro.
Da quando tre anni prima avevamo avuto una breve relazione che si era limitata a una scopata di una sera, quando avevamo bevuto un poâ troppo e di cui non ricordavo praticamente nulla, e poi due o tre giorni di (mio) corteggiamento e (suo) distacco, fino a che non mi disse che non mi considerava âal suo livelloâ nĂŠ dal punto di vista economico nĂŠ da quello sociale, tagliandomi fuori dalla sua vita.
Mi era rimasta dentro, non ero riuscito a dimenticarla.
Mi ero innamorato? Bho, forse in un certo modo allâinizio sĂŹ, ma col tempo lâinnamoramento si era fuso con il risentimento per come mi aveva trattato e il desiderio fisico, che si era fatto sempre piĂš forte, e un desiderio di rivalsa e vendetta che pian pianoaveva inglobato tutto.
E quando avevo letto della sentenza di condanna alla schiavitĂš, per una settimana non avevo dormito la notte.
Mi ero girato e rigirato nel letto, avevo letto tutto quello che potevo su internet, e alla fine avevo deciso.
Avevi deciso che sarei venuto qui, oggi, e poiâ e poi niente, non ero nemmeno riuscito a immaginare cosa avrei fatto quando fosse iniziata lâasta.
Chiusi il catalogo, mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi.
In quel momento suonò un campanella e una voce registrata disse âsi avvisano gli interessati che lâasta avrĂ inizio tra cinque minutiâ.
Intorno a me sentii diverse sedie muoversi, e aprii gli occhi in tempo per vedere che tutti quelli che erano al bar, seduti o in piedi, finivano di bere quello che avevano davanti e si portavano alle scale.
Mi alzai senza rendermene conto e li seguii.
Avevo un nodo allo stomaco.
Prima della porta scura câera una fila, in attesa che un addetto controllasse i pass e facesse entrare.
Mentre aspettavo il mio turno, un uomo mi prese per il braccio âcumpĂ â mi disse, con marcato accento meridionale âè la prima volta che stai qua?â
â sĂŹ â risposi
â le conosci le regole, sĂŹ? â
â sĂŹ, grazie, ho studiato eâ â
â no, non quelle regole lĂŹâle regole nostre â mi disse sottovoce, e fece un piccolo gesto circolare, indicandomi le persone in fila.
Alcune di loro si girarono appena, e fecero un piccolo cenno di assenso, come dire âsappiamo cosa vi state dicendoâ.
â allora no. Che regole sono? â chiesi io, sottovoce
â cumpĂ â mi disse lâuomo, sempre a bassa voce â qua siamo tutta gente che fa questo di mestiere, e normalmente cerchiamo di non farci del male a vicendaâ â
Posso avere molti difetti, ma sono certamente intelligente e sveglio.
Capii subito cosa il mio amico mi stava dicendo: prima delle aste, gli operatori si confrontavano e decidevano chi avrebbe comprato cosa, in modo da non spendere troppo: quando câerano uno o piĂš soggetti interessati, si trovava lâaccordo: oggi lo prendo io, alla prossima volta sarai tu a vincere.
Quindi annuii, per fargli capire che avevo capito.
â ebbravo lâamico mio â mi sorrise â ci siamo capitiâ moâ, cumpĂ , a cosa stai interessato? â
â questo â dissi, mostrandogli la pagina con Francesca
â mmmmh â rispose lui â interessante, ma oggi câè di meglioâ gente piĂš forte, piĂš giovane, che possono lavorare molto e bene â aggiunse, sfogliando il catalogo
â no âlo interruppi subito â non mi interessa nientâaltro â
â vabbuòâ non costa nemmeno troppoâ 52.000Ⲡa quanto potresti arrivare? â
â ma ioâ diciamoâ avrei fino a centoâ â
â allora facciamo accussĂŹ cumpĂ : tu la compri a sessantamila, e poi metti quindicimila qua fuori per me e gli amici mieiâ cosĂŹ a settantacinque stai tranquilloâ però non rompi il cazzo in nessuna altra offertaâ te ne stai buono buono fino al momento tuâ vabbuò? â
Io annuii.
Lui si allontanò, disse qualche parola a cinque o sei persone in fila, e tutti mi guardarono e annuirono.
Ecco, mi resi conto, adesso non posso nemmeno piĂš tirarmi indietro, o andarmene.
Adesso devo andare fino in fondo.
Arrivò il mio turno, il mio pass superò il controllo ed entrai.
La sala era come un piccolo teatro, una ventina di file di poltroncine imbottite, un piccolo palco con una specie di podio.
Mi sedetti in una poltroncina verso il fondo, e presi in mano la paletta che era appoggiata sulla poltrona, con il numero di posto.
La sala era piena per due terzi, quando entrò il banditore, un giovane in giacca e cravatta.
Lâasta iniziò subito.
Non so cosa mi aspettassi, schiavi incatenati trascinati sul palco mentre si ribellano e urlano, commenti volgari, pianti e grida disperate, probabilmente.
Ma non successe nulla di tutto ciò.
Semplicemente, sullo schermo dietro al banditore vennero proiettate le immagini del catalogo, e il banditore gestĂŹ le offerte.
Finchè arrivò il momento.
â Lotto numero 25 â lesse il banditore, elencando i dati che erano sul catalogo â base dâasta cinquantaduemilaâ câè qualche offerta? â
Silenzio.
â qualche offerta? â ripetè il banditore
Ero bloccato.
Stringevo in mano la paletta, ma non riuscivo a muovermi.
â cinquantacinque â disse il bandire, indicando il mio amico di prima in fila, che aveva alzato la paletta e mi guardava
â sessanta â disse il banditore, indicando me.
Avevo alzato la paletta, senza nemmeno accorgermene.
â qualche offerta? Qualcuno offre sessanta cinque? â
Silenzio
â Sessanta e unoâsessanta e dueâ sessanta e tre! Aggiudicato il lotto 25 per sessantamila! Passiamo ora al lotto ventiseiâ â
La testa mi girava.
Non feci nemmeno in tempo a calmarmi che venni raggiunto da una ragazza in tailleur che mi fece alzare e seguirla.
Come un automa la seguii, a un piccolo banco firmai un mucchio di carte senza nemmeno rendermi conto di cosa facessi, firmai lâassegno da sessantamila, strinsi la mano che lei mi porgeva, misi via le mie copie dei documenti e uscii.
Sulla porta mi avvicinò il mio amico.
MI trascinò al bar, dove senza pensare nÊ parlare firmai un altro assegno per quindicimila, strinsi anche la sua mano e lo guardai tornare dentro.
Poi mi avvicinai alla signora alla reception, quella seduta dietro il banco.
â dia a me â mi disse prendendo i documenti
InserĂŹ diversi dati nel computer, mi fece firmare altri documenti e alla fine mi sorrise
â complimenti. Quando vuole ritirarla? â
â cosaâ ioâ â
â quando vuole ritirare la sua schiava? Adesso? O vuole che gliela teniamo noi fino a domani? Le costa duecento, ma può venire con comodo, domani, allâora che ci dirĂ â â
â domaniâ domaniâ grazie â risposi â alleâ alleâ Dieci. Dieci. Del mattinoâ â
â benissimo â disse lei, allungandomi lâennesimo pezzo di carta â mi raccomando, porti questo domani per il ritiro, e per cortesia cerchi di non arrivare tardi â
â noâ saròâ puntuale. A domani â
Alle nove e mezza mi trovai giĂ davanti alla porta.
La sera e la notte erano passate in un lampo, tra dubbi, decisioni improvvise (ânon ci vadoâ), ripensamenti (âe poi cosa dico a chi mi conosceâ) e momenti di fredda luciditĂ (âcazzo, settantacinquemilaâ).
Suonai, mi aprirono.
Non câera la signora di ieri.
Unâaltra signora, appena piĂš giovane, meno gentile.
â venga â mi dice, e la seguo a un ascensore che ieri non avevo notato, e scendiamo al piano interrato.
LĂŹ ci accoglie una specie di guardia, in divisa, anfibi, cinturone con manette e altre cose che non riesco a capire bene a cosa servano.
La signora consegnò i documenti alla guardia e mi salutò, tornando nellâascensore.
â lotto 25 â disse la guardia leggendo i documenti
â lo ritira adesso? â
â sĂŹ â risposi, sperando che la mia voce non tremi troppo
â è in macchina? â
â sĂŹâ ce lâho qui fuoriâ â
â allora esca da qui â mi indicò una porta â ed entri dal portone dietro lâingresso â
La guardia mi aprĂŹ un portone, ed entrai con la macchina in una specie di deposito.
â ecco qui â disse la guardia, spingendo un carrello su cui câerano quattro scatoloni di cartone
â cosâè? â
â le cose che il tribunale ha lasciato al lotto numero 25â â rispose la guardia, guardando in una cartelletta â vestitiâ scarpeâ articoli da bagnoâ â
â va bene va bene â taglia corto, caricando gli scatoloni nel bagagliaio
â la vuole con o senza cappuccio? Manette? â mi chiese la guardia
â scusi? â
â la schiavaâ â spiegò la guardia â vedo che ha una macchina normaleâ a volte gli schiavi hanno delle reazioni improvvise, cercano di scappare, o di aggredire il titolareâ quindi in questi casi consigliamo di tenere gli schiavi con un cappuccio nero intesta fino alla destinazione, e magari le manetteâ â
â sĂŹ sĂŹ â risposi â manette e cappuccio, certoâ â
â e qui â disse la guardia, porgendomi una scatola con sopra il simbolo del ministero in rilievo â câè il collare, con il telecomando e tutto il restoâ firmi quiâ grazieâ sa usarlo, vero? â
â sĂŹâ per avere il pass per lâasta ho dovuto superare lâesame online del ministeroâ â
â beneâ mi raccomando, metta il collare appena arrivate a destinazione, prima di togliere le manette e il cappuccio, non si sa maiâ â
â certo, grazie â
â bene, vado a prenderla â disse, e si allontanò per un corridoio
Io rimasi lĂŹ.
Fermo, in piedi, accanto alla mia macchina.
Il tempo sembrava non passare mai.
Poi finalmente dei rumori di passi.
La guardia uscĂŹ dal corridoio, accompagnando una figura infagottata nella tuta grigia che avevo visto nel catalogo.
La guardia stringeva il braccio della figura, che camminava lentamente perchĂŠ le caviglie erano legate tra loro con una corta catena, e le scarpe grigie senza lacci rendevano difficile camminare normalmente.
Le mani erano dietro la schiena, ammanettate, e uno spesso cappuccio nero copriva la testa e cadeva fino oltre le spalle della figura.
â eccola â mi disse la guardia â la metto dentro io? â
Io annuii, non volendo che lei sentisse la mia voce.
â vieni â disse la guardia, e la accompagnò facendola sedere sul sedile di dietro â ha bloccato le portiere? â mi chiese poi
io annuii di nuovo, e lui chiuse la portiera della macchina
â unâultima firmaâ â mi disse, porgendomi la cartellina di plastica che aveva in mano
Firmai.
Mi diede una copia del documento
Mi strinse la mano.
â arrivederci, buona giornata â
Io salii in macchina, acceso il motore e lentamente imboccai la rampa dâuscita.
Entrai nel traffico, abbagliato dal sole.
Erano le undici, avevo passato lĂ dentro quasi unâora e mezza.
Mi fermai a un semaforo rosso.
Guardai nello specchietto.
Vidi la figura coperta dal cappuccio nero.
La mia schiava, pensai.
Scattò il verde, misi la prima e partii.
Arrivammo a casa in pochi minuti, o almeno cosÏ mi sembrò.
Francesca rimase zitta e ferma per tutto il tragitto.
Ogni tanto alzavo gli occhi sullo specchietto e la guardavo, ma sotto il cappuccio nero non si muoveva nulla.
Solo, quando câera qualche curva un poâ brusca, si piegava appena di lato, per non cadere.
Avrei voluto dire qualcosa, ma non avevo idea di cosa, quindi accesi la radio, alzando la musica.
Ma la spensi subito, sentendomi in imbarazzo.
Poi mi dissi che ero stupido a sentirmi in imbarazzo, feci per accendere di nuovo la radio, mi vergognai e lasciai perdere.
Abito in una piccola villetta in una zona tranquilla, di periferia.
Ho spesso pensato di trasferirmi, magari in un appartamento in una zona centrale o piĂš elegante, piĂš comoda, ma alla fine sono un poâ pigro e affezionato alle mie cose, e ho sempre rimandato.
Ecco, quel giorno ero davvero contento â anzi no, sollevato â di non dover condividere il luogo in cui vivo con vicini o condomini.
Appena arrivammo aprii il cancello con il telecomando, poi il garage, entrai e spensi la macchina.
Rimasi fermo, e nel silenzio si sentiva solo il ticchettio del motore che si raffreddava.
Alzai gli occhi e nello specchietto vidi Francesca, sempre ferma, immobile.
Finalmente aprii lo sportello e scesi.
Feci un respiro profondo.
Mi allungai sul sedile del passeggero e presi la scatola del collare, la appoggiai sul cofano e la aprii.
Buttai unâocchiata dentro la macchina: Francesca era sempre immobile, ma proprio la sua rigida immobilitĂ tradiva una grande tensione; immaginai che stesse ascoltando e cercando di intrepretare ogni rumore che sentiva.
Aprii la scatola del collare.
Sapevo cosa avrei trovato: per poter accedere allâasta è necessario superare un corso on line su diversi aspetti della gestione degli schiavi, e uno dei principali argomenti riguarda proprio il collare.
Ciononostante, era la prima volta che ne prendevo uno in mano, e lo tirai fuori dal piccolo sacchetto di plastica che lo conteneva con una certa apprensione.
Prima di tutto, era piĂš leggero di quanto pensassi.
Scuro, grigio scuro piĂš che nero.
Alto circa due centimetri, molto sottile, piuttosto rigido.
Il sistema di chiusura, con il punto in cui le due estremitĂ si fissano.
Tre piccoli anelli sul lato esterno, sempre nello stesso materiale scuro.
E poi il controller, come lo chiamano sul sito del Ministero.
Nero, uno schermo touch tipo quello di uno smartphone, una rotellina graduata su un lato, tre lucine.
Presi il collare e il controller.
Mi avvicinai alla portiera della macchina e la aprii.
Francesca si irrigidĂŹ, alzando istintivamente le mani, ammanettate, sul petto, in un gesto di autodifesa.
Io rimasi in silenzio, mi abbassai ed entrai in auto, inginocchiandomi sul sedile, accanto a lei.
Rimasi in silenzio: ero talmente teso e nervoso che anche volendo non sarei riuscito a dire una sola parola.
Lei respirava intensamente, ora, lo vedevo dal movimento delle sue spalle.
Nella mano destra tenevo il collare.
Con la sinistra, lentamente, presi il cappuccio nero dietro il suo collo e lo sollevai, piano piano.
Lei si irrigidĂŹ, ma rimase ferma e zitta.
Alzai ancora il cappuccio, appoggiandolo sulla sua nuca.
Ora Francesca aveva il cappuccio che le copriva il volto e le ricadeva sul petto, mentre le spalle e la parte posteriore del suo collo erano scoperte.
Lentamente, con la destra alzai il collare, appoggiandolo dietro, sul suo collo.
Francesca fece per alzare la testa, ma le appoggiai la mia mano la sinistra sulla testa e feci una piccola pressione, e lei abbassò di nuovo la testa.
Nessuno aveva detto nulla, nĂŠ emesso un suono.
Il suo respiro era adesso affannoso, rapido.
Il mio cuore batteva cosĂŹ forte che dovetti chiudere e aprire piĂš volte gli occhi, per schiarirmi la vista, e impormi di calmarmi.
Presi le due estremitĂ del collare, e le portai dietro il suo collo.
Infilai la parte piĂš sottile nella piccola asola, come avevo visto nei video esplicativi del Ministero.
Una minuscola lucina rossa si accese proprio sopra il punto in cui le due estremitĂ si infilavano una nellâaltra, e il collare emise un piccolo suono, una specie di âbipâ.
Il telecomando, che avevo appoggiato sul sedile, emise un altro âbipâ e si accese.
Lo schermo mi chiese di inserire il codice a dieci cifre che avevo indicato al momento dellâiscrizione nel sistema del Ministero.
Poi lo schermo mi chiese se volessi inzializzare il sistema e chiudere il collare.
Con il dito tremante, schiacciai âsĂŹâ.
Lo schermo mi chiese nuovamente se volessi chiudere il collare, avvisandomi che il processo sarebbe stato irreversibile.
Sapevo perchĂŠ.
Avevo studiato.
Il collare, per quanto sembrasse piccolo e semplice, era dotato di una tecnologia molto sofisticata.
Prima di tutto, conteneva una batteria con dieci anni di durata, senza necessitĂ di alcuna ricarica.
Era dotato di segnalatore satellitare, che indicava la posizione anche se il collare (o meglio, colui che lo indossava) si trovava a trenta metri sottoterra o cinquanta sottâacqua.
Era indistruttibile: nel file del Ministero câerano filmati nei quali si provava a rompere un collare con una sega elettrica, un saldatore, un fucile, una pressa industriale e addirittura una piccola carica esplosiva: ebbene, il collare non solo non si rompeva, ma continuava a funzionare.
Il collare inoltre si chiudeva automaticamente, trovando la giusta tensione sul collo dello schiavo, e non poteva piĂš essere aperto, nemmeno dal Titolare: questo per evitare che uno schiavo trovasse il modo per obbligare il Titolare a togliergli il collare.
Lâunico modo per togliere un collare era portare lo schiavo direttamente al Ministero.
Il collare inoltre era in grado di emettere delle cosiddette âscaricheâ.
Non erano però delle semplici scariche elettriche: il collare infatti, con dei microsensori, entrava in contatto diretto con i nervi del collo del soggetto, e attraverso questi accedeva praticamente allâintero sistema nervoso dello schiavo.
I pulsanti sul controller facevano emettere tre differenti tipi di scariche: âblockâ, che bloccava lo schiavo impedendogli qualsiasi movimento, tranne la respirazione e il funzionamento degli altri muscoli involontari; âsleepâ, che faceva cadere lo schiavo in una leggera forma di incoscienza; e âbreakâ, che trasmetteva allo schiavo come delle âonde di doloreâ.
Alla funzione âbreakâ era collegata la rotellina sul fianco del controller: girando la rotellina, si potevano controllare lâintensitĂ del dolore e la frequenza delle âondeâ.
Insomma, con il collare un Titolare aveva lâassoluto controllo su uno schiavo.
Tenevo in mano il controller, che mi chiedeva se fossi davvero sicuro di attivare il collare.
Francesca era ferma, rigida e tesa.
Agli schiavi veniva fatto una breve lezione, prima di essere messi allâasta, sul collare e sul suo funzionamento: a grandi linee, anche lei sapeva cosa stava per succedere.
Mi presi ancora qualche secondo, poi schiacciai âsĂŹâ.
Non successe nulla.
Ecco, pensai, ho sbagliato qualcosa, o câè un errore, lei non è una schiava, hanno scoperto che non doveva essere processata, lo sapevo io, adesso cosa faccio, non mi ha ancora visto, pensai, adesso la riporto indiet
bzzzzzzz
una leggera vibrazione uscĂŹ dal collare.
Lentamente, il collare iniziò automaticamente a stringersi attorno al collo di Francesca.
Istintivamente, lei portò le mani al collo, ma era troppo tardi.
Il collare si era stretto e chiuso, con un ultimo, morbido âclickâ.
Francesca si portò le mani al collo, provò a infilare le dita ma il collare era stretto abbastanza da non permetterle di infilarci piÚ della punta di un dito.
Io allungai la mano, presi uno degli anelli del collare e lentamente tirai.
Francesca fece una parvenza di resistenza, ma poi si mosse.
Lentamente la guidai fuori dalla macchina sempre con indosso il cappuccio nero; la feci mettere in piedi e, sempre tenendo in mano lâanello del collare, le feci salire le scale che dal garage arrivano direttamente nel mio soggiorno.
Con una leggera pressione sul collare la feci sedere a terra.
La stanza era spoglia.
Avevo portato tutto lâarredamento nelle altre stanze.
Câera solo una sedia, e nel mezzo della stanza, fissato a terra, una specie di piccolo cerchio in acciaio.
Anche in questo caso, internet era stato dâaiuto.
Câerano molti siti dedicati alla gestione degli schiavi (le prime volte che avevo letto il termine âaddestramentoâ, come se si trattasse di animali, mi ero scandalizzato).
Molti sedicenti âespertiâ spiegavano che i primi momenti, le prime ore e anche i primi giorni, erano i piĂš delicati, quelli nei quali lo schiavo tende sempre a ribellarsi, anche in modo violento.
Câerano diverse teorie su quale fosse lâapproccio migliore per questo periodo.
Quella che mi convinse di piĂš prevedeva che appena portato in casa, lo schiavo venisse messo nellâimpossibilitĂ di nuocere al suo Titolare (in realtĂ , nei siti non gli utenti non si facevano problemi a usare il termine âpadroneâ).
Per fare questo, il sito suggeriva di liberare completamente una stanza, fissare a terra, al soffitto e alle pareti dei tasselli (âalmeno del 40â˛, spiegavano: io, che non ero certo un esperto di bricolage, dovetti imparare tutto sui tasselli e la loro collocazioneâ) ai quali fissare poi degli anelli dâacciaio.
E io avevo fatto proprio cosĂŹ.
Fissato nel pavimento al centro della stanza câera un anello dâacciaio.
E anche al soffitto.
E anche nel centro delle pareti.
Francesca era seduta a terra quasi accanto allâanello nel pavimento, ma non lo sapeva perchĂŠ indossava ancora il cappuccio.
Io raccolsi una cosa da terra.
Era una specie di corda, o cavo, sottile e flessibile, di un materiale molto simile a quello del collare (o almeno cosĂŹ diceva la ditta che lo vendeva su internet).
Alle due stremitĂ câerano due lucchetti.
Fissai il primo lucchetto allâanello a terra.
Poi mi avvicinai a Francesca, sollevai appena il cappuccio e, mentre lei si irrigidiva di nuovo e muoveva la testa per cercare di vedere o sentire qualcosa, in un attimo fissai lâaltro lucchetto allâanello del suo collare.
Poi mi alzai, e lentamente mi sdetti sulla sedia.
La sedia era a esattamente tre metri dallâanello nel pavimento: la lunghezza del cavo era di due metri e Francesca, anche allungando le mani o i piedi, non sarebbe riuscita a toccarmi.
Anche questa era una tecnica spiegata nel dettaglio sui siti che avevo consultato.
Mi fermai.
Mi guardai attorno.
Il mio soggiorno, vuoto.
Gli anelli dâacciaio sul soffitto, sulle pareti.
Le finestre chiuse, le persiane abbassate.
La mia sedia.
Francesca, seduta a terra, con la tuta del carcere, le scarpe senza lacci, le manette e il cappuccio.
âVoglio davvero farlo?â mi domandai.
âSei ancora in tempo per fermare tuttoâ, mi dissi per lâultima volta âtutto questo è contrario ai tuoi principi, alla tua etica, a ciò su cui hai sempre sostenuto si fondi la nostra societĂ â.
Poi guardai ancora la donna seduta a terra, nel mio soggiorno, incatenata e ammanettata, con un cappuccio in terra.
E ricordai che non era una donna qualsiasi, era Francesca.
E mi dissi che tutto questo non aveva nulla a che fare con lâetica, la democrazia, lâuguaglianza, i valori e i principi.
Aveva a che fare con lei e me.
E allora decisi che sĂŹ, lâavrei fatto.
Mi alzai, mi avvicinai e le presi gentilmente le mani: con un movimento rapido infilai la chiave e le tolsi le manette, e ritornai sulla sedia.
Francesca si massaggiava i polsi, respirando affannosamente.
Anche lei capiva che stava per succedere qualcosa di importante.
Mi presi un ultimo momento, poi respirai a fondo e dissi, sperando che la mia voce non tremasse troppo
â togliti il cappuccio -.
Non so cosa mi aspettassi.
Magari che si sfilasse lentamente il cappuccio, o che rifiutasse di toglierlo, non so.
Invece fu tutto molto veloce e banale.
Francesca alzò le mani, afferrò i lembi del cappuccio e praticamente se lo strappo di dosso.
Si riparò gli occhi dalla luce con una mano, li strizzò una o due volte, e mi guardò.
Io ero come paralizzato, bloccato sulla mia sedia, fermo.
Ci mise qualche secondo a riconoscermi, mi guardò ancora e aprÏ leggermente la bocca, stupita.
Poi, allâimprovviso, unâespressione di sollievo le si dipinse sul volto, e sorrise.
â tu!!! â disse â tuâ sei proprio tu!!!! â
Io rimasi in silenzio, non sapevo cosa dire, e temevo di non riuscire comunque a parlare.
PerchĂŠ lei eraâ lei.
I lunghi capelli neri, gli occhi scuri, dal taglio mediterraneo, le labbra appena separate, che lasciavano intravedere i denti bianchi, e lo sguardo, quello sguardo da chi ha in mano il proprio mondo e la propria vita e nessuno potrĂ portarglielo via o farle cambiare idea su cosa fare e come fare.
Era Francesca, piĂš speciale e unica che mai, anche lĂŹ, seduta a terra, con una tuta sgualcita e un collare fissato a terra.
Era lei.
â tu!! â ripetĂŠ lei â ma comeâ no, lascia stare â disse â prima di tutto aiutami a togliere questa cosaâ mi sta facendo impazzire â aggiunse, mentre si metteva in piedi e cercava di infilare un dito nel collare â poi dobbiamo chiamare la poliziaâ lâavvocatoâ oh questa cosa mi fa impazzireâ troviamo il modo di toglierlo subitoâ dammi dellâacqua, sto impazzendoâ ma perchĂŠ non me lâhai detto sub â
non si era accorta del cavo che legava il collare allâanello.
Si era alzata, aveva iniziato a parlare e era venuta verso di me, quasi di corsa.
Quando il cavo aveva raggiunto la lunghezza massima, il collare aveva bloccato Francesca, che era caduta a gambe allâaria.
Gridando.
â ma cosaâ? â si girò, e vide il cavo, e lâanello fissato al pavimento
â cosa cazzo è questo? â mi chiese, tirando il cavo, cercando di strapparlo da terra
â toglilo, presto, non posso restare bloccata quaâ â
Mi guardò.
Io rimasi fermo, seduto. Zitto.
â toglilo â ripetĂŠ
â TOGLILO!!! â gridò, strattonando il cavo
â toglimi questo cazzo di coso!! Liberami!! Fammi andare via! Devo andare via! Liberami o ti faccio arrestare, chiamo la poliziaâ LIBERAMI!!! â
Io rimasi fermo. Zitto.
Francesca tirava il cavo con tutte e due le mani, girava attorno allâanello fissato a terra, puntò i piedi e tirò con tutte le sue forze.
Io mi persi nellâammirarla, guardavo e ammiravo ogni suo muscolo, ogni espressione della sua faccia, ogni dettaglio delle sue mani.
â LIBERAMI!!! â gridò ancora, e allâimprovviso corse verso di me allungando le mani, come per afferrarmi.
Ma aveva di nuovo dimenticato il cavo, e il collare, e di nuovo il colpo al collo la fece cadere a terra, di schiena.
Rimase ferma, sdraiata a terra.
Temetti che si fosse fatta male.
Ma poi si mosse, raggomitolandosi su se stessa, e iniziò a piangere, ripetendo âliberamiâ liberamiâ non ne posso piĂšâ io non devo stare quiâ liberamiâ.
Mi alzai.
Lei si fermò, spalancò gli occhi.
Io mi girai, e mi allontanai da lei, aprii la porta e uscii dalla stanza, chiudendo la porta dietro di me.
Lo dicevano, i siti sullâaddestramento degli schiavi.
Prima, proveranno a ribellarsi.
In questa fase, non câè dialogo possibile.
Lo schiavo, la schiava in questo caso, non vi ascolterebbe davvero.
Non ha ancora capito cosa le è successo, crede che sia solo un errore, una cosa momentanea, che finirĂ presto.
E perciò i suoi pensieri saranno diretti solo ed esclusivamente a trovare un modo per far finire tutto prima possibile.
Quindi, non câè nessuna utilitĂ nel parlare.
E perciò, la schiava deve capire il prima possibile qual è la sua situazione, e deve capirlo in maniera diretta, immediata, fisica e brutale.
Alcuni suggerivano di utilizzare da subito il collare e la funzione break, altri di percuotere (oh, il genere di termini che si usavano in quei sitiâ) subito la schiava.
Io però avevo trovato piĂš accettabile unâaltra soluzione.
Un sito spiegava che un adulto (uomo o donna è piĂš o meno uguale) può vivere senza bere fino a quattro giorni, e che nelle prime 36 â 48 ore il fisico non soffre alcun danno permanente.
Tuttavia, spiegava il sito, giĂ dopo 12 ore senzâacqua il soggetto ha la sensazione di grave malessere fisico, e dopo 18 ore lâassenza di acqua diventa un pensiero fisso e un bisogno che inibisce ogni altro istinto.
Calcolai che Francesca avesse bevuto lâultima volta verso le 11.00, quando era ancora in cella alla casa dâaste.
Erano le tre del pomeriggio, quindi non beveva da quattro ore.
Il mattino dopo, diciamo alle sette, sarebbero passate piĂš venti ore dallâultima volta che aveva bevuto.
Non potete immaginare, diceva il titolare del sito, quanto diventi docile e ricettiva una schiava quando le fate vedere una bottiglia dâacqua dopo che non beve da un giorno intero.
Ecco, avevo deciso di applicare quella tecnica con Francesca.
Stavo torturando un essere umano?
Una donna, che tenevo legata, incatenata?
Ero diventato come un inquisitore del cinquecento?
Avevo davvero scientemente deciso di privare dellâacqua una persona per un giorno, solo per abbattere le sue difese e fiaccarne il morale?
Ero davvero quel tipo di persona?
Decisi di non rispondere a quelle domande.
Avevo paura che rispondendo sĂŹ, mi sarei fatto schifo. Ma se avessi risposto no, avrei dovuto andare di lĂ e liberare Francesca.
Andai in cucina, presi una birra dal frigorifero, andai nello studio e mi sedetti alla scrivania.
Accesi il computer.
In soggiorno, nella stanza dove era chiusa Francesca, appena sopra la porta, nel legno dello stipite, avevo fatto un piccolo foro.
Nel foro avevo infilato una minuscola telecamera, piĂš sottile di una matita.
Dipinta di bianco, spinta dentro nel legno, era praticamente invisibile.
Schiacciai due tasti, e lo schermo del pc si riempĂŹ delle immagini dal soggiorno.
Soldi ben spesi, mi dissi, vedendo come le immagini che arrivavano dal soggiorno erano in HD, luminose e nitide.
Francesca si agitava.
Aveva afferrato il cavo, lo aveva avvolto attorno allâanello e tirava ritmicamente da una parte e dallâaltra.
Cercava di tagliarlo, o strapparlo.
Non sapeva che sul sito dove lâavevo acquistato câera un video in cui il cavo resisteva al tentativo di tagliarlo con un flessibile in carbonio e resisteva alla trazione di un camionâ
Rimasi a guardare.
A un certo punto, Francesca si mise in ginocchio, la testa bassa verso lâanello fissato a terra, con le mani davanti alla testa.
Non vedevo cosa stesse facendo, probabilmente cercava di capire se il lucchetto potesse essere aperto in qualche modo.
Muovendosi, si girò fino a dare le spalle alla telecamera.
In ginocchio, la testa bassa tra le mani aggrappate allâanello, le gambe leggermente divaricate.
La tuta, per quanto larga e informe, in quella posizione si tese sui suoi fianchi.
Azionai lo zoom, e inquadrai in primo piano il culo di Francesca, con la tuta che faceva intuire le cuciture delle mutande, e tra le gambe la forma della figa.
Francesca si muoveva, in modo ritmico, mentre probabilmente cercava di allentare lâanello, o qualcosa del genere.
Io ero ipnotizzato dal suo culo, e da quel movimento.
Con un unico movimento mi slacciai cintura e pantaloni.
Mi alzai appena sulla sedia, e mi abbassai sui polpacci pantaloni e mutande.
Mi afferrai il cazzo, e iniziai a masturbarmi.
Dopo poco piĂš di un minuto ero giĂ pronto per venire.
In quel momento, Francesca si fermò, si mosse leggermente e girò la testa, come se stesse guardando proprio la telecamera.
Come se stesse guardando proprio me.
Venni, forte, guardando Francesca, lei, la sua faccia, i suoi occhi, il suo culo, il suo tutto, il suo essere lĂŹ, il suo essereâ mia.
Non so cosa sono, mi dissi mentre mi pulivo con un fazzolettino, non so se sono buono o cattivo, malvagio o semplicemente debole, non so.
Ma ho voglia di scoprirlo, e credo che mi piacerĂ molto, scoprirlo.
Spensi il pc, mi vestii e uscii.
âA domattinaâ, sussurrai verso la porta, chiusa, del soggiorno, dietro la quale câera Francesca.
Rimasi fuori fino a tardi.
Temevo che se fossi stato in casa, non avrei resistito, mi sarei pentito, le avrei dato da bere, magari le avrei parlato, la avrei liberata, non so.
CosĂŹ passai il pomeriggio a fare delle cose che avevo in sospeso in cittĂ , chiamai un paio di amici e andammo a cena.
Cercai di far durare la serata il piĂš possibile, e quando finalmente tornai a casa era quasi mezzanotte.
Feci piano, cercando di far meno rumore possibile.
Quando finalmente fui in casa, andai nello studio e accesi il computer.
Ero teso, non avevo idea di cosa avrei visto.
Quello che vidi mi tranquillizzò.
Francesca si era addormentata.
A terra, con un braccio sotto la testa e i capelli davanti agli occhi.
Il collare e il cavo erano ancora al loro posto.
Dalla parte opposta rispetto allâanello dâacciaio nel pavimento, una macchia scura per terra.
Ah giĂ , mi dissi.
Probabilmente Francesca non era riuscita a trattenersi e aveva urinato a terra.
Poco male, il pavimento era di un materiale perfettamente lavabile.
Sorrisi, pensando a quanto doveva aver provato a resistere e a come, alla fine, si era arresa, spostandosi a urinare a terra, come un animale, nel punto piĂš lontano che poteva raggiungere.
Mi diedi del cretino perchĂŠ, nella foga di masturbarmi, prima mi ero dimenticato di avviare la registrazione: mi sarebbe davvero piaciuto poter vedere la scenaâ me ne ricorderò, mi ripromisi.
Mi lavai, mi preparai e andai a letto, puntando la sveglia per le sei e mezza.
Temevo di non riuscire a prendere sonno, ma saranno state le due o tre birre con gli amici, o solo la consapevolezza che, ormai, avevo superato un confine e non potevo piÚ tornare indietro come se niente fosse, ma mi addormentai subito e quando suonò la sveglia mi sembrò di aver appena appoggiato la testa sul cuscino.
Mi alzai, e mi imposi di non andare al pc: è lei che deve cambiare le sue abitudini, io devo continuare a vivere la mia vita come se niente fosse, mi dissi.
E cosĂŹ feci.
Andai in cucina, mi preparai unâabbondante colazione, sfogliai un paio di quotidiani online.
Poi in bagno, mi presi tutto il tempo per preparami.
Doccia, barba.
Mi vestii, sportivo informale, diciamo, un paio di pantaloni blu scuro, una Tshirt nera, un paio di sneaker.
Poi, finalmente, accesi il pc.
Francesca era sveglia.
Seduta a terra, teneva tra le mani, in grembo, il cavo.
Zoomai sulla faccia e notaio gli occhi gonfi, cerchiati di rosso, e le labbra screpolate.
La sete era probabilmente diventata il suo unico pensiero.
âEâ il momentoâ, pensai.
Mi fermai unâultima volta, davanti alla porta chiusa, e mi feci forza: âsegui il piano. Devi solo seguire il pianoâ.
Passai in cucina, e presi la borsa che avevo preparato mentre facevo colazione.
Finalmente entrai.
La prima cosa che mi colpĂŹ fu la puzza.
Un odore acre, denso.
Puzza di piscio, come in certi bagni pubblici, e poi odore di sudore stantio, e poi ancora altri odori, che mi fecero pensare a paura e disperazione.
Appena entrai, Francesca si alzò in piedi.
Tremava.
Provò a parlare, ma dalla sua bocca uscĂŹ solo una specie di raschio â lasciaâ lasciamiâ aâ. andareâ ti pregoâ lasciaâ â
Io non risposi, non la guardai nemmeno.
Mi sedetti sulla sedia.
Appoggiai la borsa a terra, accanto alla sedia.
Lei iniziò a piangere, piano.
â perâ perchĂŠâ lasciaâ miâ â
La fissai.
Lei fece due passi verso di me, lentamente, poi si bloccò quando sentÏ il cavo tendersi.
Allungò le mani.
Erano davanti a me.
Se avessi allungato le mani anche io le avrei toccate.
Ma rimasi fermo.
â ti preâ â mormorò lei
Io mi abbassai, frugai nella borsa e presi una bottiglia dâacqua da un litro e mezzo, quelle di plastica, trasparente.
Francesca reagĂŹ con uno scatto
â dammela!! Dammela!! Ti pregoâ non ne posso piĂšâ ho seteâ â e di nuovo allungò le mani, sforzandosi di arrivare alla bottiglia.
Io non le risposi, non la guardai.
Posai la bottiglia davanti alla sedia, a terra.
Lei si abbassò, e provò ad afferrarla.
Era a venti, trenta centimetri dalle sue mani, ma non ci sarebbe mai arrivata.
Scoppiò a piangere.
â ti pregoâ â sussurrò, roca
Io frugai di nuovo nella borsa.
Lei si bloccò, osservando ogni mio gesto.
Tirai fuori dalla borsa un bicchiere di plastica, come quelli che si usano alle feste.
Presi la bottiglia.
Sentivo lâintensitĂ dello sguardo di Francesca sulle mie mani.
Aprii la bottiglia, riempii il bicchiere.
Lo osservai, e poi lo portai alle labbra.
â noâ â disse lei, con la voce che tremava â noâ ioâ. Ioâ ti prego, ioâ â
Bevetti due o tre sorsi dal bicchiere.
Lo osservai di nuovo, poi lo posai a terra.
Dove prima avevo messo la bottiglia.
Poi, con la mano, lo avvicinai a Francesca di qualche centimetro.
Lei provò a prenderlo, ma era ancora troppo lontano.
Lo spinsi ancora un poâ.
Lei si sforzò, allungandosi. Vedevo il collare tirare sul suo collo, vedevo come allungava spalle e braccia, ma mancava ancora un poco.
Attesi qualche secondo, poi quando lei sembrò rinunciare, spinsi ancora un poco in avanti il bicchiere.
Questa volta Francesca riuscĂŹ a toccarlo, con la punta delle dita.
Ma il bicchiere era liscio, e lei lo sfiorava appena.
Di nuovo, osservai come provasse in ogni modo a raggiungerlo, invano.
Infine, lentamente, con lei che mi osservava attenta, lo mossi ancora di qualche centimetro.
Francesca ci si avventò sopra, in un attimo lo prese e lo bevve.
â ancoraâ ancoraâ â mi disse muovendo il bicchiere davanti ai miei occhi.
Io non mi mossi.
â ancoraâ ho seteâ seteâ â ripetè lei
io non mi mossi.
â ti pregoâ ti pregoâ per favoreâ ti prego â disse
E quando disse cosĂŹ, lentamente mi mossi.
Presi la bottiglia, la aprii, e riempii il bicchiere che lei teneva in mano, tremante.
Di nuovo lo vuotò in un sorso.
Allungò di nuovo la mano.
â ti pregoâ per favoreâ ti prego â disse, con voce piĂš ferma, adesso.
Aveva capito che era quello ciò che volevo sentire.
Di nuovo presi la bottiglia, di nuovo la accostai al bicchiere, ma questa volta lo riempii nemmeno a metĂ .
Le aspettò un secondo, poi lo bevve subito.
â ancoraâ ti pregoâ per favoreâ â
Ma questa volta io allungai la mano, e prima che lei potesse fare nulla, le presi il bicchiere.
â no! â
Poi presi la bottiglia, la misi nella borsa e me mi alzai, dirigendomi verso la porta.
â no! â gridò Francesca â no! Ti prego! Per piacere!! Ancora!!! No! No! â
Io non mi girai, e sentii che lei cercava di tirare il cavo â no!!! Ti prego, per favore, ancora!!! â
Aprii la porta e uscii.
La porta attutiva quasi del tutto le sue grida.
Tornai in cucina.
Mi sedetti.
Mi versai un caffè.
Riflettei.
Avevo in mente di provare una cosa che nei siti non câera.
Nei siti dicevano che era ancora presto per parlare, comunicare.
Però ero abbastanza, come dire, curioso.
Decisi di provare a fare a modo mio.
Dopo quasi un giorno senza bere, il corpo ha bisogno di circa tre litri dâacqua per ristabilire i livelli normali.
Certamente, quello che aveva bevuto Francesca non era nemmeno vicino al necessario.
Le sarebbe bastato per recuperare appena un poâ di luciditĂ ed energia, niente di piĂš.
Con calma, andai nella stanza di servizio e presi il secchio per pulire i pavimenti, quello rosso, di plastica, per intenderci.
Controllai e verificai che dentro il secchio ci fosse uno straccio.
Andai in cucina, e dal rubinetto riempii il secchio quasi a metĂ . Calcolai che ci fossero un litro e mezzo o due dâacqua, nel secchio.
Poi presi il secchio e tornai di lĂ , da Francesca.
Appena mi sentÏ entrare si alzò.
â scusaâ ti pregoâ ho seteâ ioâ â
Mi sedetti e alzai una mano.
Lei tacque immediatamente, rimanendo in piedi, ferma.
Pensa, mi dissi.
Se sei mesi fa qualcuno avesse alzato la mano mentre Francesca parlava, probabilmente lei non lâavrebbe nemmeno notato, tanto era impensabile che qualcuno, chiunque fosse, pensasse di poterla interrompere cosĂŹ.
E adesso, è bastato un piccolo cenno e lei si è immediatamente bloccata, zitta e ferma.
Come cambiano le cose, eh?
Mi sedetti, e posai a terra il secchio.
Feci in modo che lei sentisse chiaramente il rumore dellâacqua, e vedesse quanta ce nâera lĂ dentro.
Francesca fissò ipnoticamente il secchio, e la sua lingua, probabilmente per un riflesso involontario, passò sulle labbra screpolate.
DeglutĂŹ, ma rimase ferma.
Io presi un respiro.
è il momento, mi dissi.
E per la prima volta da quando era cominciato tutto questo, le parlai.
â ti propongo un patto â
la mia voce, per la prima volta in quella stanza, davanti a lei, mi sembrò appartenesse a qualcun altro.
Ma mi stupii di come suonasse ferma e decisa, mentre il mio cuore batteva a piĂš non posso e mi sembrava di non riuscire quasi a respirare.
Lei rimase ferma.
Poi fece un cenno, una specie di âsĂŹâ con la testa.
Annuii anche io.
â il patto è questo â dissi â tu prendi il secchio e lo straccio, e pulisci lĂ dove hai sporcato â e indicai col dito la chiazza scura lasciata dalla sua urina.
Lei annuĂŹ.
â fino a che non avrai pulitoâ perfettamente â aggiunsi, scandendo la parola â non potrai bere niente. Dopo che avrai pulito come si deve, potrai bere tutta lâacqua del secchio â
Lei mi guardò, poi guardò il secchio.
â se non vuoi, nessun problema â dissi, accennando ad alzarmi â ci vediamo tra qualche oraâ magari non hai ancora abbastanza sete â
â NO! â disse lei â NO! Fermo! SĂŹ, sĂŹ, dammi, dammiâ â aggiunse, allungando le mani verso il secchio
Io tornai a sedermi, presi il secchio e feci per porgerglielo, poi mi bloccai quando lei poteva quasi toccarlo
â ricorda: non una goccia finchè non avrai finito di pulireâ prova a bere prima e te lo porto via, e non mi vedrai piĂš â
â noâ sĂŹ sĂŹ.. va bene â sussurrò lei, allungando le mani ancora di piĂš
lentamente, le porsi il secchio.
Lo prese, e ci guardò dentro.
Riuscivo quasi a sentirlo, il bisogno disperato di tuffare la testa nel secchio e iniziare a bere, che lottava con la sua consapevolezza di non poterlo fare.
Finalmente, tremando, con il secchio in mano girò attorno allâanello fissato al pavimento e arrivò alla chiazza scura.
Si piegò, accucciandosi sui talloni, poi si mise in ginocchio.
Immerse le mani nel secchio, riempĂŹ dâacqua lo straccio, lo strizzò e cominciò a pulire per terra.
Io rimasi seduto.
Ancora una volta, la tuta si tese sul suo culo.
Vederla dal vivo era ancora piĂš eccitante di quanto visto ieri sul pc, mentre le mani che tenendo lo straccio sfregavano a terra facevano muovere tutto il suo corpo avanti e indietro.
Il mio cazzo diventò subito duro.
Lei non si accorse di nulla.
Continuava a pulire, un pezzo di pavimento per volta.
Bagnava lo straccio, lo strizzava, lo sfregava a terra, lo rituffava le secchio, lo strizzava, e ricominciava.
La tuta metteva in evidenza il suo culo che si muoveva, ritmicamente, avanti e indietro.
Io ero bloccato, adoravo quella visione, il cazzo mi faceva male tanto era duro, avevo la bocca secca e il respiro affannoso.
Non so quanto ci mise, ma a un certo punto si fermò.
Sempre in ginocchio, accanto al secchio, con lo straccio in mano mi guardò e disse, roca â faâ fatto â
Io non risposi.
Mi alzai, e girai per la stanza, senza mai entrare nello spazio che lei avrebbe potuto raggiungere.
Arrivai davanti a lei.
Ero in piedi, e lei in ginocchio, praticamente davanti a me.
Lei mi osservava, da sotto in su.
Francesca, Francesca, mi ritrovai a pensare, avresti mai pensato di essere ai piedi di un uomo, aspettando ansiosa solo un suo piccolo cenno dâapprovazione?
Mi abbassai, piegando le gambe, e mi misi ad osservare il pavimento.
Francesca aveva pulito e sfregato tutto, centimetro per centimetro.
â lĂŹ â dissi, indicando un punto qualsiasi del pavimento
Francesca scattò, quasi come un cane che sente lâordine del padrone.
Immerse lo straccio, lo strizzò, si piego e sfregò il pavimento nel punto che avevo indicato.
Dopo un minuto, girò la testa e mi guardò.
â va bene â dissi
lei si rimise in ginocchio, accanto al secchio, con lo straccio in mano.
Non dissi nulla, ma con un cenno indicai prima lo straccio, e poi il secchio.
Francesca immediatamente mise lo straccio dentro il secchio.
Io feci finta di controllare unâultima volta il pavimento, anche se in realtĂ stavo ascoltando il respiro di lei, affannoso e preoccupato.
Alla fine mi alzai di nuovo, la guardai e dissi â puoi bere â
Francesca afferrò subito il secchio con due mani, e lo portò alla bocca.
Lo alzò troppo in fretta, e come unâonda lâacqua le investĂŹ la faccia e si rovesciò a terra.
â no! â urlò lei, e fermò il secchio
poi lo avvicinò di nuovo al volto, questa volta con attenzione, e iniziò a bere a grossi sorsi.
Ogni due o tre sorsi, lo straccio le finiva praticamente in bocca, e lei doveva interrompersi, spostarlo e ricominciare.
Io, in piedi, osservavo.
Francesca, amica mia, pensavo, guardati: ai miei piedi, in ginocchio, bevi felice e grata da un secchio per le pulizie lâacqua che hai usato per pulire la tua stessa urina.
Sei davvero la stessa persona che rimandava in malo modo indietro il vino, al ristorante, se la temperatura non era esattamente quella giusta?
La stessa persona che non beveva gin tonic se non era fatto con il gin che voleva lei, la tonica quella speciale e il lime, per caritĂ , il gin tonic con il limone è im be vi bi le?
La stessa persona che lâacqua solo evian, perchĂŠ ha il residuo fisso basso, le altre acque guarda non è che lo faccio apposta, ma io non riesco proprio a berle, non câè nulla da fare, non riesco nemmeno mandarne giĂš un sorso?
Guardati: sa di piscio, lâacqua che bevi, lo sai, no? Eppure bevi, e sei felice, e sono sicuro che se te lo chiedessi, mi ringrazieresti anche.
â io ora vado â le dissi, e lei smise subito di bere, e mi ascoltò, attenta, ferma immobile â ma tornerò presto. Se per caso ti scappa di nuovo, non farla a terra, usa quello â dissi, indicando il secchio.
â aspetta! Ioâ ti pregoâ lasciami andareâ non lo dirò a nessunoâ ti lascerò stare, ioâ ti pregoâ ti giuro che â
Francesca si bloccò.
Io la osservai, e vidi che fissava i miei pantaloni.
Anzi, guardava fisso il mio cazzo che si intuiva, duro, gonfio, attraverso la stoffa dei pantaloni.
Guardò il cazzo, poi alzò gli occhi e guardò me.
Ha capito, pensai.
Ha capito che a me questo, tutto questo, piace.
Che non è un errore, o uno scherzo, o non so cosa.
No.
Ha capito.
Alzò lo sguardo, e mi fissò.
SĂŹ, ha capito.
E allora la guardai anche io, a feci un piccolo cenno con la testa, come a dire âlo so che hai capitoâ.
E mi allontanai.
Questa volta lei non disse nulla.
Prima di chiudere la porta, mi girai un attimo â torno presto â le dissi.
Tornai dentro dopo nemmeno unâora.
In mano avevo una bottiglia dâacqua e un piatto di plastica.
Francesca era seduta a terra.
Mi guardò, senza muoversi.
Mi sedetti sulla sedia.
â tieni â dissi, appoggiando spingendo la bottiglia e il piatto verso di lei.
Francesca si alzò e, cauta, si avvicinò.
Prese la bottiglia e, senza staccarmi gli occhi di dosso, ne bevve quasi la metĂ .
Poi abbassò gli occhi sul piatto.
Ci avevo messo del riso bollito, quattro o cinque fette di formaggio, e un grosso pezzo di pane.
Francesca non mangiava da un giorno, almeno.
â mangia, stai tranquilla â le dissi, serio â poi parliamo â poi mi alzai e uscii dalla stanza.
Dal pc la osservai.
Seduta a terra, mangiò avidamente con le mani, fino allâultimo chicco di riso, e finĂŹ la bottiglia dâacqua.
Aspettai altri venti minuti, perchĂŠ non volevo che sospettasse che la potevo osservare anche quando era sola nella stanza.
Poi entrai.
Mi sedetti, in silenzio.
Lei rimase seduta, a terra, con il cavo tra le mani.
Era diventata quasi una routine, ormai.
Io non parlai.
Deve essere lei a fare la prima mossa, pensai.
Lei rimase ferma ancora un paio di secondi, poi mi guardò.
â lasciami andare. Non hai diritto di tenermi qui. Lasciami andare, devo parlare con lâavvocato, devo sistemare le cose, questa è tutta una follia â
Il tono era freddo, non piĂš aggressivo.
Scossi la testa.
Presi un lungo respiro.
â sbagli â le dissi, calmo âsei stata processata e condannata, con sentenza inappellabile, a dieci anni di schiavitĂš. è vero? â
â sĂŹ ma â
â no â la interruppi â non ci sono âmaâ. La cosa è definitiva e non modificabile. Può essere una cosa ingiusta, una follia, una cosa barbara, chiamala come vuoi, ma è cosĂŹ â
â è una folliaâ è tutto un pazzesco erroreâ io devo parlare con il giudiceâ ioâ. Posso spiegareâ Non possoâ â
â io non câentro col processo â la interruppi di nuovo â non ne so nulla, ma so che la decisione è definitiva â
â sĂŹâ ma se non câentriâ e allora cosa ci fai qui? Cosa ci faccio qui??? PerchĂŠ mi hai rapita? â
â non hai ancora capito? Io non ti ho rapitaâ â risposi, sospirando â âio ti ho comprata. Allâasta. Come schiava. Sono il tuo âtitolareâ, come lo chiama la legge â
Francesca mi guardò, la bocca semiaperta.
â comeâ tuâ mi haiâ â
â comprata â la interruppi di nuovo â allâasta â
â alloraâ allora â la vidi riflettere e poi riprese a parlami, concitata â allora è tutto a postoâ puoi liberarmiâ puoi sistemare le coseâ ok, ora mi togli questo coso, poi chiamiamo lâavvocatoâ probabilmente dovremo far finta per un poâ che questa cosa sia veraâ â
Io non dissi nulla, mi limitai a guardarla.
Lei continuò a parlare, poi alzò gli occhi su di me.
E si azzittĂŹ.
â tuâ â disse, guardandomi e spalancando gli occhi quando finalmente capĂŹ â tuâ. Non lâhai fattoâ per meâ per aiutarmiâ per salvarmi â scosse la testa â tu lâhai fatto davveroâ lâhai fatto sul serioâ tu pensi davvero di poter fare questaâ questaâ questo orrore â e cosĂŹ dicendo prese in mano il cavo che la teneva legata e me lo mostrò
Mi guardò.
Io annuii.
â tu sei pazzoâ pazzo â
Di nuovo non risposi.
â cosa vuoi fare? â mi chiese, alla fine
E io decisi che era giunto il momento di vedere come sarebbe andata.
La guardai, attentamente, io seduto sulla sedia, lei a terra, seduta sui talloni.
â vieni â le dissi, invitandola con la mano â adesso ti libero, poi andiamo di lĂ â ti fai una doccia, ti riprendi, ti cambi e poi parliamo. Va bene? â
Lei annuÏ, e si avvicinò.
Staccai il cavo dal collare.
Lei cercò di nuovo di muovere il collare, infilandoci un dito, ma non ci riuscÏ.
â vieni â le dissi, mi alzai e aprii la porta.
Era la prima volta che Francesca entrava in casa mia, fatta eccezione per il soggiorno / prigione dove era stata legata fino ad allora.
La guidai fino alla stanza degli ospiti.
Sul letto matrimoniale avevo appoggiato gli scatoloni delle sue cose, che mi avevano dato alla casa dâasta.
â ecco â le dissi â lĂ câè il bagno, fai con comodoâ gli asciugamani e lâaccappatoio sono pulitiâ qui invece dovrebbero esserci le tue cose, credo anche i vestitiâ li hanno presi da casa tua quando lâhanno vendutaâ â
Francesca si irrigidÏ, poi sospirò e annuÏ.
â io ti aspetto di lĂ â dissi, indicando il corridoio â non metterci troppo però â e me ne andai.
Andai nella mia stanza.
Mi trattenni dallâandare al pc.
Anche nella stanza e nel bagno degli ospiti avevo installato delle micro telecamere, come in soggiorno, ma decisi di non usarle.
Un poâ perchĂŠ volevo fidarmi di Francesca, un poâper pudore e un poâ, lo confesso, perchĂŠ non volevo nessuna anticipazioneâ insomma, non volevo guastarmi la sorpresa, se cosĂŹ si può dire.
Mi versai una birra, mi sedetti e attesi, leggiucchiando qualcosa sul palmare.
Dopo venti minuti, Francesca arrivò.
Aveva fatto la doccia, i capelli erano di nuovo lucidi, neri e lunghi oltre le spalle.
Non si era truccata, ma le labbra avevano ripreso colore e gli occhi erano di nuovo seri e combattivi, lo sguardo diretto e quasi sfrontato.
Indossava dei jeans, un paio di nike, una felpa sotto la quale si intuiva una maglietta: insomma, si era vestita nel modo meno provocante e piĂš pratico e comodo.
Non che mi aspettassi minigonna, tacchi a spillo e autoreggenti, però un poâ ci rimasi male: lâavevo sempre vista (tranne nelle ultime ore) perfettamente vestita, elegante e sexy, attenta ad ogni dettaglio.
Ci lavoreremo, pensai.
â siediti â
â preferisco stare in piedi â rispose, fredda.
â come vuoi â
â la situazione è questa: tu sei stata condannata a 10 anni di schiavitĂš. Io ti ho comprata. Io o un altro, il tuo destino, per i prossimi dieci anni, è questo â
â lo so â
â quindi dobbiamo trovare un modo di far funzionare questa cosa â dissi io, guardandola
â câè un solo modo â rispose lei, guardandomi fisso e mettendo le mani sui fianchi â io resto qui per tutto il tempo necessario per trovare una soluzione. Poi ti restituisco i soldi che hai pagato, e ci dimentichiamo per sempre quello che è successo ieri â
Io la guardai, poi sospirai.
â no â dissi poi â io sono il titolare, quello che ti ha comprata. Per legge, io ti do gli ordini, e tu sei tenuta a eseguirli. E questo per i prossimi dieci anni, che ti piaccia o no â
â ah sĂŹ? â mi chiese lei avvicinandosi e alzando la voce â ah sĂŹ???? E allora sentiamo, caro il mio cazzo di âtitolareâ del cazzo, brutto bastardo figlio di puttana, sentiamo: quale sarebbe il suo primo ordine, brutto stronzo pezzo di merda? â
Ecco, ci siamo, pensai.
Lo spiegavano tutti, gli esperti.
Arriva il momento nel quale lo schiavo (la schiava, per me) si ribella.
Accade allâinizio, quando la schiava finalmente accetta il fatto di essere stata condannata e venduta: in questo momento la schiava si ribella non contro il fatto della schiavitĂš, ma contro lâidea che ci sia un titolare, un padrone, una persona insomma che abbia il diritto di comandare la schiava.
Ed è questo il momento, spiegavano, nel quale il padrone deve dare la prima lezione alla schiava.
Deve essere una lezione forte, fortissima, inaspettata, indimenticabile.
Il comportamento del padrone in questa situazione potrebbe influenzare tutto il resto del rapporto.
Guardai Francesca.
Era il momento.
Dovevo dare un ordine che mettesse in chiaro le cose, per vedere se avrebbe obbedito o si sarebbe ribellata.
Ci pensai un attimo, e la scelta fu facile.
â spogliati â le dissi, guardandola.
Lei mi guardò.
Poi rise.
â ah, eccoâ. Alla fine si riduce tutto a questoâ bhe, allora è tutto molto facile: piuttosto che spogliarmi, o farmi toccare da una merda come te, vado in prigione per il resto della mia vita. Mi fai schifo, porco â
â non puoi decidere tu di andare in prigioneâ io sono il tuo titolare e-
â non me ne frega un cazzo di cosa credi di essere!!! Sei solo uno schifoso maniaco del cazzo, e io non voglio avere niente a che fare con te â
â spogliati â ripetei calmo
â vaffanculo â disse lei, e si girò, per andarsene
Io avevo giĂ preso in mano il controller.
Misi il dito sul bottone âblockâ, attesi che Francesca facesse due passi e poi lo schiacciai.
Lei si bloccò, rimase ferma per un secondo e poi si afflosciò a terra.
Non fu una caduta, ma quasi come se si sgonfiasse.
Avevo studiato che proprio per evitare i rischi di una caduta improvvisa, il âblockâ toglieva progressivamente, in un paio di secondi, il controllo sui muscoli cosĂŹ che lo schiavo poteva in un certo senso âcontrollareâ la caduta.
Quando Francesca fu a terra, sul controller impostai â10 minâ: il collare avrebbe tenuto Francesca in condizione di block per 10 minuti, avvisandomi quando fosse mancato un minuto; in qualsiasi momento, in ogni caso, avrei potuto rimuovere il block con un semplice comando sul controller.
Con calma, mi alzai.
Andai davanti a Francesca.
A terra, non poteva muovere nemmeno un muscolo, solo gli occhi.
La testa era girata verso destra, cosĂŹ mi misi da quella parte, perchĂŠ potesse guardarmi.
Era terrorizzata.
Agli schiavi non viene spiegato il funzionamento del collare, almeno non cosĂŹ in dettaglio, e probabilmente Francesca ignorava del tutto lâesistenza del block.
â bene â le dissi, abbassandomi di fianco a lei e guardandola fisso â vediamo se riusciamo a farti cambiare idea sullâopportunitĂ di eseguire i miei ordiniâ â
Mi portai alle sue spalle, infilai le mani sotto le sue ascelle e comincia a trascinarla.
Vedevo che i suoi occhi si muovevano, cercando di capire cosa stesse succedendo.
La trascinai di nuovo in soggiorno.
La appoggiai a una parete, poi andai a prendere il cavo che era rimasto attaccato allâanello nel pavimento.
Sulla parete alla quale avevo appoggiato Francesca, a circa un metro e settanta di altezza, câera un altro anello, uguale a quello del pavimento.
Vi fissai il cavo, che poi fissai al collare di Francesca.
Tesi il cavo il piĂš possibile, fino a che il cavo tirò sul collare: tra lâanello e il collare câera meno di un metro di cavo.
Annuii soddisfatto.
Poi mi abbassai.
Velocemente, con metodo, slacciai e tolsi le nike a Francesca.
Sentivo i suoi occhi su di me.
Poi le tolsi le calze, corte e di cotone.
Mi alzai, slacciai il cavo, le tolsi, con una certa fatica, la felpa e la maglietta, lasciandole il reggiseno, nero, di cotone.
Poi riattaccai il cavo.
Francesca mi guardava, e io sentivo il suo respiro affannoso.
Poi le slacciai i jeans e glieli sfilai.
Sotto, aveva delle mutande nere, di cotone, come il reggiseno.
Sempre in silenzio, mi alzai e uscii dalla stanza. Andai in camera e presi la borsa nera.
Tornai in soggiorno.
Non dissi nulla, non guardai Francesca.
Posai la borsa sulla sedia, aprii la cerniera.
Presi il controller, e disattivai il block.
Francesca emise un suono gutturale, poi iniziò a muovere braccia e gambe.
Si mise lentamente in ginocchio, poi in piedi.
â bruttoâ stronzoâ â sussurrò, poi la voce le si fece via via piĂš sicura â brutto bastardo figlio di puttana cosa mi hai fatto ridammi i miei vestiti questa volta ti ammazzo â
Io allungai una mano nella borsa e presi la frusta.
Lunga poco piĂš di un metro, morbida e flessibile, era quella che tutti i siti indicavano come la piĂš comune e piĂš utilizzata.
Dai padroni, sugli schiavi.
I siti spiegavano che i colpi inferti con quella frusta facevano male, ma a dosando la forza dei colpi si poteva controllare lâintensitĂ del dolore.
Lâavevo provata su di me, una sera, e sapevo che faceva davvero male.
â cosa cazzo fai metti giĂš quella roba non ti permet AHHHHHHHHHH â
Il primo colpo finĂŹ sul fianco di Francesca.
Lei gridò.
Io non mi fermai, continuai a colpirla.
Forte, con metodo, prendendo la mira.
Il cavo era corto e non le permetteva di scappare, ma di muoversi per circa un metro sĂŹ.
Era una specie di caccia, lei che saltellava di qua e di lĂ , cercando di fermare i colpi allungando le mani, e io che facevo una o due finte, e poi la colpivo: sul fianco, sulle gambe, sulla schiena quando si girava, sulla pancia, sulle spalle.
Vederla saltare, sentirla urlare, guardare come quel copro seminudo reagiva alle mie frustate mi piaceva.
Alla razionale necessità di mettere in chiaro le cose, subentrò praticamente subito la rabbia per come mi aveva trattato fino ad allora.
E mi accorsi di quanto fosse forte lâinaspettato piacere che stavo provando a frustarla e a guardarla in quelle condizioni.
E allora mi lasciai andare.
Smisi di prendere la mira, smisi di fare le finte, smisi di far attenzione a dove colpivo, o con quanta forza.
Semplicemente, la frustai.
Lei provò ancora a ribellarsi, a difendersi, ma finÏ a terra.
Io mi avvicinai, e dallâalto insistetti con i colpi.
Francesca, bloccata dal cavo che la teneva attaccata alla parete, si raggomitolò cercando di evitare i colpi piÚ forti.
Finchè non gridò â basta! Basta ti prego bastaâ ecco mi spoglio mi spoglio ecco mi spoglio lo faccio ecco ecco â e piangendo, con le mani tremanti, si sfilò le mutandine e si tolse il reggiseno.
Io non smisi.
Solo, rallentai.
Un colpo, contavo fino a cinque, un altro colpo, altri cinque secondi, un altro colpo.
Francesca piangeva.
Il suo corpo era pieno di strisce e segni rossi.
â lâho fatto!! Lâho fatto!! Sono nudaâ ahiaaaaâ basta ti pregoâ no basta ahaiaaaaaâ basta â
Alla fine mi fermai.
Avevo il fiatone, il cuore mi batteva e avevo il cazzo duro.
â alzati â le disse
lei no si mosse.
Io alzai la frusta, come per colpirla di nuovo â no!!! â gridò lei, e si alzò
Era in piedi, che piangeva e tremava.
Una mano copriva il seno, lâaltra la figa.
â cosa sei tu? â le chiesi
di nuovo, lei non rispose, e io la colpii con la frusta sulla coscia destra.
Lei gridò.
â sei la mia schiava â dissi io, poi ripetei
â cosa sei tu? â
senza darle tempo di rispondere, la colpii di nuovo.
Lei gridò â la tua schiava!!! Sono la tua schiava!!! â
Io alzai la frusta, come per darle un altro colpo.
Lei si girò di schiena â ti prego noâ bastaâ miâ mi sono spogliataâ come volevi tuâ farò tuttoâ tutto quello cheâ sonolatuaschiava! â Urlò, quando vide che muovevo appena la frusta
â girati â
si girò, verso di me.
â mani lungo i fianchi â
Francesca obbedĂŹ, ma troppo lentamente.
Alzai la frusta, e subito riportò le mani a difendere il suo corpo.
â mani lungo i fianchi!! Veloce!! â ripetei, e questa volta obbedĂŹ immediatamente
â posso fare ciò che voglio di te, lo sai? â iniziai a dire, mentre la guardavo
Aveva delle tette piccole, sode, quelle che si dice assomiglino alle coppe di champagne, con capezzoli scuri e areole ampie e rosa.
La figa era depilata, ma si vedeva la ricrescita dovuta probabilmente alle ultime settimane in carcere prima dellâasta.
Il mio cazzo era sempre piĂš duro.
â posso fare ciò che voglio di te!!!! â ripetei, questa volta urlando: sfogavo la rabbia che mi era rimasta, la tensione di questi giorni, il desiderio che avevo di lei â hai capito, brutta stronza??? Finchè non ti ammazzo, posso frustarti tutto il giorno!!! Posso lasciarti senza bere e senza mangiare, posso tenerti incatenata a questo muro per un anno, posso invitare tutti i passanti a entrare e frustarti, prenderti a schiaffi o scoparti, e nessuno avrebbe niente da ridire!!! Lo sai? Lo hai capito, sĂŹ? â
Francesca annuĂŹ.
â da questo momento, câè una regola sola tra noi â le dissi, alzando la frusta sopra la mia testa
â io â dissi, e le assestai una frustata da destra a sinistra: slack!!!
â do â un altro colpo, da sinistra a destra: slack!!!
â un â destra sinistra: slack!!!
â ordine â slack!!!
â tu â slack!!!
â obbedisci â slack!!!
â chiaro???? â slack!!!
Francesca urlava dal dolore, e aveva ripreso a piangere.
â chiaro???? â
â basta basta ti prego bastaâ sĂŹ sĂŹ sĂŹ sĂŹ sĂŹ chiaro â
â ripeti â
â tu dai unâ ordineâ io obbedisco â
â bene â dissi allora â adesso è venuto il momento di punirti per non aver ubbidito subito al mio ordine di spogliarti â
â cinque frustate â aggiunsi â due davanti, tre dietro â
â noâ ti pregoâ mi hai giĂ â â
â no â la interruppi â quelle non erano la punizione per non aver ubbidito, quelle erano per farti capire chi comanda. Adesso attenta: ti sto per dare un ordine: voglio che tu obbedisca subito, senza dire nulla. Se non lo farai, riprenderò lâaddestramento come prima â
â lo faròâ. Lo farò â
â girata verso di me. Ferma cosĂŹ. Gambe leggermente divaricate. Bene cosĂŹ. Mani dietro la testa. brava â
La guardai.
Fissata alla parete da un collare.
La faccia disfatta dal pianto e dalle urla.
Il corpo nudo, segnato dai colpi della frusta.
Le gambe che tremavano, incontrollate, le mani dietro la nuca.
Sono io, questo?
Sono io la persona che ha fatto questo?
è giusto, tutto questo? Posso davvero farlo? Voglio, farlo?
E, soprattutto, perchĂŠ tutto questo mi piace e mi eccita come niente altro mi ha mai eccitato?
La mia schiava, pensai.
è la mia schiava.
Ed è solo lâinizio.
è come una droga, pensai: la parte difficile è solo la prima voltaâ dopo è tutta discesa. Non so dove mi porterĂ questa discesa, ma giĂ adesso non posso piĂš farne a meno.
â adesso ti darò due frustate sul davanti â
â no ti pre â disse lei abbassando le mani
â zitta â la interruppi â mani su. Brava. Due frustate. Dopo ogni colpo, potrai muoverti, ma dovrai tornare in posizione. Pronta? â
â noâ. Ti prego noâ bastaâ â
â pronta??? â
â noâ. Non ce la faccioâ â
â scegli: o facciamo cosĂŹ, o ricomincio come prima â
Lei, tremando per la paura, annuĂŹ.
â pronta? â
â ssssâ sĂŹ â sussurrò
E io la colpii.
Dritto sulla pancia.
Forte.
Lei gridò, si accasciò.
Aspettai.
â in posizione â
â noâ â
â in posizione!!! â ripetei, scandendo
Lei riprese la posizione, e di nuovo la colpii.
â girati â le dissi, quando finalmente si riprese.
Solo guardare quel culo, tondo, tonico, stretto, che tremava per lâattesa delle frustate, mi fece quasi venire.
â pronta? â
Lei non rispose, ma annuĂŹ.
La frustai forte, da destra a sinistra, cercando di colpire tutti e due i glutei.
Dal segno rosso, preciso, che le attraversava il culo quando finalmente si rimise in posizione, capii di esserci riuscito.
La frustai altre due volte, lâultima con quasi tutta la forza che avevo.
Rimase a terra, quasi appesa al cavo e al collare, piangendo e lamentandosi.
â non abbiamo ancora finito â dissi
Avanzai fino a mettermi praticamente sopra di lei.
Francesca mi guardava attraverso i capelli scompigliati, da sotto in su.
Senza dire nulla mi slacciai i pantaloni, me li abbassai insieme alle mutande e tirai fuori il cazzo.
La afferrai per i capelli, la tirai in su quel tanto che bastava e poi le spinsi il cazzo tra i denti.
Non fece resistenza.
Io non dissi nulla, lei nemmeno.
Guardai in giĂš, poi le presi la testa afferrandola da dietro, con le due mani, e iniziai a spingere.
â succhia â dissi, mentre spingevo.
Sentii la sua bocca contrarsi sul mio cazzo.
E niente.
Bastò quello, a farmi venire.
Le spinsi il cazzo in gola, tenendola stretta con le due mani dietro la testa.
Lei si ribellò, tossendo, ma io non mi mossi finchè non ebbi finito.
Poi la liberai.
Lei cadde a terra, restando attaccata al collare e al cavo, tossendo e con dei conati di vomito.
â ti conviene non vomitarloâ è tutto ciò che berrai fino a stasera â dissi, uscendo dal soggiorno e chiudendo la porta.
Andai in camera.
Mi guardai allo specchio.
Chi sono?
Chi sono?
Cosa ho fatto, chi sono?
Mi chiesi.
Un padrone, che ha appena iniziato lâaddestramento della sua prima schiava, mi risposi.
E sorrisi, mentre andavo a farmi una doccia.
Mi lavai, mangiai qualcosa e mi chiusi nello studio.
Una finestra sullo schermo del pc mi permetteva di tenere sotto controllo Francesca, che si era rivestita e in questo momento era accucciata, appoggiata al muro.
Mi resi conto che il cavo non era abbastanza corto da permetterle di sdraiarsi: se si fosse stancata di stare in piedi poteva al massimo provare a sedersi, tenendo la schiena dritta e il collo teso, se non voleva rischiare che il collare la soffocasse.
Per un attimo ebbi la tentazione di andare di lĂ e, almeno, allungare il cavo cosĂŹ che potesse stare sdraiata a terra, poi decisi che dovevo impormi di essere severo e che piĂš fosse stato il dolore, prima avrebbe accettato la sua nuova condizione.
Doveva accettare, mi dissi, che le sue condizioni di vita, anche cose banali ma fondamentali come mangiare, bere, dormire, stare in piedi o seduta o sdraiarsi, cioè i piĂš semplici e scontati gesti, non erano piĂš scontati e banali: dipendevano esclusivamente dalla mia volontĂ .
Prima lo capiva, meglio sarebbe stato per lei; e prima avremmo potuto trovare il modo migliore di regolare il nostro rapporto.
Quindi ignorai il senso di colpa, e mi misi a fare qualche ricerca su internet, nei miei soliti siti e forum.
Volevo avere dei suggerimenti su âcosa fare adessoâ.
Cioè, pensavo: siamo arrivati al punto che lei sa che io sono il suo titolare, e si è ribellata.
Allora io lâho punita, in modo molto violento e crudele, almeno credo, cioè.
Poi câè stata quella cosa del pompino, o mezzo pompino, o che le sono venuto in bocca, insomma quello, che non so se fosse consigliato dagli esperti ma alla fine era successo.
Insomma, la veritĂ era che non sapevo come comportarmi.
Il mio istinto sarebbe stato quello di andare di lĂ , darle da mangiare, da bere, e poi parlarle, discutere insieme, magari scusandomi per essere stato troppo violento, cercare insieme una soluzione, un accordo, per evitare nuovi scontri.
Ma, probabilmente, non era la scelta giusta.
La schiava, scrivevano molti esperti, dopo il primo âcontattoâ con una punizione violenta e dolorosa, in questo momento comincia a percepire che non può lottare âfisicamenteâ contro il padrone.
Allora la schiava, lessi, cercherĂ di separare lâaspetto fisico, concreto, quotidiano da quello invece personale, potremmo dire mentale.
è in un certo senso facile, per cosĂŹ dire, obbligare qualcuno a fare qualcosa minacciandolo fisicamente.
Ma la parte piĂš difficile del rapporto tra un padrone e uno schiavo o una schiava, invece, è far sĂŹ che la schiava accetti, definitivamente, intimamente e consapevolmente di essere schiava.
Far sĂŹ che lâobbedienza, la devozione, la sottomissione diventino per la schiava normali, parte del suo carattere, della sua quotidianitĂ .
Che non siano piĂš vissuti come un obbligo contro il quale lottare, ma come una sorta di dato di fatto, incontrovertibile e immodificabile.
Questo, spiegavano gli esperti, è un processo molto complesso e molto lungo.
Richiede tempo, esperienza e attenzione.
Bhe, sono pronto a imparare, dissi.
E proseguii nelle mie letture.
Uno dei primi e piĂš importanti passaggi per far sĂŹ che una schiava accetti il proprio status consiste ridurre e abbattere la sua autostima e la sua dignitĂ , lessi.
Viviamo in una societĂ in cui tutti siamo uguali, in cui vige il rispetto reciproco e la regola del non far fare agli altri nulla che non faresti tu stesso.
Ebbene, intervenite sulla dignitĂ e sullâautostima della schiava.
Rimarcate in maniera evidente, anche offensiva, la differenza tra il vostro status di titolare, di padrone, e la sua posizione di schiava.
Cercate di conoscere la vostra schiava, la sua storia, il suo carattere.
Ogni schiava è diversa.
Cercate di trovare ciò che per lei potrebbe essere piÚ difficile da accettare e subire, e insistete su quello.
Quella è la chiave, la porta per entrare nella testa della vostra schiava per arrivare, alla fine, alla sua resa.
E poi punitela, in modo eccessivo e sproporzionato, per ogni suo errore e soprattutto siate inflessibili e durissimi per ogni minima disobbedienza.
Mi fermai a riflettere.
âShowtime!â mi dissi poco dopo, ed entrai nel soggiorno.
Francesca era in piedi, appoggiata al muro.
Gli occhi gonfi, i capelli spettinati, le mani appoggiate al cavo che legava il suo collo al muro.
Appena mi vide entrare, aprĂŹ la bocca e fece per dire qualcosa.
Poi notò che nella destra stringevo la frusta.
Spalancò gli occhi, terrorizzata, alzò le mani in un istintivo gesto protettivo e disse â no! No! Per piacereâ eccoâ mi spoglioâ ecco â e con le mani tremanti fece per slacciare i jeans.
â no â dissi, piano, calmo.
Lei si bloccò.
â ferma â dissi, e mi avvicinai a lei.
Sempre tenendo la frusta ben salda nella destra, le andai davanti, avvicinandomi fino a essere quasi davanti al suo viso.
Era la prima volta dal giorno dellâasta, a parte stamattina, che ci trovavamo abbastanza vicini da toccarci. Fino ad ora, infatti, avevo fatto sempre attenzione a restare a âdistanza di sicurezzaâ.
In questo momento, decisi di superare quel confine.
Ero davanti a lei, praticamente attaccato a lei, e la prima cosa che notai fu che era molto piĂš bassa di quanto pensassi.
SarĂ che quasi sempre lâavevo vista con i tacchi, sarĂ che Francesca aveva sempre avuto una sicurezza e un atteggiamento distaccato, la veritĂ è che per la prima volta vidi che era almeno dieci centimetri piĂš bassa di me.
CosĂŹ vicino sentivo il suo odore. Sapeva di sudore, di pianto, di fatica, e forse di sperma.
Sapeva di me.
Francesca non sapeva dove guardare.
Alzò gli occhi per guardarmi, e io la fissai freddo, e lei spostò subito lo sguardo, ma ero cosÏ vicino che ovunque guardasse vedeva solo il mio viso, il mio collo, il mio petto.
Alla fine decise di abbassare gli occhi, fissando le sue scarpe che quasi toccavano le mie.
Rimasi fermo, in silenzio.
Francesca rimase ferma, ma tremava leggermente, anche se cercava di non farlo vedere, e notai che stringeva ritmicamente la mano destra, in un gesto nervoso.
Dopo qualche secondo, Francesca mi guardò, e cercando di leggere il mio viso disse â hoâ â e quando vide che non mi muovevo, e che non alzavo la frusta, aggiunse â âsete â
Io rimasi fermo, poi annuii.
Sempre senza parlare, liberai il cavo dal muro, lasciandolo attaccato al collare e tenendolo in mano.
Mi girai, e mi avviai tenendo il cavo in mano.
Francesca non si mosse, il cavo le dette uno strattone al collare, e finalmente mi seguĂŹ.
La condussi di nuovo nella camera degli ospiti.
Io mi fermai, lei si fermò.
Mi girai, alzai la mano destra.
Lei scattò, alzando le mani sul corpo.
Mi ero dimenticato di avere in mano la frusta.
Senza dir nulla spostai la frusta nella sinistra e con la destra liberai il cavo dal collare.
â hai dieci minuti â le dissi, con tono serio, guardandola
â fatti la doccia, lavati, truccati. Puoi bere tutta lâacqua che vuoi. Vestiti bene, metti qualcosa di carino, anche le scarpe, e raggiungimi di lĂ , per mangiare â
Lei rimase ferma.
Io mi girai, feci per uscire dalla stanza, poi mi voltai di nuovo e dissi â dieci minuti da adesso. Se ritardi, o se non fai tutto come ti ho detto, sarò costretto a punirti â aggiunsi, mostrandole la frusta.
Senza aspettare mi girai di nuovo e lasciai la stanza.
Questa volta non mi feci scrupoli.
Andai nello studio e mi misi davanti al pc.
Francesca era andata diritta in bagno, aveva aperto il rubinetto del lavabo e stava bevendo lunghe sorsate dâacqua.
Dopo qualche secondo, si fermò, alzò la testa e si guardò nello specchio.
E si sedette improvvisamente a terra, con la testa tra le ginocchia.
Dai sussulti delle spalle, era evidente che stava piangendo.
âstai perdendo tempoâ mi accorsi di pensare, e in realtĂ non sapevo se desiderare che facesse in tempo, o che fosse in ritardo.
Ma Francesca si riprese in fretta.
Sempre scossa dai singhiozzi, si spogliò in fretta, buttando a terra i vestiti.
Bastò quello, e ancor prima che fosse completamente nuda avevo il cazzo duro.
Mi trattenni dal tirarlo fuori e farmi una sega.
Ma fu difficile.
Francesca intanto si era infilata nella doccia, dove rimase pochi minuti.
UscÏ, si asciugò i capelli, corse in camera, in uno scatolone trovò la sua borsa dei trucchi e si truccò velocemente.
Poi di nuovo in camera, cercando nelle scatole i vestiti.
Spensi il pc.
âfammi una sorpresaâ dissi allo schermo che diventava nero.
Mi alzai e andai in cucina.
Mi sedetti a tavola, e mi misi a leggere un libro sul tablet.
Dopo pochi minuti arrivò Francesca.
Con deliberata lentezza guardai lâorologio.
Ci aveva messo quasi tredici minuti.
Ma lei non lo sapeva.
Dalla sua camera avevo tolto tutti gli orologi.
â appena in tempo â dissi, e lei emise un sospiro di sollievo.
Decisi di non punirla per il ritardo per un semplice motivo.
Non mi serviva un motivo per punirla.
Se e quando avessi voluto frustarla, o punirla on qualsiasi altro modo, lâavrei semplicemente fatto, senza bisogno di una giustificazione.
Questa consapevolezza mi procurò unâemozione e una soddisfazione improvvise che mi fecero sorridere.
Francesca vide il sorriso e lo interpretò come un segno di incoraggiamento.
Se solo avesse potuto sapere perchĂŠ sorridevoâ
La guardai.
Indossava una camicetta blu, di cotone, a mezze maniche, non particolarmente elegante ma che comunque le stava molto bene. Era abbottonata fino al collo.
Dei pantaloni neri, lunghi fin sopra la caviglia.
Scarpe nere, tacco medio, senza calze.
Pettinata e leggermente truccata.
Niente male, ma neppure niente di speciale, pensai.
Bisogna fare meglio.
Câè tempo, câè tempo.
â hai fame? â le chiesi
Francesca annuĂŹ, e disse â sĂŹ â
â allora adesso mangiamo qualcosaâ ma prima fatti guardare â
e la fissai.
Con lentezza, la guardai scendendo lentamente dal volto, alle spalle, al seno, ai fianchi, fino ai piedi.
Lei rimase ferma.
Io con noncuranza spostai di qualche centimetro la frusta, che era appoggiata sul tavolo.
Lei contrasse la mascella, ma non si mosse.
â girati â
lei obbedĂŹ, e di nuovo feci scorrere il mio sguardo si di lei.
Mi fermai sul culo, che i pantaloni neri rendevano ancora piĂš bello.
Non so se vi è mai capitato.
A me non era mai successo.
Di voler guardare il culo a una donna, e poterlo fare in maniera sfacciata, deliberata, senza far finta, senza chiedere, senza sorridere.
Non so, forse nemmeno con la vostra ragazza o con vostra moglie avete mai avuto questa sensazione di poterla guardare cosĂŹ, quanto volete, come volete, senza dover dire, fare o pensare a nulla se non a guardarle il culo.
Per me era la prima volta.
E la sensazione di puro potere che sentii fu come una scarica di elettricitĂ che mi percorse tutto il corpo.
E, naturalmente, si concentrò nel cazzo.
â avanti. Ho fame â dissi, con finto distacco
Francesca si girò e mi guardò, senza capire.
â devi prepararmi la cena â spiegai â io sono il titolare, tu la schiava. Chi pensi debba occuparsi della cena? â
Francesca fece due passi fino al centro della cucina, poi si fermò e mi guardò.
Io scossi la testa, come se fossi esasperato dalla sua stupiditĂ .
â forza! Apri il frigo, guarda nella dispensa e dimmi cosa mi prepari!! Andiamo, sveglia!!! Non ho nessuna voglia di frustarti solo perchĂŠ non sai prepararmi la cenaâ â
Il mio tono e lâaccenno alla frusta ebbero lâeffetto di una scossa elettrica.
Scattò verso il frigorifero, lo aprÏ, poi lo richiuse.
Io feci un cenno verso la dispensa, lei si girò e aprÏ e chiuse anche quella.
Mi guardò, terrorizzata.
â unâinsalataâ con pomodoro, mozzarella, avocado, carote tagliate finiâ â dissi, sbuffano, e mi alzai, lasciandola in cucina.
â non farmi aspettareâ immagino che varia fame anche tu, no? â
lei annuĂŹ
â dai, che quando mangio io poi mangi anche tuâ ah, mi raccomando, apparecchia per bene â
Andai in sala, accesi lo stereo e mi rilassai sul divano.
Il contrabbasso e la voce di Leyla McCalla riempirono la casa.
Ogni tanto alzavo gli occhi dal tablet e guardavo in cucina: Francesca si stava dando da fare.
Non avevo mai avuto una cameriera, figuriamoci una cuoca; solo una signora che veniva a fare le pulizie e stirare, ma era tutta unâaltra cosa vedere Francesca, con i tacchi, i pantaloni scuri e la camicetta blu prepararmi la cena.
Di nuovo, mi travolse la sensazione di potere e di controllo.
Di nuovo, mi domandai se tutto ciò fosse giusto.
Di nuovo, decisi di non darmi una risposta, anche perchĂŠ il cazzo era di nuovo duro, e Francesca si era affacciata dalla cucina.
â èâ pronto â
Io mi alzai e andai in cucina.
I pantaloni che indossavo erano morbidi e leggeri, e la mia erezione era ben visibile.
Io non feci nulla per nasconderla, e Francesca la vide subito.
Si irrigidĂŹ, e notai quasi un gesto di ribellione.
Poi si trattenne, e io mi sedetti.
Aveva apparecchiato mettendo in tavola una bella insalatiera, con dentro lâinsalata e olio, sale e pepe, aceto appoggiati in bellâordine.
Poi aveva messo due tovagliette, una per me e una per seâ, con piatto, forchetta, coltello, bicchiere.
Mi sedetti.
Francesca si sedette.
Io non la guardai, presi lâinsalata e mi riempii il piatto.
Francesca sedeva seduta rigida, in silenzio.
Si mosse, per prendere anche lei da mangiare.
Era praticamente digiuna dal mattino, quando aveva mangiato solo un poâ di riso e pane.
â cosa fai? â chiesi
â mangioâ avevi dettoâ â
â ho detto che avresti mangiato anche tu. Ma non che avresti mangiato insieme a me, e a tavola con me â
mi alzai, e lentamente presi il suo piatto, le posate, il bicchiere e la tovaglietta e le posai accanto allâacquaio.
Lei rimase seduta, ferma.
Poi, sempre senza parlare, presi la tovaglietta e la stesi a terra, accanto alla mia sedia.
E con calma ci rimisi sopra il suo piatto.
Francesca mi guardò, sena capire.
â Io mangio a tavola â spiegai â tu mangi a terra. Prima mangio io, e tu aspetti al tuo posto, qui per terra. Poi, quando io ho finito, mangi tu â
Una vena sul collo di Francesca prese a pulsare.
Vidi che deglutiva a fatica.
Strinse un attimo gli occhi poi disse â no â
â no? â chiesi io, guardandola
â no â rispose lei, fissandomi con disprezzo â non mi interessa niente di cosa mi farai, io non ci sto piĂš. No â e dicendo questo fece per alzarsi.
Io non mi mossi, sospirai e presi dalla tasca il controller, mentre posavo la forchetta e con lâaltra mano prendevo la frusta.
Lei mi guardò, in piedi accanto al tavolo â cosaâ cosa fai? â
Io risposi tranquillo â bhe, a meno che ti non accetti di venire di lĂ di tua volontĂ â pensavo di stordirti â dissi, indicando il controller â poi trascinarti di lĂ , spogliarti, fissare il collare alla parete, farti riprendere e frustarti fino a quando non vomiterai, ti cagherai e piscerai addosso dal dolore e mi supplicherai di smettere, promettendo di fare tutto ciò che voglioâ e a qual punto continuare, ma ancora piĂš forte â risposi, calmo, come se stessi spiegando una cosa banale come accendere una macchina o mandare una mail.
Francesca mi fissò, poi i suoi occhi si fermarono sul controller e sulla frusta, che avevo nelle mani.
â nonâ ti prego nonâ â
Io non risposi.
Semplicemente, diedi unâocchiata al suo piatto, a terra.
Lei restò ferma ancora un secondo, poi chiuse gli occhi e, lentamente, venne accanto a me.
Restò lĂŹ ancora un altro momento, poi si abbassò, e infine si sedette a terra, davanti al suo piatto, alla sinistra della mia sedia, appena un poâ piĂš avanti, cosĂŹ che la potessi vedere.
â non seduta â dissi, senza guardarla, mentre versavo lâolio e lâaceto sulla mia insalata â in ginocchio â
Francesca ubbidĂŹ.
Misi in bocca la prima forchettata.
Mi appoggiai allo schienale della sedia.
Girai lo sguardo.
La mia cucina.
Il mio tavolo, la mia cena.
La mia schiava.
In ginocchio, accanto a me, in attesa, impaurita e furiosa.
Mi sentii un uomo realizzato.
â possiamo parlare â dissi, mentre continuavo a mangiare â mi annoio a mangiare in silenzio â
lei mi guardò.
Avete unâidea di come possa guardarvi una donna, in ginocchio sul pavimento accanto a voi, mentre voi siete seduti e mangiate tranquilli?
Ecco, avete ragione: se una donna vi guarda cosĂŹ, farete davvero fatica a trattenervi dallâinfilarle subito il cazzo in bocca.
Anche io feci fatica, ma resistetti.
â puoi parlare â dissi
dopo qualche secondo, Francesca parlò â non mi farai male? â
â in che senso? â
â se parloâ se parlo normale â
â intendi non come una schiava con il suo padrone? â
â sĂŹ â
â no, non ti farò male, finchè non mi insulti, non gridi, non urli, e resti lĂŹ dove sei, senza muoverti. Va bene? â
â va bene â
â parla. Tranquillamente â
â come puoi fareâ questo? PerchĂŠ? Come hai potuto farmi quello che hai fatto stamattina? Come puoi frustare una persona? Una donna? â stava alzando il tono della voce, e si stava agitando
â abbiamo detto non gridare â
â scuâ scusa â Francesca si calmò â è cheâ questoâ io non riesco ad accettareâ non è possibileâ voglio che finisca, voglio solo che finiscaâ dimmi cosa devo fare per farlo finireâ â
e scoppiò a piangere
io non risposi, e continuai a mangiare.
Quando sentii che i singhiozzi erano terminati, mi girai verso di lei.
Le lacrime avevano fatto colare il mascara dagli occhi.
Scoprii che questa cosa mi eccitava.
Erano molte, le cose che stavo scoprendo che mi eccitavano e non lâavevo mai saputo, in realtĂ .
â non puoi farlo finire â dissi, poi â non dipende da te. E nemmeno da me. Se anche io decidessi di âlasciarti andareâ, come dici tu, non cambierebbe nulla. La legge non prevede che un titolare possa liberare uno schiavo: se io rinunciassi a te, torneresti ad essere messa allâasta. Lo sai, no, come sono quelli che normalmente comprano gli schiavi alle aste? â
Francesca annuĂŹ.
Nel ânostroâ mondo, nel ânostroâ giro, lâargomento ogni tanto saltava fuori.
Câerano articoli, inchieste, discussioni e tutti, chi piĂš chi meno, sapevano che nella maggior parte dei casi uno schiavo o una schiava veniva comprato da persone che lo facevano di professione: intermediari, commercianti insomma.
Una volta acquistato, lo schiavo poteva finire piĂš o meno come Francesca, cioè di proprietĂ di una persona normale che, semplicemente (per modo di dire) aveva voglia o necessitĂ di uno schiavo.
La vita in questo caso era abbastanza semplice, certo dipendeva dal tipo di persona e di necessitĂ del padrone, ma a un certo punto tra padrone e schiavo si creava una specie di accordo, e le cose andavano avanti.
Andava peggio a quelli che erano acquistati da intermediario che li cedeva a delle aziende: spesso questi schiavi finivano a fare lavori di fatica in fabbriche o piantagioni o cantieri, fornendo manovalanza a costo praticamente nullo, con condizioni di vita estremamente dure e quasi senza controllo da parte delle autoritĂ .
Infine, alcuni schiavi venivano venduti a privati che li portavano allâestero, e spesso non se ne aveva piĂš notizia. Alcuni certo finivano a prostituirsi in bordelli in paesi stranieri, ma su altri, semplicemente, non câera piĂš nessuna informazione.
â se io decidessi di restituirti, correresti davvero il rischio di finire molto, ma molto peggio di cosĂŹ â le dissi, mentre lei era in ginocchio, accanto a me, a terra â è questo che vuoi? â
â noâ no â rispose Francesca, scuotendo la testa â ioâ io però voglioâ â
â che cosa? â
â voglioâ io posso stare qui con teâ ma nonâ non cosĂŹâ â disse, guardandomi da sotto in su, mentre un momento di orgoglio e rabbia le passava sul viso
â ma la scelta non è tua â le risposi â è mia. Vedi â dissi, e mentre parlavo mi alzai
â vedi, io ho una casa, un lavoro piĂš che buono, soldi, amici, e ho anche diverse donne con le quali ho avuto e posso avere delle relazioni sia sentimentali sia semplicemente sessualiâ â
mentre parlavo presi il mio piatto e abbassandomi di fronte a Francesca con la forchetta rovesciai quello che non avevo mangiato, gli avanzi insomma, nel suo piatto
â quindi non avevo bisogno di spendere tutti quei soldi, e di mettere in piedi questo casino per te, se avessi voluto una relazione ânormaleâ, o anche solo farmi qualche scopata ogni tanto. Tutto questo ce lâho giĂ , o potrei averlo se lo volessi â
dal tavolo presi il resto del cibo e lo buttai a terra, intorno a suo piatto
â ma non è questo, ciò che voglio. Voglioâ voglioâ â
aprii un anta e presi una piccola ciotola, la riempii dâacqua e la appoggiai a terra accanto a suo piatto
â voglio possedere una schiava. Voglio â e dicendo questo mi abbassai, appoggiandomi sui talloni, per poterla guardare dritta negli occhi â voglio possedere te â
â io non posso farlo â mi rispose semplicemente Francesca, guardandomi con intensitĂ
â oh, sĂŹ che puoi. Non vuoi, e questo è comprensibile. Ma puoi â
lei rimase in silenzio, ma vedevo che dentro di lei una nuova consapevolezza stava prendendo il posto della pura e semplice rabbia e ribellione.
â e cosaâ cosaâ â e si fermò.
Per la prima volta vidi la disperazione, la paura, la consapevolezza nei suoi occhi.
Non pianse, ma abbassò la testa e rimase cosÏ, mentre le lacrime scendevano dai suoi occhi.
â non lo so nemmeno io â risposi, anche se lei non era riuscita a finire la domanda â è la prima volta anche per me. Ma ecco cosa so â
rimasi fermo, davanti a lei, sui talloni â guardami â e lei alzò la testa, con le lacrime che continuavano a scendere
â so che voglio che tu ubbidisca. Non so bene a cosa, ma voglio sapere che lo farai, qualsiasi cosa io dica. voglio essere libero di non pensare o programmare nulla, ma semplicemente di darti ogni ordine che ho voglia di darti, e voglio che tu ubbidisca. Puoi farlo? â
Francesca annuĂŹ, poi sussurrò â eâ vorraiâ vorresti ancheâ â
â il sesso? â
di nuovo, lei annuĂŹ
â sĂŹ â risposi, immediatamente, senza esitazioni â certo. Come, quando, quanto, dove voglio. Ma di questo parleremo poi. Adesso mangia â e mi alzai
Francesca guardò a terra.
Nel suo piatto gli avanzi della mia cena, e quello che era rimasto nella insalatiera sparso a terra attorno al piatto e alla tovaglietta.
Niente posate, e al posto del bicchiere una ciotola piena dâacqua.
â comeâ? â
â regola numero uno, che ho appena inventato, tra lâaltro: la schiava non mangia nĂŠ con le posate, nĂŠ con le mani. La schiava mangia e beve direttamente con la bocca dal piatto o dalla sua ciotolaâ â
Francesca mi guardò, senza capire.
â hai cinque secondi per cominciare a mangiare come ti ho ordinato. Se non ti va bene, nessuno problema: metto tutto via, e ne riparliamo domani sera. Se vuoi stare senza cibo e acqua per altre ventiquattro ore, buon per te â
Francesca non si mosse.
Era ferma, in ginocchio, con a terra davanti a seâ il piatto con gli avanzi, altro cibo sparso sul pavimento e la ciotola dâacqua.
â unoâ dueâ treâ â
Si mosse.
Spostando indietro le gambe, lentamente abbassò la testa fino a metterla sopra il piatto.
â fermaâ â la interruppi â non voglio che ti sporchi i capelli, usa questo â le porsi un elastico, e lei si lego i lunghi capelli neri in una specie di chignon alto sulla nuca.
â avanti â ordinai.
Di nuovo si piegò, e io presi una sedia e mi misi di fronte a lei, osservando ogni dettaglio.
Francesca appoggiò la bocca al piatto, aprĂŹ le labbra e con i denti preso un pezzo di mozzarella, poi un pomodoro, poi dellâinsalata.
Doveva essere affamata, perchÊ dopo pochi secondi sembrò dimenticare tutto, e continuò a mangiare, sempre piÚ in fretta.
Quando ebbe finito quello che câera nel piatto, si mosse, e prese in bocca anche quello che era a terra.
Io mi appoggiai sui gomiti, abbassandomi, per vedere meglio.
A un certo punto non riusciva a raccogliere un pezzo di cibo che scivolava sul pavimento â usa la lingua â ordinai, e Francesca esitò solo un attimo, prima di leccare il pavimento.
â pulisci il piatto. Con la lingua â
Francesca eseguĂŹ.
Vederla leccare il piatto, con gli occhi chiusi, la lingua che andava avanti e indietro, mi sembrò la cosa piÚ bella che una donna avesse mai fatto per me.
â pulisci anche il pavimento â ordinai, e di nuovo Francesca eseguĂŹ.
Ogni uomo, mi trovai a pensare, dovrebbe avere almeno una volta davanti a lui una donna che lecca il pavimento.
Probabilmente non vi piacerebbe.
Ma se per caso, guardandola, vi accorgeste di avere il cazzo duro, non stupitevi.
Semplicemente, pensate che avete appena scoperto che siete come me, e anche io, quella parte di me cosĂŹ nascosta, oscura e segreta, la stavo scoprendo in quel momento.
Quel momento in cui vedere Francesca che leccava il pavimento perchĂŠ le avevo detto di pulirlo, mi aveva fatto sentire davvero, davvero felice e soddisfatto.
Oltre che terribilmente eccitato, certo.
Mi alzai.
A terra si vedevano i punti in cui Francesca aveva leccato il pavimento, scuri e umidi.
Francesca era davanti alla ciotola, e beveva risucchiando rumorosamente.
Anche questo era uno spettacolo al quale, mi dissi, non avrei potuti piĂš rinunciare.
â quando hai finito, metti a posto e vieni di lĂ â dissi, e senza girarmi me ne andai in soggiorno.
Dietro di me, sentii ancora i rumori di Francesca che beveva dalla ciotola.
Era notte.
Mi svegliai.
La finestra del soggiorno, aperta, faceva filtrare la luce dei lampioni della strada.
Mi alzai per andare in bagno.
Indossavo, come sempre, una semplice tshirt bianca e un paio di boxer scuri.
In bagno mi abbassai i boxer alle caviglie, mi sedetti (sono il tipo dâuomo che la fa seduto, non sopporto gli schizzi), pisciai, ma invece che rimettermi i boxer li tolsi del tutto.
Uscii dal bagno, e rimasi in piedi davanti al letto.
Mi avvicinai, e lentamente scostai il lenzuolo.
Francesca dormiva, a pancia in giĂš.
Era nuda, tranne che per il collare.
Scostai del tutto il lenzuolo, osservando nella penombra il suo culo.
Mi accarezzai appena il cazzo, e questo bastò a farmelo diventare duro.
Velocemente salii sul letto in ginocchio, mi misi a cavalcioni di Francesca, con la sinistra le allargai le chiappe e con la destra guidai il mio cazzo verso la sua figa.
Francesca si svegliò di soprassalto.
Spaventata, gridò e cercò di sgusciare via da sotto di me.
Io immediatamente le afferrai i capelli con la mano sinistra, stringendo forte e bloccandole la testa contro il cuscino, mentre con la destra le diedi due schiaffi sul culo, forte.
Lei si bloccò e rimase ferma, immobile.
Ferma, immobile, mentre io intuivo i suoi occhi chiusi e sentivo il respiro affannoso.
Mi assestai con forza, cominciai a spingere finchè non la sentii aprirsi.
Entrai dentro di lei, lasciandole la testa e appoggiandomi con tutto il mio peso alla sua schiena.
Cominciai a scoparla, afferrandole un seno da dietro.
Dopo pochi minuti sentii che stavo per venire.
Sempre senza una parola uscii da lei, mi misi in ginocchio sul suo cuscino, con il cazzo rivolto verso la sua faccia, le afferrai di nuovo i capelli con la mano, la feci voltare verso di me e le spinsi il cazzo in bocca.
Non appena sentii il calore della sua bocca, spinsi il cazzo con forza e tirai la sua testa verso di me.
Venni nella sua bocca, o forse direttamente nella sua gola.
Rimasi dentro la sua bocca per qualche secondo, poi lei mi leccò e succhiò piano, come le avevo insegnato, per pulirmi.
Dopo qualche momento, senza dire nulla, tirai fuori il cazzo dalla sua bocca, mi rimisi i boxer e mi girai dallâaltra parte.
Prima di addormentarmi, feci appena in tempo a sentire Francesca che si alzava per andare in bagno e guardai lâora: le tre e quaranta di notte.
Bello, mi dissi.
Spero di svegliarmi per andare a pisciare tutte le notti.
E mi addormentai.
***
Cosâera successo?
Cosâera cambiato?
In fondo, nemmeno una settimana fa Francesca aveva a fatica accettato per la prima volta di mangiare a terra, dalla ciotola.
Era successo che dopo aver leccato il pavimento Francesca era venuta in soggiorno e, con tutta la calma possibile e reprimendo rabbia e orgoglio mi aveva detto che lei non aveva piĂš intenzione di accettare questo stato di cose.
Facessi quello che volevo, mi aveva detto, ma io non ci sto piĂš.
E se deve essere cosĂŹ, allora non voglio che sia tu. Chiunque altro, ma non tu.
Avrei potuti frustarla, legarla, affamarla, magari torturarla, non so.
Invece annuii.
â va bene â le dissi â vieni con me â
Francesca mi seguĂŹ, senza domandare nulla.
Aveva unâespressione decisa sulla faccia, e mi ignorava del tutto, guardando dritta davanti a seâ.
Salimmo in macchina, era una bella sera di primavera e il sole tramontava.
Sedemmo insieme, in macchina: io guidavo, lei era accanto a me, in silenzio.
Bob Dylan cantava di come si viaggi assieme attraverso la vita, e la sua voce nasale e roca, ci teneva compagnia.
Guidai per ore, senza fermarmi, senza che nessuno dicesse una parola.
A un certo punto della notte, Francesca si addormentò, e io di tanto in tanto la osservavo, il suo profilo illuminato dalle luci dellâabitacolo dolce e bellissimo.
Quando arrivammo, mancavano poche ore allâalba.
Francesca si svegliò quando rallentai, girai e presi una strada sterrata.
Sempre in silenzio, arrivammo a un cancello e una recinzione di rete metallica.
Al cancello, una guardia si avvicinò, io abbassai il finestrino e porsi un foglio di carta.
La guardia annuĂŹ, e mi diede brevi istruzioni su dove andare.
Arrivammo pochi minuti dopo nel parcheggio di quello che sembrava un centro direzionale, mentre grossi camion rombavano nel buio.
Mi fermai, uscii dalla macchina e Francesca fece altrettanto.
La porta degli uffici si aprĂŹ e ne uscĂŹ un uomo di mezza etĂ , con una grossa pancia che tirava sulla camicia, occhiali e una testa calva.
Accanto a lui, un altro uomo, che indossava una sorta di divisa grigia, anfibi, un cinturone con attaccati diversi âarnesiâ, come quello dei poliziotti, capelli tagliati quasi a zero, e braccia muscolose che uscivano dalle maniche corte della camicia.
â buongiorno, benvenuto, è un piacere conoscerla di persona â mi salutò il primo, dandomi una mano grassoccia e umida â le presento il nostro responsabile della sicurezza e gestione del personale lavorante â e anche il secondo uomo mi salutò.
Nessuno dei due degnò di uno sguardo Francesca.
â mi segua, prego â disse il dirigente, facendomi strada dentro gli uffici.
Ci accomodammo in una asettica sala riunioni.
Ci sedemmo io, il dirigente e il suo collaboratore in divisa.
Francesca rimase in piedi, in imbarazzo, senza saper che fare, ma ancora una volta nessuno badò a lei.
â un caffè? Mi sembra di capire che ha guidato quasi tutta notteâ â
â sĂŹ, grazieâ e lei? Come mai qui a questâora? â chiesi a mia volta, mentre lui chiedeva tre caffè tramite un interfono
â questa è una facility che non si ferma maiâ lavoriamo 24 ore al giorno, sette giorni la settimana, 365 giorni allâanno: questa settimana faccio il turno di notte â
In quel momento entrò una donna, che indossava una specie di tuta marrone, informe, con un numero arancione stampato davanti e dietro, ai piedi delle ciabatte come quelle delle infermiere, e al collo il collare degli schiavi.
Senza alzare gli occhi appoggiò un vassoio, mise i caffè lo zucchero e i cucchiaini sul tavolo e se andò, senza che nessuno la guardasse nĂŠ ringraziasse.
Dopo aver bevuto il caffè, il dirigente mi disse â allora, è tutto confermato? â
â tutto come dâaccordo â risposi io
â bene, allora mi servono alcune firmeâ â disse lui, mettendomi davanti alcuni fogli, che firmai dove mi indicava.
â ed ecco a lei le credenziali per lâaccesso onlineâ â aggiunse mentre mi consegnava una busta
â bene, direi che è tutto a posto, se non ha altre domande â disse lui infine, alzandosi
â no, tutto chiaro, come dâaccordo â mi alzai a mia volta, e gli strinsi la mano
â allora â disse lui alla guardia, che nel frattempo si era alzata â procedi pure â
La guardia si mosse velocemente e afferrò Francesca per un braccio.
Francesca urlò e tentò di divincolarsi.
La guardia, con un movimento fluido ed esperto, le bloccò lâaltro braccio dietro la schiena torcendoglielo, cosĂŹ che lei si piegò e si fermò, mentre gridava â ahaaa mi fai male mi spezzi il braccio â
â vai pure â disse il dirigente
e la guardia uscĂŹ, spingendo Francesca che provava a divincolarsi, per quel poco che la presa della guardia le consentiva.
â allora, come mi diceva â mi disse il dirigente accompagnandomi al parcheggio â la sua nuova schiava ha unâindole ribelle â
â sĂŹ, esatto, come ha vistoâ â
â e ha perfettamente ragione anche sul resto: se dopo un poâ di frustate e privazioni non ha ancora ceduto, non câè molto che lei possa fare, o almeno nulla che lei possa fare per avere un risultato immediatoâ â
â proprio cosĂŹ â risposi â non ho voglia di lottare con lei ogni giorno per mesi, per ottenere semplicemente ciò a cui ho dirittoâ quando vi hi contattato, su suggerimento si alcuni esperti trovati sui forumâ â
â ha fatto benissimo â mi interruppe lui â quando abbiamo cominciato, alcuni anni fa, ad offrire questo, come dire, servizio, sembrava una stupidaggine, e invece oggi in certi periodi abbiamo addirittura una lista dâattesaâ â
Io annuii.
â torna a casa o dorme in hotel da queste parti? â
â no, parto subito â
â unâultima cosaâ â disse lui, mentre sfogliava le carte che avevo firmato â tanto per essere sicuroâ mi confermaâ alloraâ âniente rapporti sessualiâ? â
â confermo â
â âniente frustate se non strettamente necessarioâ? â
â confermo â
â âprivazione del sonno, del cibo, dellâacquaâ consentito? â
â consentito â
â âaltre forme di punizione e stimoloâ, come pungolo elettrico, acqua fredda, incatenamento eccetera, consentite, se non lasciano danni permanenti, vero? â
â esatto â
â âe infineâ ha chiesto di tenerla a contatto solo con schiavi che non parlino la nostra linguaâ â
â sĂŹ, voglio che si senta del tutto isolata e senza nessun conforto o aiuto â
â ottima ideaâ potremmo copiargliela â sorrise, mentre mi salutava e io entravo in macchina.
Mentre guidavo verso lâautostrada pensavo a Francesca.
Sapevo cosa doveva giĂ esserle successo, in quei pochi minuti.
Presa, spogliata, buttata in una stanza vuota, obbligata a indossare una tuta da lavoro di tela grezza e scarpe informi e senza lacci.
Gettata in una camerata con solo un materassino di spugna buttato a terra per letto.
Erano le cinque.
Tra mezzâora, mi aveva detto il dirigente, nella miniera sarebbe cambiato il turno.
Sarebbe toccato a Francesca.
PerchĂŠ era questo che avevo fatto.
Avevo mandato Francesca lavorare come schiava in una miniera.
Per i tre giorni successivi, passai quasi molto tempo davanti al computer.
Con le credenziali che mi avevano dato, avevo accesso al sistema di telecamere della miniera, e il programma era impostato in modo da seguire sempre Francesca.
Il lavoro era durissimo.
Turni di diciotto ore, la miniera a cielo aperto era quasi gelida nelle ore notturne, e calda come un forno durante il giorno. Quando pioveva (come accadde il secondo giorno) diventava un acquitrino fangoso, dove gli schiavi affondavano fino alle ginocchia.
Qualsiasi lavoro, spaccare pietre, spostare ghiaia, rimuovere attrezzi, era fatto a mano, senza alcun aiuto di macchine: il costo della manodopera era talmente basso che qualsiasi macchinario sarebbe stato antieconomico.
Francesca provò a ribellarsi, il primo giorno.
Un guardiano, in modo molto professionale ed esperto, la colpĂŹ ripetutamente con un pungolo elettrico.
Francesca cadde nella polvere, si rialzò, disse qualcosa (lâaudio non era cosĂŹ buono come le immagini, e câera un forte rumore di fondo, tanto che le guardie avevano delle cuffie protettiveâ), la guardia la colpĂŹ di nuovo, lei cadde, si rialzò e la scena si ripetè altre tre volte.
Alla fine, Francesca non si rialzò.
La guardia si avvicinò, la minacciò con il pungolo e lei si alzò e andò nella direzione indicata dalla guardia.
Le ore successive furono molto noiose, almeno per me.
Francesca spostò pietre, si caricò sulle spalle sacchi pieni di terra, spinse carrelli dâacciaio si vecchie rotaie, raccolse sassi, pietre, terra, venne attaccata a un grosso carro insieme ad altri nove schiavi a trainare il carrello su una salita, e tanti altri lavori.
Francesca non era abituata, non conosceva il lavoro, era disperata e spesso cadeva, inciampava, faceva cadere a terra quello che portava, e questo bloccava il lavoro.
Ogni volta le guardie le urlavano contro, e la punivano con vilente scosse del pungolo elettrico.
Francesca pianse, urlò, pregò, ma alla fine riprese sempre a lavorare.
Nella mezzâora di pausa per il pranzo, il primo giorno, Francesca si sedette con in una mano il piatto dâacciaio sporco nel quale avevano versato una sbobba grigiastra, e nellâaltra un bicchiere dâacqua.
Non appena si sedette, però, un gruppo di quattro schiavi la circondò e le strapparono il piatto e lâacqua.
Francesca provò a reagire, ma bastarono due schiaffi per farla desistere.
A sera, dopo diciotto ore di lavoro, quando finalmente arrivò nella camerata, si buttò sul suo materassino e si addormentò.
I due giorni successivi furono identici, tranne per il giorno di pioggia, che rese il lavoro ancora piĂš faticoso.
La mattina del quarto giorno mi misi in macchina e guidai fino alla miniera.
Arrivai verso lâora di pranzo, e mangiai alla mensa dei dipendenti, in compagnia del dirigente e del capo delle guardie.
Dopo un ottimo pasto, il dirigente mi chiese â procediamo? â e io dissi di sĂŹ.
La stanza era vuota, con pavimento, pareti e soffitto di cemento grezzo.
Solo una porta dâacciaio, e una invisibile telecamera sopra la porta.
A una parete, erano fissati un gancio e un cavo, di quelli da attaccare a un collare.
Io e il dirigente ci sedemmo in una stanza accanto, con uno schermo che trasmetteva le immagini della telecamera.
Dopo pochi minuti, il capo delle guardie portò Francesca nella stanza, ânon ti muovereâ, le disse, e uscĂŹ.
Francesca tremava, aveva gli occhi scavati, le labbra screpolate e si stringeva le braccia attorno al corpo.
Ma non mosse nemmeno mezzo passo, restando esattamente dove era.
Era evidentemente terrorizzata.
Aspettammo ancora cinque minuti, bevendo un caffè.
â credo possa andare, adesso â mi disse il dirigente.
Io annuii, presi la bottiglietta dâacqua che mi porgeva e mi alzai.
Aprii la porta.
Francesca mi guardò, allâinizio sembrò quasi non riconoscermi.
Poi capĂŹ, fece per muoversi, ma si trattenne.
Tremava ancora piĂš forte, adesso.
Il respiro era violento, e mosse appena una mano verso di me.
Io entrai e chiusi la porta.
Rimasi fermo, a due passi di distanza.
Francesca mi guardava disperata, scuotendo la testa come a dire âno, noâ.
â parla â le dissi
Francesca aprĂŹ la bocca, ma le uscĂŹ solo un rantolo dalle labbra.
â bevi â le dissi, allungando la bottiglia, e le bevve in un unico sorso tutta lâacqua.
â parla â ripetei
-poâ portami via â sussurrò â ti pregoâ portami via â ripetè, allungando di nuovo la mano verso di me, ma senza muoversi.
Io rimasi fermo, in silenzio.
Aspettavo.
â faròâ farò tuttoâ tuttoâ sempreâ qualsiasi cosaâ ti pregoâ portami via eâ tuttoâ â non riuscĂŹ a proseguire, ma scoppiò a piangere, disperata, e lentamente si accasciò a terra, prima in ginocchio, poi sdraiata, con la testa tra le mani â portami via, portami via â ripeteva tra i singhiozzi.
â va bene â dissi â ma te lo dico una volta sola. Se non sarò contento di te, ti restituirò alla casa dâaste, e avviserò la miniera: mi hanno detto che sei unâottima lavoratrice, e che sarebbero ben felici di comprarti â
Francesca, non appena sentÏ le mie parole, strisciò fino davanti a me e mi abbracciò le caviglie.
â no no mai piĂšâ tuttoâ tuttoâ portami via â
Il viaggio in auto fu lungo, ma Francesca dormĂŹ tutto il tempo.
Appena entrati in casa, le dissi â prendi quello che vuoi dal frigo e dalla dispensa e mangia tutto ciò che vuoi. Fatti una doccia, o un bagno, e vai a letto. Dormi fino a domani. Domani ricominciamo la nostra vita insieme â
Francesca sussurrò solo â grazieâ grazie â e si avventò al frigo.
Io mi misi comodo, sul divano, mentre la misteriosa voce di Melanie De Biasio usciva dalle casse e riempiva la casa.
Non è la violenza, o il dolore a convincere le persone a fare qualcosa che non vorrebbero fare.
è la paura, di quella violenza, di quel dolore.
Tra me e Francesca da quel momento la miniera era come una minaccia non dichiarata, ma presente e minacciosa.
Adesso Francesca era davanti a me.
In piedi, in soggiorno.
Era pomeriggio, Francesca aveva dormito tutto il giorno, tutta la notte e poi ancora la mattina.
Aveva mangiato, da sola in cucina, prima di buttarsi sul letto.
Si era lavata, e indossava un paio di jeans, sneakers, una tshirt bianca.
Stava meglio, ma i suoi occhi tradivano ancora il terrore puro che aveva provato, per la prima volta, nella miniera.
â dobbiamo parlare â le dissi, e questa volta lei non replicò, non disse nulla. Rimase ferma, in attesa.
â io ti voglio â spiegai â ti ho sempre voluta. Ti ho desiderata, ti ho sognata. E adesso tiâ ho. Non câè altro modo per dirlo. E la veritĂ è che mi sono reso conto che non ti ho mai voluta come fidanzata, come compagna, come amanteâ no, questi pochi giorni mi sono bastati per capire che ti ho sempre voluta cosĂŹ, come ti ho adesso â
Mi alzai, andai in cucina e mi sedetti al tavolo, a capotavola.
â vieni, siedi â le dissi, e lei si sedette alla mia destra.
â ti voglio, e userò tutti i miei diritti e poteri per averti come voglio io. Posso rimandarti alla miniera per un giorno, o due, o una settimana, o un mese, o piĂš, se non fai quello che ti dico. Lo sai, vero? â
Francesca annuĂŹ.
Quando menzionai la miniera, un piccolo tremito la scosse.
â padrone â le dissi allâimprovviso
lei mi guardò, senza capire
â padrone â ripetei
poi aggiunsi â voglio sentirtelo dire. Voglio che mi guardi, e mi chiami âpadroneâ â
Francesca non si mosse.
Mi guardava, seria.
Io attesi.
Dopo pochi secondi, le sue labbra si aprirono e come un soffio lei sussurrò â padrone â
Io annuii.
Lâeffetto che quella parola, uscita dalle sue labbra, mi fece, quasi mi spaventò. Un senso di felicitĂ , di gioia, di completezza mi fece sorridere, felice e come instupidito.
E il cazzo quasi mi esplose nei pantaloni.
â di nuovo â
â padrone â ripetè lei, questa volta con piĂš scurezza
â di nuovo â
â padrone.
â il tuo compito è fare tutto quello che ti dico. Semplicemente questo. Obbedire. Non parlare, non pensare, non chiedere, non discutere. Obbedire. Hai capito? â
Francesca non rispose, ma annuĂŹ lenta.
PerchĂŠ le cose stavano esattamente come avevo letto, sui forum e sui siti.
Dopo la fase della ribellione, quando in un modo o nellâaltro la schiava accetta il suo ruolo, il problema, se cosĂŹ si può dire, è quello della convivenza.
Per capirci, ci sono due differenti scuole di pensiero su come debba essere gestita la vita con una schiava.
Da un lato, ci sono quelli che tengono gli schiavi come animali, anzi forse peggio, li sfruttano per i propri bisogni â lavoro, sesso, o tuttâe due â e non hanno alcuna considerazione nĂŠ interazione con gli schiavi.
La miniera è il tipico esempio di questo approccio. Business oriented, potremmo dire.
Poi ci sono quelli, e sono di solito i âprivatiâ, quelli come me, che invece preferiscono avere una sorta di routine quotidiana, di rapporto personale con lo schiavo.
Io avevo intenzione di provare a fare cosĂŹ, con Francesca.
Alle mie condizioni, naturalmente.
â vai a cambiarti â le dissi â minigonna, scarpe col tacco, camicetta. Io vado a farmi la doccia. Hai cinque minuti per essere pronta, poi vieni direttamente in bagno â
mi alzai e me ne andai.
In bagno, mi lavai i denti, lasciando lo spazzolino appoggiato sul lavello e il dentifricio aperto.
Mi lavai la faccia, e mi asciugai con lâasciugamano, che lasciai appoggiato sul lavello.
Mi spogliai, buttando i vestiti a terra.
Entrai nella doccia, e non chiusi il cristallo.
Iniziai a lavarmi, capelli e corpo, lasciando aperti shampoo e bagnoschiuma.
Mentre mi lavavo, lâacqua fuoriusciva e formava una pozza sul pavimento.
In quel momento la porta si aprÏ e Francesca entrò in bagno.
Indossava una minigonna, non abbastanza mini per i miei gusti, ma insomma, scarpe nere con un tacco medio, camicetta bianca chiusa fino al collo.
Francesca si bloccò, quasi stupita nel vedermi nudo.
â metti a posto â le dissi, mentre continuavo a godermi il flusso dâacqua calda â questo è uno dei tuoi compitiâ mettere a posto quello che io lascio â
Francesca si fermò un momento, poi si avvicinò al lavello, mise lo spazzolino nel bicchiere, chiuse il dentifricio.
â lâasciugamano â dissi, e lei lo prese e lo mise sul suo supporto, ben piegato
â asciuga a terra â dissi allora, indicando la pozza che si era formata davanti alla doccia â non vedi che disastro? â
Francesca si guardò attorno â apri lĂŹ â dissi indicando un mobiletto â e prendi il panno giallo â
Francesca eseguĂŹ, e prese un panno giallo grande piĂš o meno come un foglio A4.
â forza! â
Francesca si piegò sulle ginocchia â no, in ginocchio, se no non finisci piĂš! Tira su lâacqua e strizza il panno nel bidetâ â
Francesca attese un secondo, poi si inginocchiò e cominciò ad asciugare a terra.
Però mentre lei asciugava, io continuavo a farmi la doccia, e lâacqua che buttavo sul pavimento era piĂš di quella che lei riuscisse ad asciugare.
E nel frattempo, gli schizzi dâacqua le finivano addosso, bagnandole la camicetta sulla schiena e la gonna.
Guardarla cosĂŹ, a terra in ginocchio, a fare un lavoro faticoso e sostanzialmente inutile, mi fece venire il cazzo duro.
Guardandola, comincia a massaggiarmelo. Lei alzò gli occhi, mi vide, e unâespressione di rabbia le si dipinse in faccia.
Io la ignorai, e continuai ad accarezzarmi il cazzo.
Poi spensi lâacqua della doccia.
â accappatoio â
Francesca si alzò, prese lâaccappatoio, che era a meno di mezzo metro da me, ma che io non avevo fatto nessun movimento per prendere, e me lo porse.
Me lo misi, ma non lo allacciai, lasciando scoperto il cazzo.
Uscendo dalla doccia, feci attenzione a mettere i piedi nella pozza dâacqua e calpestare con i piedi bagnati proprio la parte di pavimento che Francesca aveva appena asciugato.
Davanti allo specchio, mentre lei riprendeva il suo lavoro, mi asciugai, poi mi tolsi lâaccappatoio facendolo cadere a terra.
â metti a posto â
Francesca si alzò di nuovo, raccolse lâaccappatoio e lo rimise al suo posto.
â muoviti ad asciugare â dissi uscendo senza guardarla.
In camera mi cambiai, indossai boxer, jeans, una tshirt bianca, restai scalzo.
Dopo poco piĂš di due minuti Francesca uscĂŹ dal bagno.
Aveva le ginocchia arrossate.
â spogliati â le dissi
lei mi guardò.
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
â guardami, e spogliati â ripetei, con voce ferma
Lei mi fissò, e dagli occhi cominciarono a scendere le lacrime, senza singhiozzi, senza pianto, solo lacrime.
E le sue mani andarono al collo, cercando di slacciare i bottoni della camicetta, ma le dita le tremavano e non ci riusciva.
Vederla cosĂŹ, le sue lacrime, il suo sguardo, il tremore delle mani, le ginocchia arrossate, mi colpirono come una scarica elettrica.
La volevo.
La volevo con forza, con rabbia, quasi con dolore.
Sentii il cazzo spingere contro la stoffa pesante dei jeans, e mi trattenni a stento dallo strapparle io stesso i vestiti di dosso.
â spogliati! â abbaiai, con forza.
Lei trasalĂŹ, e alla fine riuscĂŹ a slacciare un bottone, e poi un altro, e un altro ancora.
Si tolse la camicetta, e il reggiseno, e io rimasi senza fiato nel guardare quel seno piccolo, sodo, con le areole scure e i capezzoli piccoli.
Francesca senza dir nulla, asciugandosi le lacrime dalle guance si tolse anche la gonna e le mutande, (- le scarpe tienile -, le avevo detto) e rimase nuda, davanti a me.
Questa volta non câera stata la frusta, o la fame o la sete, le minacce, le urla o i pianti.
Questa volta era lĂŹ, nuda, davanti a me e quello che dovevo fare era semplicemente godermi ogni singolo istante.
Mi sedetti sul letto, appoggiandomi alla parete.
â gira su te stessa â
Francesca fece un giro su se stessa, poi si fermò di novo di fronte a me.
â continua, senza fermarti. Ma piĂš lentamente â
Francesca girò, e girò, e girò ancora.
Io imparai a memoria ogni curva, ogni angolo, ogni ombra del suo corpo.
Senza alzarmi, e senza farla smettere di girare su se stessa, mi tolsi in un unico movimento jeans e boxer.
Mi alzai, con il cazzo che puntava verso lâalto, e mi avvicinai a lei.
â fermati â
Le andai dietro, e appoggiai il mio cazzo alle sue natiche, che grazie alle scarpe erano quasi allâaltezza giusta.
â da quanto non scopi? â le sussurrai, mentre appoggiavo le mani sulle sue spalle e annusavo il suo profumo nellâincavo tra collo e spalla-
Francesca non rispose, deglutĂŹ e fece un movimento, una specie di ânoâ con la testa.
â da quanto non scopi? â ripetei
â ioâ â provò a rispondere lei, ma allâimprovviso le lacrime, da silenziose che erano state fino a quel momento, diventarono pianto.
Io la strinsi dolcemente.
Sentire quel corpo nudo, rigido, caldo contro il mio, scosso dai singhiozzi contro il mio cazzo, mi fece quasi venire.
â vediamoâ sei stata presa e messa in prigione dueâ no quattro settimane faâ e in questo tempo nessuno ti ha scopato, vero? â
Sempre piangendo, ma rimanendo ferma contro il mio corpo, Francesca scosse la testa.
â e prima? Da quanto non scopavi? â
Francesca pianse ancora piĂš forte e fece per accasciarsi a terra.
Il ricordo della sua vita precedente, probabilmente.
Ma io la sorressi per le spalle â no no no, resta in piedi, no noâ â
â da un mese? Due ? â chiesi, mentre lei scuoteva appena la testa a ogni mia domanda â di piĂš? Tre mesi? Quattro? â
Ancora no, disse la sua testa.
â sei mesiâ? Un anno??? â
e finalmente lei annuĂŹ appena.
â un annoâ â le sussurrai, accarezzandola gentilmente â è incredibile, veroâ? Per un anno non vai a letto con nessuno, perchĂŠâ chissĂ â vediamoâ avevi troppo da fareâ vero? â
Francesca non rispose, nĂŠ si mosse, e io proseguii â o anche non câera nessuno che fosse abbastanza per te, abbastanza bello, ricco, intelligenteâ o tutte queste cose insiemeâ. Vero? â
Ancora nessuna risposta, solo singhiozzi e la mia mano destra che la accarezza sulla schiena, adesso
â perchĂŠ câè tempo, ci sarĂ tempo per trovare lâuomo giusto, e anche lui dovrĂ sudare, e meritarsi di venire a letto con una come teâ vero? â
Scossi la testa e mi allontanai appena, mettendomi di fronte a lei, cosĂŹ vicino che potevo sentire il caldo del suo fiato sulla mia bocca, e la punta del mio cazzo sfiorare la sua pancia â e invece, allâimprovviso, cambia tuttoâ ed eccoti qua â
â a farti scopare da me âaggiunsi sorridendo appena â e dimmiâ è sempre da un anno che non lo prendi nel culoâ o da piĂš tempo? â
Francesca trattenne il fiato per un attimo, e mi guardò spaventata, scuotendo la testa â ioâ. Io nonâ io no â riuscĂŹ solo a dire, scuotendo la testa
â oh noâ â risposi, sorridendo, stupito â oh no no noâ non mi dire cheâ ah bhe, peròâ certoâ una come teâ ora che ci penso, era quasi scontatoâ una come te non da il culoâ vero? â
Francesca abbassò lo sguardo â guardami! â le dissi, afferrando le sue guance tra le dita della mia mano destra â guardami e rispondiâ non lâhai mai preso nel culo? â
Francesca provò a muovere la testa di lato, ma io la tenevo bloccata â rispondi â
â noâ â sussurrò infine â no â
Persi la testa.
Volevo, dovevo scoparle il culo.
LĂŹ, adesso, subito.
Non câera modo di trattenersi, di aspettare, di prolungare il tutto.
No, la volevo troppo, e lâavrei avuta.
Mi allontanai di un passo, aprii un cassetto e presi un vecchia cintura di cuoio marrone, lunga e morbida.
Infilai la fibbia nel gancio posteriore del collare di Francesca, che mi guardava tremando.
â succhiami il cazzo â le dissi, dando uno strattone verso il basso alla cintura, come fosse un guinzaglio.
Francesca si accucciò davanti a me â in ginocchio â dovetti dirle, e lei obbedĂŹ.
Socchiusi gli occhi quando sentii il calore della sua bocca attorno alla cappella.
Contai fino a dieci, poi le dissi â ti conviene insalivarlo ben bene, perchĂŠ adesso ti inculo e la tua saliva è lâunico lubrificante che userò â
Francesca si bloccò, e si allontanò dal mio cazzo, guardandomi spaventata.
â niente saliva? â chiesi, cattivo â bene, non immaginavo che ti piacesse cosĂŹ tanto farti inculareâ ma vedo che vuoi sentire proprio tuttoâ â
E dicendo cosĂŹ con un altro strattone alla cintura la feci alzare, e poi la buttai sul letto.
â a pecora. Qui â
La strattonai e la feci appoggiare a pecora sul letto, le ginocchia sul bordo, le caviglie e i piedi fuori.
Dovrei fermarmi.
Dovrei farlo durare.
Dovrei far in modo che questo momento sia memorabile.
Dovrei farle dire, e fare, e mille altre coseâ
E forse questo è quasi uno stupro, e forse non dovrei nemmeno farlo.
Tutto questo, e mille altri pensieri, mi passarono per la mente in meno di un secondo.
E scomparirono, non appena vidi che per un attimo Francesca, forse solo per riflesso inconsapevole, o per paura di essere colpita da me, non so, inarcava leggermente la schiena.
Qual piccolo movimento bastò a farle alzare leggermente il culo verso lâalto e, soprattutto, ad allargarle le natiche quel tanto che bastava per farmi vedere distintamente il suo buco del culo.
Attorno allâano la pelle era scura, per almeno un centimetro, forse due, e per un momento, senza motivo, mi trovai a pensare che probabilmente Francesca al mare non era solita usare il perizoma perchĂŠ quellâalone scuro si sarebbe visto.
Le piccole pieghe della pelle si stringevano tese, cosĂŹ strette che non quasi si vedeva nemmeno se ci fosse davvero, un buco lĂ in mezzo.
Mi avvicinai.
Afferrai con la destra la cintura, che pendeva dal collare, me la avvolsi con due giri attorno alla mano.
Tirai leggermente, per far sentire a Francesca che la tenevo stretta.
Lei, istintivamente, alzò la testa ed inarcò di nuovo la schiena.
La tenni cosĂŹ, con la cintura in tensione sul suo collo, e poggiai la mano sinistra sul suo culo.
Con il pollice e lâindice allargai le natiche.
Francesca, forse istintivamente, forse per difendersi, provò a stringere, quasi a chiudere lâaccesso al suo culo.
Sorrisi.
Peggio per lei.
Le appoggiai la cappella tra le chiappe.
Lei le contrasse ancora di piĂš.
Io feci forza con le dita della sinistra, e riuscĂŹ ad allargarle appena per vedere che sĂŹ, il mio cazzo era proprio appoggiato al suo buco del culo.
â Non. Ti. Muovere â scandii.
E spostai la mano sinistra afferrandole i capelli.
Adesso ero appoggiato al suo culo, in piedi accanto al letto, mentre lei era a quattro zampe sul letto, i piedi con le scarpe fuori, il culo in su, e il mio cazzo appoggiato.
Le tenevo stretta per il collare attaccato alla cintura, e le stringevo i capelli, piegandomi un poâ sulla sua schiena.
Sentivo che tremava appena.
Mi fermai.
Posso entrare piano, pensai.
Posso spingere lentamente finchè non sento che cede, e poi scoparla.
SÏ, mi dissi, farò cosÏ.
E proprio in quel momento lei singhiozzò, e scuotendo appena la testa, per quanto poteva senza che le si strappassero i capelli che tenevo in mano, sussurrò â non farmi male â
ânon farmi maleâ? ânon farmi maleâ???
Quelle parole, non so perchĂŠ, mi fecero infuriare.
E mi eccitarono ancora di piĂš, se mai possibile.
Io a questa troia le spacco il culo, altro che ânon farmi maleâ.
E non fu piĂš Francesca, non fui piĂš io, non fu piĂš dubbi, non fu piĂš senso di colpa, non fu piĂš sentimento, amore, vendetta, cuore.
Furono solo il mio cazzo e la mia rabbia, a decidere cosa fare.
Strinsi ancora piĂš forte i suoi capelli, fino a quando sentii un âaaahâ.
Rafforzai la presa sulla cintura.
E spinsi con forza il cazzo nel suo culo.
Il primo affondo si fermò dopo poco piÚ di un centimetro.
Non ero riuscito a infilare nemmeno tutta la cappella.
Il suo culo era cosĂŹ stretto e chiuso che mi faceva quasi male.
Sentivo la pelle delle cappella stirarsi contro il buco stretto e quasi ruvido.
Senza uscire, tornai appena indietro e diedi un secondo colpo, piĂš forte ma meno veloce del primo.
E finalmente qualcosa iniziò a cedere.
E poi sentii come se qualcosa dentro il suo culo avesse fatto âcrackâ.
Lei gridò.
Non un singhiozzo, o un lamento. Un grido, un urlo.
Un vero, puro e disperato urlo di dolore.
Cercò di divincolarsi, ma io tirai con forza i capelli verso lâalto e la cintura verso di me.
Mentre tiravo, diedi unâaltra spinta col cazzo.
La mia cappella si aprĂŹ la strada ed affondai in qualcosa di piĂš morbido e caldo.
Lâanello del suo ano stringeva a metĂ il mio cazzo, adesso, e io arretrai appena e di nuovo spinsi con forza, e di nuovo sentii distintamente i muscoli del suo culo cedere con uno strappo, lasciandomi libero di affondare ancora, ancora piĂš forte.
Francesca gridò ancora, e ancora, e supplicò â basta fermati ti prego fermati â
Ma io non mi fermai e finalmente sentii il suo culo ammorbidirsi appena, e allora iniziai davvero a scoparla, con rabbia, con forza, cercando ogni volta di arrivare piĂš in fondo.
A ogni affondo del mio cazzo, Francesca gridava.
Ogni grido era diverso dal precedente, alcuni erano gutturali, altri acuti, altri ancora quasi dei guaiti, come di un animale ferito.
Mi scoprii a cercare di farle male ogni volta che affondavo dentro di lei, per sentire ancora quei lamenti.
La stanza si riempĂŹ delle sue grida, che si trasformarono piano piano in singhiozzi, e abbassando lo sguardo vidi il mio cazzo, con delle piccole striature rosse del sangue del culo di Francesca.
Averi voluto venirle in bocca, in faccia, a terra e farle pulire con la lingua, ma quando mi piegai, lasciando i capelli e la cintura, per afferrarle con forza i seni, lei si agitò terrorizzata sotto di me, e il suo culo si contrasse proprio mentre mi spingevo con forza dentro di lei.
Non me ne accorsi quasi, e venni, con rabbia, urlando, spingendo il cazzo dentro di lei, aggrappandomi ai suoi fianchi, come se volessi arrivarle nello stomaco.
Quando finalmente estrassi il cazzo, il suo culo si contrasse lentamente, e lâaria si riempĂŹ dellâodore di sperma e merda.
Francesca si accasciò sul letto, chiudendosi in posizione fetale.
Mi scoprii arrabbiato.
Avrei voluto che fosse diverso.
Avevo in mente molte altre cose, avevo sognato questo momento mille volte e lâavevo sognato diverso.
Mi sentivo quasi derubato.
Mi mossi accanto al letto, presi Francesca per i capelli, le alzai la faccia.
Lei mi guardò, terrorizzata.
â pulisci. Lecca. Succhia â le dissi con cattiveria, mentre con la mano le agitavo il cazzo ancora semirigido davanti alla faccia.
Francesca forse sentĂŹ lâodore del mio cazzo appena estratto dal suo culo, o magari fu solo un istintivo moto di ribellione, ma gridò â no! â e girò la faccia.
Non dissi nulla.
Una rabbia fredda mi travolse.
Era durato tutto troppo poco, non mi ero goduto ogni singolo secondo, come avrei voluto, e adesso lei si ribellava.
La afferrai per il collare.
Con tutta la forza la strattonai e trascinai.
Francesca urlò ancora, questa volta di paura.
Io non la guardai, continuai a camminare trascinandola.
Andavo veloce, e lei non riusciva a mettersi in piedi, quindi arrancava a terra.
Entrai nella stanza dei ganci.
Appena se ne accorse, Francesca fece per ribellarsi.
Ma io feci tutto molto in fretta, e in pochi secondi Francesca fu di nuovo bloccata, attaccata alla parete con il cavo fissato al suo collare.
â nuova regola â le dissi infine, con rabbia, guardandola dallâalto in basso.
â per avere cibo o acqua, devi prima ingerire la mia sborra. Tornerò domani. Se vorrai acqua o cibo, dovrai convincermi a darti un poâ di sborra da ingoiare â
E me ne andai, sbattendo la porta e spegnendo la luce, lasciandola al buio.
Mi misi sul divano, chiusi gli e ripensai con calma a tutto quello che era successo nei minuti precedenti.
E mi feci una delle piĂš belle seghe della mia vita.
Il problema di avere uno schiavo â o una schiava, come nel caso mio e di Francesca â sta nelle regole.
O meglio, nella mancanza di regole.
Pensateci.
Nella nostra vita, ogni relazione che abbiamo con gli altri, dalle piĂš complesse come la famiglia o il lavoro, a quelle piĂš semplici e banali come il traffico cittadino o anche solo recarsi a fare la spesa, è regolata da una serie di regole.
Alcune di queste regole sono scritte, la maggior parte sono una sorta di convenzione non scritta che, però, permette di vivere e convivere in una società .
Ecco, con una schiava il problema è proprio che non ci sono regole.
A parte il divieto di ammazzare la schiava, o di causarle dei danni permanenti, il rapporto tra padrone e schiava non ha nessuna regola.
O meglio, le regole sono necessarie, ma non ne esistono, al momento in cui nasce il rapporto.
è il padrone che decide le regole, e le applica giorno dopo giorno, quasi insegnando alla schiava, e anche a se stesso, come interpretarle.
Quindi anche per noi era giunto il momento di chiarire le regole che avrebbero governato la nostra quotidianitĂ .
PerchĂŠ è evidente che, dopo i primi giorni ogni cosa, anche una cosa folle come questa, diventa vita quotidiana.
***
Al mattino, mi alzai con calma.
Andai in bagno, mi feci una doccia, mi vestii in maniera sportiva e comoda, e feci una leggera colazione leggendo il giornale sul tablet, mentre lo strano mix musicale di Yussef Kamaal suonava in sottofondo.
Poi presi la mia mug, la riempii di caffè americano fumante, e mi recai nella stanza di Francesca.
Prima di aprire la porta, presi una sedia e una piccola borsa.
Entrando, la prima cosa che notai fu lâodore.
Odore di chiuso, di sudore, di fatica.
Francesca era nuda, accovacciata a terra, i lunghi capelli scompigliati le coprivano la faccia.
Dormiva, ma si svegliò subito sentendo la porta aprirsi.
Istintivamente alzò le mani, quasi aggrappandosi al cavo che legava il collare alla parete, e si mise seduta, spalle al muro, in posizione di difesa.
Io misi la sedia appena dietro il segno a terra che indicava il punto oltre il quale Francesca non sarebbe potuta arrivare.
Sempre senza dire nulla, mi sedetti.
La guardai, soffiando piano sulla mug e aspirando lâaroma amaro del caffè.
Poi le presi un minuscolo sorso, tenendolo in bocca con le labbra aperte e aspirando per non scottarmi.
â è una miscela che mi faccio fare apposta dalla torrefazioneâ â le dissi â sai, siccome lo bevo amaro, mi piace che abbia un sapore non troppo acido â
Francesca mi guarda, stupita.
Dopo quello che è successo ieri sera, certo non si aspettava una conversazione normale, quasi banale.
â come stai? â le chiesi
Lei alzò lo sguardo e mi fissò.
Io non mi feci, nulla, se non soffiare ancora sul caffè e prenderne un altro sorso.
â male â mi rispose finalmente â ho freddo. Ho fame, ho sete. E mi fa maleâ â non finĂŹ la frase, ma immaginai che intendesse il culo, dopo quello che era successo la sera prima.
â e devo andare in bagno â aggiunse
Io annuii, presi un altro sorso di caffè e risposi â va bene. Ma ce la fai a resistere ancora un poâ? â
Lei non rispose e io lo presi come un sĂŹ.
â dobbiamo parlare, e voglio farlo adesso. Va bene? â
Di nuovo silenzio.
â cosĂŹ non può funzionare â iniziai, mentre lei stringeva le braccia al petto â hai freddo? â e lei annuĂŹ
Mi alzai, uscii e tornai con una coperta, che le gettai.
Lei se la mise intorno alle spalle e sul petto.
Vederla cosĂŹ, nuda, con una coperta a coprirle spalle e seni, seduta con le gambe rannicchiate che mi lasciavano intuire la figa nuda appoggiata sul pavimento, mi fece subito venire voglia di smettere di parlare e di scoparla di nuovo, lĂŹ per terra.
Ma mi trattenni.
â cosĂŹ non può funzionare â ripresi â e sai perchĂŠ? PerchĂŠ ieri sera ho finalmente capito una cosa che avevo forse intuito, ma non mi era chiara â
La fissai intensamente, ma dovetti distogliere lo sguardo, perchĂŠ sentivo la voglia di lei crescere.
â ho capito che mi piace farti male â le dissi
Francesca mi fissò, con i suoi meravigliosi occhi scuri, grandi e profondi.
â è la veritĂ . è vero che mi piaci, è vero che provo una speciale attrazione per te, ed è certamente vero che sei una delle donne piĂš attraenti e sexy che abbia mai conosciutoâ â
feci una pausa, poi la guardai e continuai â ma ieri sera ho capito che farti male è la cosa che mi piace di piĂš â
Rimanemmo in silenzio.
Io fermo, seduto, con la mia tazza in mano.
Lei per terra, nuda, avvolta nella sua coperta.
Io la fissavo, lei mi fissava.
Poi lei parlò â seiâ sei un pazzoâ malatoâ â
Io annuii â forse. Non lo so. Però no, non credo. Esiste da anni il sadismo, e molti studi dicono che anche in maniera latente è presente praticamente in tutti noiâ pensa agli uomini che quando ti hanno scopato ti hanno magari dato una sculacciata, o tirato i capelli o bloccato i polsi sopra la testa o dietro la schienaâ â
â non è la stessa cosa â mi interruppe lei
â e invece sĂŹâ sei sicura che se quegli uomini si fossero trovati nella mia posizione, cioè quella di poterti fare tutto quello che volevano, si sarebbero limitati a una sculacciata? Io non credo â
Francesca fece per rispondere, ma la interruppi â e poi non è cosĂŹ importante, perchĂŠ qui si tratta di noi, di me e di te. E ti sto dicendo che a me piace farti male. Mi piace il tuo dolore, mi eccita. Mi eccita il tuo dolore fisico, e anche quello psicologico â
â e quindi? â mi chiese lei, fissandomi â cosa posso farci io? â
â tu, insieme a me, devi trovare un modo per gestire questaâ cosa â
Mi alzai.
In piedi, davanti a lei seduta a terra, seminuda.
â quindi ti farò male, e mi divertirò a farlo. Ma tu dovari aiutarmi, dovremo trovare un equilibrio tra la nostra quotidianitĂ , la mia e la tua vita, la mia voglia di fare del sesso con te eâ beh, diciamo la mia voglia di vederti piangere, di tanto in tanto. Possiamo provarci insieme per favore? â
Francesca non rispose.
Poi lentamente si alzò in piedi, avvolgendo la coperta attorno al petto, come si fa con lâasciugamano dopo una doccia, e la coperta le arrivava appena sotto lâinguine.
â adesso posso andare in bagno? â mi chiese
Io feci un passo in avanti, avvicinandomi.
Il suo odore era piĂš forte, cosĂŹ da vicino.
Feci un altro passo, e mi misi di fronte a lei.
Senza dire nulla, presi un lembo della coperta e gliela sfilai.
Lei rimase ferma, in piedi davanti a me, nuda.
Sempre senza dire nulla, mossi la mia mano e le appoggiai il palmo sulla figa, facendo un leggera pressione con il dito medio.
Francesca ebbe un sussulto, ma rimase ferma.
DeglutÏ, e mi guardò.
â per favore â dissi
â adesso posso andare in bagno, per favore? â mi chiese di nuovo
â sĂŹ â risposi â e nellâarmadietto troverai il necessario: sento che stanno ricrescendo i peli, datti una sistemata qui â aggiunsi, muovendo leggermente la mano, facendole sentire il leggero ruvido dei peli attorno alla figa â attorno al culo, poi le ascelle e tutto il restoâ â
Tolsi la mano, e liberai il collare dal cavo.
Francesca non mi guardò nÊ disse nulla, ma si avviò verso il bagno.
Io le guardai il culo, nudo.
Poco dopo bussai alla porta del bagno.
Non câera chiave, e avrei potuto semplicemente entrare, ma bussai.
â sĂŹ? â rispose la voce di Francesca
â quando hai finito, vai in camera, vestiti e poi vieni da me. Non metterci troppo â
Dopo una mezzâora ero in soggiorno, sul divano, a leggere un libro sulla guerra dei sette anni (quella della seconda metĂ del 1700 per il possesso della Slesia, per intenderci; dâaltronde i gusti un poâ particolari li ho anche sulle letture, e non solo in fatto di sessoâ), quando finalmente arrivò Francesca.
Pantalone nero, morbido, camicetta nera, sneaker bianche ai piedi.
â togli quelle scarpe e metti qualcosa con il tacco alto â le dissi, riprendendo subito a leggere â questa è una regola da seguire sempre â aggiunsi, mentre lei senza dir nulla si allontanava.
Tornò pochi istanti dopo, con delle scarpe scure con il tacco alto, aperte davanti e chiuse con un laccetto sotto la caviglia.
â siediti â le dissi, indicando la poltrona â hai pensato a quello che ti ho detto? â
un cenno di assenso.
â e cosa ne pensi? A parte che sono un pazzo, maniaco e malato, che lâhai giĂ detto e non vorrei tornarci sopra â
Francesca si appoggiò allo schienale della poltrona e accavallò le gambe.
Non câè nulla da fare, bastò quel gesto a far emergere immediatamente lâimmagine della donna sicura, di successo, conscia della propria bellezza del proprio fascino.
E, di conseguenza, a farmi venire subito voglia di lei.
Francesca sospirò, mi fissò e disse â cosa posso pensare? Che siccome puoi fare tutto quello che vuoi, come ieri sera, quello che penso io non vale nulla â
â in un certo senso hai ragione, ma quello che voglio evitare è proprio che si ripetano momenti come quelloâ â
Francesca mi guardò â e come pensi di fare? â
â con delle regole. Ci saranno delle regole, e tu saprai che se le seguirai non succederĂ nulla di, diciamo cosĂŹ, eccessivo. Rispettando le regole, tu eviterai le cose peggiori, e io avrò comunque modo di fare quello che mi piace â
â mi spiace, non capisco â
â lo so, non è molto chiaro, e nemmeno io sono sicuro di come far funzionare la cosa nella realtĂ , ma ho unâidea ben chiara di quale sia il punto di partenza â
â e qual è? â chiese Francesca
â è semplice. Io do gli ordini, e tu obbedisci â
â tutto qui? â
â tutto qui. Però pensaci bene: finchè tu obbedisci, sei piĂš o meno sicura che non ti accadrĂ nulla. Dâaltra parte io, quando avessi voglia di fare qualcosa, diciamo cosĂŹ, di particolare, te lo ordinerò: se lo farai, sarò felice; se non lo farai, ti punirò e poi mi prenderò lo stesso ciò che voglio, e sarò felice lo stesso, anche se meno sereno. Che ne dici? â
Francesca mi guardò.
Rimase in silenzio, seduta.
Io la osservai, e come sempre la trovai bellissima.
â Ma non pensare che sia facileâ â aggiunsi
Francesca mi guardò e accennò un sorriso triste, e finalmente parlò, quasi in un sussurro â dopo quello che mi è successo in queste settimane, nemmeno respirare mi può piĂš sembrare facileâ -.
***
Avrei potuto, e voluto, riprendere immediatamente i miei giochi.
Avrei voluto dare immediatamente sfogo ai miei desideri, liberare quella specie di demone che sentivo agitarsi dentro di me, in quel luogo speciale che sta a metĂ tra il cuore e il cazzo.
Ma avevo anche pensato che in quel momento, dovevo giocare con le emozioni di Francesca.
Era il momento di farle sembrare, sentire, di essere entrata in una routine, in unâabitudine certo non piacevole, ma accettabile.
Volevo che credesse che alla fine, se si fosse comportata decentemente, avrebbe potuto in qualche modo prendere un certo controllo sulla situazione.
CosĂŹ mi alzai, mi stirai sbadigliando e dissi â io devo uscire, per lavoro. Starò fuori fino allâora di pranzo. Quando torno, voglio trovare apparecchiato per me, il cibo pronto, in caldo, e la ciotola per terra per teâ â
Lei mi guardò, percepii un fremito quando le dissi della ciotola, ma non fece commenti.
â per oggi possiamo anche saltare la regola che ho stabilito ieriâ quella per la quale non puoi mangiare se prima non⌠vabbè, insomma, se hai fame fai pure colazione â
Andai in camera, mi preparai, mi misi un abito grigio, leggero, scarpe nere a coda di rondine, camicia azzurra e cravatta scura.
Preso il cappotto leggero, e uscendo mi girai e le dissi, quasi per caso â ah, a propositoâ vedi quelle piccolissime scatoline bianche negli angoli sul soffitto? Ecco, sono telecamere. Tutto quello che fai quando non ci sono lo posso vedere in diretta, e poi è registratoâsolo perchĂŠ tu lo sappia â
In realtĂ le telecamere erano quelle dellâantifurto, e la qualitĂ non era niente di speciale, ma lei non lo sapeva.
Le dissi cosĂŹ solo per farla stare attenta e non farle venire in mente strane idee.
Tornai a casa dopo poche ore.
â sono a casa!! â urlai, felice, mentre chiudevo la porta dietro di me.
Mi tolsi le scarpe e le lasciai in mezzo al soggiorno, e feci lo stesso con cappotto, giacca e cravatta cravatta.
Francesca arrivò veloce dalla cucina.
â raccogli e metti via â ordinai, e lei ubbidĂŹ.
Mi lavai le mani e sedetti a tavola.
Era apparecchiato per uno.
Mentre lei metteva a posto le mie cose, notai a terra una ciotola dâacciaio e unâaltra ciotola, piĂš bassa, bianca.
Sorrisi.
Francesca arrivò subito dopo.
Non era mai stata una grande cuoca, troppo impegnata, troppo donna in carriera, e cucinare era troppo da donna di casa, per lei.
Ma si era impegnata, e la pasta al pomodoro che mi mise nel piatto non era male.
Francesca rimase in piedi.
Io la guardai, guardai quello che avevo nel piatto e la sua ciotola, a terra.
â prendi un piatto, e siediti â le dissi.
Francesca senza dir nulla apparecchiò e si sedette.
â mangia â
E iniziò a mangiare.
Fu un pranzo molto strano, in silenzio, io che leggevo un libro sul tablet ignorandola, mentre anche lei mangiava in silenzio.
Finito di mangiare, mi alzai.
â sistema tutto, qui, poi portami un caffè â
Pochi minuti dopo, Francesca mi raggiunse in soggiorno, con un vassoio con il caffè.
Lei restò in piedi, ferma, mentre io sorseggiavo il caffè.
â buono â dissi, e le allungai la tazzina che riportò in cucina.
Quando tornò, la guardai e dissi â adesso ci vuole un poâ di sesso, che ne dici? â
Francesca contrasse leggermente le labbra, ma non disse nulla.
â spogliati â
Lei ubbidĂŹ.
â tieni le scarpe â
Nuda, in piedi davanti a me, alla luce del primo pomeriggio che entrava attraverso le tende chiare del soggiorno, la guardai e di nuovo pensai che fosse la donna piĂš bella che avessi mai visto.
Di nuovo, mi trovai a immaginare di colpirla, scoparla con rabbia, sentirla gemere e piangere, lasciare i segni rossi dei colpi sui suoi seni, sui glutei, dietro le cosce, sulla schiena.
Sentii il cazzo farsi rigido nei pantaloni, e mi fermai un momento, per farmi forza e proseguire come avevo deciso.
â vieni qui â e lei si avvicinò
le poggiai la mano allâinterno delle cosce, e poi lentamente sulla figa.
Francesca ebbe un fremito, ma non si ritrasse.
â bravaâ â sussurrai â da ora in poi, ogni volta che ti tocco la figa, devi sospirare di piacere â
Allontanai la mano, poi di nuovo la accarezzai, e la guardai negli occhi; Francesca socchiuse gli occhi ed emise un suono soffocato, a metĂ tra un sospiro e un gemito.
â piĂš forte â e di nuovo la accarezzai, questa volta muovendo appena la mano, e lei aprĂŹ leggermente la bocca e fece una specie di âoooohâ, leggero ma convincente.
â cosĂŹ va giĂ meglio â dissi â fammi sentire come vai avanti â e cosĂŹ dicendo continuai ad accarezzarla muovendo la mano e spingendo appena il medio contro le sue labbra, strette e chiuse.
I suoi sospiri si fecero piĂš intensi, i gemiti piĂš forti.
Fingeva, naturalmente: obbediva a quello che le avevo ordinato.
Le sue labbra della figa erano strette e chiuse, e quando spinsi appena un dito sentii che era rigida e secca, quindi era tutta una finzione. Apprezzai ancor di piĂš la sua devozione.
â in ginocchio â ordinai, e lei eseguĂŹ.
â toglimi tutto â dissi, indicando i pantaloni, e lei veloce ed efficace mi tolse pantaloni, calze e mutande.
Rimasi nudo, solo con la camicia, con il cazzo dritto e la cappella scura.
Francesca mi guardò.
â succhia â le dissi, e appoggiai la testa allo schienale della poltrona
Francesca si chinò sul mio cazzo, e lo prese in bocca, e cominciò a succhiare, accarezzandomi con una mano lâasta e con lâaltra le palle.
â sei brava â le dissi, ed era vero
lei non rispose, e continuò.
â guardami â le ordinai, e lei alzò gli occhi â quando mi succhi il cazzo, mi devi sempre guardare negli occhi â ordinai
e mi godetti quel lungo pompino.
Di quando in quando piegavo la testa allâindietro e chiudevo gli occhi, per poi riaprirli e vedere Francesca che mi guardava, e mi perdevo godendomi la vista del mio cazzo che affondava tra le sue labbra e i suoi occhi, che non riuscivano a mascherare del tutto la rabbia che provava.
â fammi venire â le dissi, e lei si impegnò ancora di piĂš.
Ma io sono uno di quegli uomini che fanno fatica a venire con un pompino, e per quanto si impegnasse, nemmeno Francesca ci riusciva.
A un certo punto, sentii che appoggiava il dito medio sul il mio ano, accarezzandolo lentamente, e poi si fermò, provando appena a spingere: senza smettere di fare su e giÚ col mio cazzo in bocca mi guardò, come per fare una domanda.
Io sorrisi e dissi â oh sĂŹ, puoi farloâ ma devi leccarlo per bene, prima â
Francesca allora smise di succhiarmi il cazzo e vidi che si infilava lâindice in bocca.
â non intendevo il dito â le dissi
Lei si bloccò.
Senza darle tempo di dire o fare nulla, le misi una mano sulla testa e la guidai sotto il mio cazzo, sotto le mie palle, mentre mi sdraiavo un poâ, spingendo in avanti il bacino.
â leccami, leccami tutto, spingi dentro la lingua â
quando Francesca esitò, bastò tirarle appena i capelli e lei cominciò a fare quello che le avevo ordinato.
La sua lingua era calda, morbida e curiosamente ruvida sul mio buco del culo.
Quando spinsi con la mano la sua testa verso il basso, sentii la sua lingua lentamente infilarsi nel mio culo, prima avanti e indietro e poi, dopo unâaltra spinta alla sua testa, iniziò a leccarmi lâinterno dellâano in modo circolare.
Con la destra mi accarezzai il cazzo, mentre con la sinistra guidavo la sua lingua.
Quando sentii di essere vicino a venire, la tirai su, le infila di nuovo il cazzo in bocca e sospirai â fammi venire, adesso â
Francesca si impegnò a succhiarmi il cazzo e, guardandomi negli occhi, appoggiò lâindice al mio culo pieno della sua saliva e lentamente lo spinse dentro.
Venni, gridando, e afferrandole la testa e tenendo il cazzo nella sua bocca, perchĂŠ volevo venirle in bocca e non in gola.
â succhia â
le dissi, e Francesca succhiò e ingoiò.
â pulisci, piano piano â sospirai poi, lasciandomi andare sulla poltrona, e Francesca mi succhiò dolcemente il cazzo, leccandomi piano piano finchè non la allontanai.
â devo uscire di nuovo â sospirai dopo qualche minuto â tornerò per cena.
Mentre uscivo, mi chiesi se sarei riuscito a trattenermi anche alla sera, facendo il bravo come avevo fatto prima.
Passai del tempo online.
Lo devo ammettere, cercavo un modo per rimandare.
Rimandare il momento in cui avrei dovuto far diventare la nostra, come chiamarla, ârelazioneâ? stabile, abitudinaria, forse, paradossalmente, ânormaleâ.
Avevo paura di non sapere gestire la quotidianitĂ tra me e Francesca, di non riuscire a convivere, da padrone, con una schiava.
E quindi via, online, alla ricerca di un modo per sfuggire da un tran tran che non ero ancora pronto a gestire.
Alla ricerca di qualcosa da fare con una schiava, qualcosa che fosse speciale, che riempisse di novitĂ e stupore unâaltra giornata.
E alla fine, in mezzo al mare magnum della rete, delle mille bizzarrie, tra la violenza estrema da un lato, e i gruppi di coloro che alla fine si erano innamorati della propria schiava o del proprio schiavo dallâaltro, passando una perversione dopo lâaltra, scuotendo la testa e sorridendo di fronte alle mille follie e fantasie della mente umana, mi fermai; perchĂŠ avevo trovato che câera qualcuno che condivideva una mia piccola e segreta fantasia, e ne aveva anche fatto un lavoro.
Il mondo della schiavitĂš, una sempre nuove opportunitĂ da cogliereâ
â oggi usciamo â le dissi.
Dal giorno dellâasta, Francesca non era mai uscita.
Mi guardò
â vestiti normale, sportiva, e metti scarpe da ginnastica e calze comode, come se dovessi camminare un poâ â
Francesca mi guardò, dubbiosa, ma io non aggiunsi altro.
In macchina, mentre guidavo, Francesca sedeva accanto a me.
La ignorai, ascoltando la musica, cantando, facendo diverse telefonate, parlando liberamente e comportandomi come se lei non ci fosse.
In questo, almeno, stavo diventando bravo.
Lasciammo la cittĂ , e guidai per la campagna, passando per diversi piccoli paesi, prima di prendere una piccola strada e inoltrarmi per quasi unâora in una zona collinare che sembrava disabitata.
Finalmente arrivammo a un cancello, che si apriva su una recinzione verde scuro.
Non câerano indicazioni, ma quando dissi il mio nome a un citofono con una telecamera, il cancello si aprĂŹ e una voce metallica disse âsegua la strada fino alla villaâ.
La villa era grande, elegante senza essere nĂŠ imponente nĂŠ lussuosa.
La tipica costruzione di campagna, sulla cima di una piccola collina, circondata da prati, alberi, campagna, con un grande corpo centrale e dietro, come vidi mentre parcheggiavo sulla ghiaia, altri edifici di servizio, meno eleganti e piĂš funzionali.
Entrammo.
Francesca mi seguiva.
Avevo pensato di metterle il guinzaglio, ma decisi di no.
Ci accolse una giovane segretaria.
Mi fece accomodare in una bella sala, dove sedetti su una poltrona, davanti a un tavolino.
La ragazza mi offrĂŹ del caffè e mi informò che in pochi minuti âla signoraâ sarebbe arrivata.
Non si rivolse nÊ guardò mai Francesca.
Che rimase ferma, in piedi, accanto alla poltrona.
Nei pochi minuti che seguirono, io scorsi distrattamente le notifiche sul telefono, senza parlare o guardare Francesca che, lo sentivo, cercava di capire dove fossimo, e cosa la aspettasse.
Almeno, questo luogo e lâaccoglienza non avevano nulla a che fare con la miniera, immaginai che stesse pensando.
La porta si aprĂŹ e io mi alzai.
Per prima entrò una signora, sui quarantâanni, distinta e sorridente.
Dietro di lei, un uomo di poco piĂš giovane, con pantaloni di velluto e una giacca da lavoro.
Una volta seduti, la signora disse â allora, è la sua prima volta, vero? â
Io annuii
â io mi occupo dellâamministrazione â mi spiegò â mentre il mio collega â disse, indicando lâuomo che sorrise â è il manager delle attivitĂ â
â câè qualche domanda che vuol farmi? â mi chiese lui, cortese
â sĂŹ â risposi io â ma vorrei che lei non fosse presente â aggiunsi, indicando Francesca
â nessun problema â sorrise la signora, che si alzò e socchiuse la porta, chiamando la ragazza che ci aveva accolti â portala fuori â disse, e la ragazza prese Francesca per un braccio e la condusse fuori.
â allora, cosa voleva sapere? â mi chiese lui, e io gli feci tutte le domande e lui mi diede tutte le risposte.
Poi estrasse da una cartella alcune carte â ecco una mappa, con tutti i dettagli. Questa in rosso è la zona che le è stata riservata, poichĂŠ come da sua richiesta per questa prima volta non vuole altre persone allâinterno di quello che noi chiamiamo il âperimetroâ. Questo â mi disse, consegnandomi una specie di piccolo telecomando â è per qualsiasi emergenza: lei schiacci il bottone rosso e in massimo cinque minuti un nostro team sarĂ da lei. Lei ha riservato il perimetro per lâintera giornata, quindi in teoria può restare fino alle dodici di domani, anche se noi, soprattutto in questa stagione, sconsigliamo di rientrare dopo il tramonto â
Io ringraziai, lui si alzò e disse â bene, se non ha altre domande, possiamo andare: la accompagno fino allâingresso, poi decida lei se vuole un aiuto o preferisce fare da soloâ â
â vorrei provare da solo â risposi
â ottimo â sorrise, e mi fece cenno con la mano â mi segua â
Uscimmo dalla stanza, e trovammo Francesca in piedi, in mezzo al corridoio.
Vederla lĂŹ, lasciata ad aspettare, senza sapere cosa le aspettasse e senza che nessuno si interessasse a lei, mi eccitò: la paura e lâumiliazione nei suoi occhi mi fecero quasi fermare.
Poi mi ripresi, â vieni â le dissi, senza fermarmi, e seguimmo lâuomo che intanto teneva aperta la porta.
Dietro la villa arrivammo a una costruzione a un solo piano, di mattoni rossi, con il tetto spiovente.
La costruzione si allungava per molte decine di metri, e sul lato che potevamo vedere non câerano finestre.
Lâuomo aprĂŹ una piccola porta di legno massiccio, che si socchiuse su un ambiente scuro.
â prego âdisse â dentro è tutto pronto, come ha richiesto. In ogni caso, se ha bisogno, basta che schiacci il tasto azzurro e saremo da lei. Buon divertimento â
Mi diede la mano e, senza degnare Francesca di uno sguardo, si allontanò.
Io e lei restammo lĂŹ, fermi davanti alla porta, mentre i passi dellâuomo si allontanavano scricchiolando sulla ghiaia.
Poi mi voltai, spinsi la maniglia della porta e le dissi â vieni, andiamo â ed entrai.
Appena entrati, la luce si accese automaticamente.
Chiusi la porta.
Eravamo in una sala, alte pareti in legno grezzo, una porta sullâaltro lato.
Mossi un passo, e notai la paglia che ricopriva il pavimento.
Sorrisi.
â spogliati â dissi
Francesca rimase un attimo interdetta, facendo correre lo sguardo sul pavimento e poi sulle pareti, dove erano appesi in ordine diversi oggetti, che non riusciva a identificare.
â spogliati â ripetei, e lei si riscosse.
Lentamente si abbassò per togliere le scarpe â togli tutto, poi rimetti calze e scarpe â
â cosâè questo posto? Cosa vuoi farmi? â
Io non risposi e mentre lei si spogliava mi avvicinai al muro e esaminai tutti gli oggetti appesi.
Man mano che li toccavo, li guardavo e ne capivo lâuso e lo scopo, e diventavo piĂš impaziente: non vedevo lâora di provarli, anzi, di farli provare a Francesca.
Mi girai.
Lei era lĂŹ, in piedi, nuda, con le corte calze di cotone bianco e le sneakers.
Bellissima.
â vieni â
quando fu vicino a me, presi un oggetto dal supporto del muro.
Una serie di cinghie di cuoio nero, anelli di metallo, altre parti sempre nere ma rigide, fibbie e lucchetti che tintinnarono.
Francesca fece un passo indietro.
â qui â le intimai
lei guardò spaventata la matassa di cinghie e lacci che tenevo in mano, poi fece un piccolo passo e si mise di fronte a me.
â vediamoâ â mormorai tra me e me, mettendomi dietro di lei e esaminando lâoggetto â ahâ eccoâ si dovrebbe cominciare daâ questoâ â
e cosĂŹ dicendo le passai sulla testa alcune cinghie nere, che si appoggiarono sul suo petto.
Sempre stando dietro di lei, liberai dalle cinghie un piccolo cilindro nero, lungo circa una spanna, e largo non piĂš di un paio di centimetri, ricoperto di gomma nera e morbida.
Lo alzai fino a che fu davanti alle labbra di Francesca â apri â le dissi, e appena aprĂŹ la bocca appoggiai il cilindro tra i suoi denti, orizzontale â stringi â dissi, e lei lo tenne in bocca, stretto, come se fosse un osso, o un bastone per un cane.
Presi le cinghie, e gliele passai dietro la testa, sulla nuca e allâattaccatura tra collo e testa , e poi fissai lâestremitĂ delle cinghie allâestremitĂ del cilindro stretto tra i denti di Francesca.
Infine strinsi e chiusi le piccole fibbie, poi mi misi davanti a lei.
â perfetto â mormorai, fissando Francesca che, come un animale, aveva un morso tra i denti.
Presi altri oggetti dal muro â seguimi â dissi, e uscii dalla stanza attraverso la porta che stava sul lato opposto.
Entrammo in un largo corridoio.
Quando Francesca vide cosa câera nel centro del corridoio si bloccò.
â bello, eh? â le chiesi
â mmmhm â rispose lei, scuotendo la testa e cercando di parlare attraverso il morso.
â un calesse, un sulkyâ insomma, non so come si chiami davvero questo cosoâ ma oggi io e te ci faremo una lunga passeggiataâ solo che io sarò comodamente seduto, e tu invece sarai il mioâ cavallo? Cavalla? Animale da tiro? Mah, lasciamo perdere le parole, e vediamo di sbrigarci â
mi avvicinai a Francesca, che istintivamente fece per ritrarsi.
Con un movimento veloce la afferrai per il collare, e la trascinai quasi al calesse.
â ferma qui, e non farmi arrabbiare, non ti conviene â usai un tono duro, minaccioso, e Francesca si bloccò. I suoi occhi seguivano ogni mio movimento, ma non si mosse.
La misi tra le stanghe del calesse.
Per prima cosa le feci poggiare gomiti e polsi alle stanghe del calesse, bloccando poi gomiti e polsi con delle spesse cinghie di cuoio.
Poi fissai una barra di metallo tra le stanghe, davanti ai fianchi di Francesca: adesso lei era bloccata dagli avambracci fissati alle stanghe, ma con una sbarra di metallo che le teneva il ventre relativamente lontano dal punto in cui erano bloccati gli avambracci.
In poche parole, Francesca era bloccata in una posizione che non le permetteva di raddrizzare la schiena, restando cioè piegata in avanti.
Poi fissai altre due cinghie dal suo collare alle estremitĂ delle stanghe: in questo modo, Francesca oltre a non poter tenere la schiena dritta, non poteva quasi nemmeno muoversi tra le due stanghe.
Presi poi due paraocchi, che le fissai sulla fronte: avvicinai tra loro i due pezzi di cuoio neri davanti ai suoi occhi, cosÏ che potesse vedere solo una piccola porzione di ciò che le era dritto davanti.
Infine, attaccai due lunghe briglie alle due estremitĂ del morso, e portai le briglie fino al sedile del calesse.
Poi, finalmente, mi allontanai di qualche passo e guardai.
Francesca era nuda, tra le stanghe del calesse.
Le calze bianche e le scarpe da ginnastica creavano un contrasto dissonante con il morso che le tendeva le labbra, i paraocchi che le occludevano la visione periferica, la posizione innaturale che la teneva piegata in avanti e le redini che pendevano, flosce, dal suo morso fino al sedile.
â bellissimaâ â mormorai â manca soloâ â e infilai una mano in tasca.
Mi misi davanti a lei.
Francesca mi guardò.
Per la prima volta fui sicuro di percepire perfettamente cosa ci fosse nel suo sguardo: solo due sentimenti, purissimi e assoluti.
Paura, e odio.
E tutti e due questi sentimenti mi eccitarono, facendomi rizzare il cazzo nei pantaloni, e mi fecero venire voglia di farle male.
Una voglia cosĂŹ violenta che dovetti chiudere gli occhi e respirare a fondo, per trattenermi.
Poi aprii la mano, e le mostrai cosa avevo preso.
â una quiâ â dissi, mentre le fissavo la piccola campanella al collare.
Un âdin dinâ accompagnò lâoperazione
â e le altre dueâ indovina dove? â le dissi, sorridendo
Francesca non fece in tempo a fare un movimento che la prima campanellina era fissata, con una morsetto di metallo, al suo capezzolo destro.
â mmmhm!! Mmmmhm!! â fece lei, agitando il petto nel tentativo di far cadere il morsetto, e piĂš si agitava, piĂš lâargentino âdin din dinâ riempiva il corridoio.
â ferma â le dissi di nuovo, afferrando una delle cinghie che bloccavano il morso nella sua bocca.
Con quel semplice movimento, il morso si spinse di piÚ dentro le sue guance, causandole un forte dolore, e lei si bloccò.
â adesso metto lâaltra â dissi, scuotendo leggermente la testa di Francesca tirando le cinghie â puoi lamentarti, ma non muoverti, capito? â
Francesca mi guardò: se avesse potuto, mi avrebbe insultato, o sputato addosso, o chissà cosa. Ma non poteva.
â capito? â ripetei, con un altro strattone
â mmmmhm â annuĂŹ finalmente lei
lentamente, presi la terza campanella.
Con la mano sinistra, afferrai tra pollice e indice il suo capezzolo, e lo strinsi e tirai e torsi fino a farlo diventare duro e scuro.
Francesca chiuse gli occhi.
Allargai il morsetto, e lo poggiai al capezzolo.
Poi fissai Francesca in viso, anche se aveva gli occhi chiusi.
Quando lasciai le dita e il morsetto si chiuse di colpo sul suo capezzolo, la faccia di Francesca si contrasse in una meravigliosa smorfia di dolore.
Poi aprĂŹ gli occhi.
Erano umidi. Francesca stava per piangere.
E il mio cazzo stava per esplodere.
Feci un passo indietro.
â salta â le dissi.
E Francesca saltò, e con lei si mosse tutto il calesse, e le campanelline tintinnarono, e le cinghie ondeggiarono, e il collare si tese, e tutto mi sembrò bellissimo.
Andai dietro il calesse, dove Francesca non poteva vedermi.
Da un ripiano, presi tre fruste, di lunghezza e forma diverse, e le infilai in una specie di piccolo tubo, accanto al sedile.
Poi aprii la porta che dal corridoio dava sullâesterno, e la luce del sole ci colpĂŹ allâimprovviso.
Salii lentamente sul calesse, e mi sedetti.
Presi la mappa che mi aveva dato lâuomo, e la fissai a una specie di piccolo leggio.
Alzai la testa, e vidi davanti a me Francesca, piegata in avanti, con il culo proteso verso di me, la schiena curva, il collo bloccato.
Presi in mano le redini, e dando un piccolo colpo con i polsi le feci sbattere appena sulla schiena di Francesca.
â andiamo! â dissi, felice.
Francesca era a terra.
Buttata sullâerba, vicino al tronco di un albero.
Piangeva, in silenzio.
La testa tra le mani, il volto a terra, la schiena si alzava e si abbassava rapidamente.
Nuda, tranne per le scarpe e le calze bianche.
La pelle chiara mostrava un intricato motivo di segni rossi e brunastri.
Da alcuni dei segni sembrava uscire una piccola goccia di sangue.
Io ero in piedi, di fronte a lei.
Ansimavo per lo sforzo, e tremavo ancora per la rabbia.
Nella mano destra la frusta, lunga.
***
E dire che sembrava andasse tutto per il meglio.
Almeno per me.
Appena usciti dal portone, Francesca si bloccò.
Eravamo su un lungo viale asfaltato, che si perdeva verso la campagna, tra gli alberi.
Il cielo era azzurro, il sole del mattino giĂ caldo, un venticello leggero ma fresco.
Mi appoggiai al piccolo schienale, guardando Francesca davanti a me.
La sua schiena leggermente piegata in avanti, i suoi capelli neri che si separavano sul collo, le braccia bloccate sulle stanghe e, naturalmente, il suo culo, proteso in fuori verso di me per la posizione in cui era fissata.
I glutei tesi, i muscoli delle gambe definiti.
Quando arrivò un refolo di vento piÚ forte, la vidi rabbrividire.
Ero felice, sereno.
Non mi aspettavo nulla da quella giornata.
Avevo fatto qualche progetto, certo, ma mi ero imposto di vedere semplicemente come sarebbe andata, e godermi quel nuovo gioco.
â avanti â dissi, e agitai le redini.
Francesca fece per muoversi, ma il peso del calesse con me sopra la bloccò un istante.
Poi spinse in avanti con le braccia e le spalle, tese i muscoli delle gambe e lentamente ci muovemmo.
Dopo due o tre passi le ruote del calesse cominciarono a scorrere regolarmente e anche Francesca prese una posizione piĂš rilassata, tirando con regolaritĂ .
Presi dalla tasca del calesse la mappa e studiai i percorsi suggeriti.
Dopo pochi minuti, arrivammo a un bivio.
Francesca fece per rallentare, ma io tirai le redini verso destra.
Quasi vidi il morso tirare la bocca di Francesca, e udii distintamente il suo lamento soffocato, piĂš di sorpresa che di dolore.
Ma lei girò, e io guardai felice le redini che tenevo in mano.
Dopo pochi passi la strada si allungò davanti a noi.
Un nastro di asfalto in piena campagna, diretto verso alcune basse colline poco lontane.
â forza â dissi allora, agitando le redini â abbiamo molta strada da fare, vediamo di darci una mossa â
Francesca si piegò leggermente, e tirò il calesse un poâ piĂš in fretta.
â piĂš veloce ! â
e lei accelerò ancora il passo.
Mi fermai, guardando il culo di Francesca muoversi ritmicamente ad ogni passo, i glutei che si separavano appena, prima a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra, lasciando intravvedere per un istante la pelle scura della figa e dellâano.
â proviamo a trottare un poâ che ne dici? â chiesi
Francesca provò a scuotere la testa, ma tutto quello che ottenne fu un piccolo movimento e un rumore di campanelli.
â dai, corri â insistetti, agitando le redini
Ancora una volta Francesca mosse appena la testa, e fece per fermarsi
â non fermarti! â dissi, alzando la voce â non fermarti e inizia subito a correre!!!! â
Francesca continuò a camminare per qualche passo, poi si piegò in avanti, per quanto possibile, e spinse piÚ forte.
Il calesse accelerò, e Francesca passò prima a una camminata veloce e poi a una corsetta leggera.
â brava! Brava!!! Brava!!â â urlai, felice. E scoppiai a ridere.
Ero davvero, davvero felice.
Ero sul mio calesse, la giornata era magnifica, nella borsa avevo ottimo cibo e una bottiglia di vino, e Francesca trottava nuda portandomi a fare un picnic.
Un sogno che si avverava.
Le campanelle attaccate ai suoi capezzoli e al collo tintinnavano ritmicamente, e io mi dispiacqui di non poter vedere come le sue tette si muovessero mentre correva.
Dopo pochi minuti, che io passai nella quasi ipnotica ammirazione del culo di lei che si stringeva e allargava ad ogni passo, la pelle di Francesca di ricoprÏ di minuscole gocce di sudore, e la sua schiena iniziò a sollevarsi e abbassarsi con sempre maggiore frequenza.
Francesca si stava stancando.
Devo ammettere che aveva resistito piĂš di quanto mi fossi aspettato.
Ma lo sapevo che prima o poi il momento sarebbe arrivato.
â non rallentareâ â le dissi, e lei accelerò di nuovo.
Un minuto, e di nuovo cominciò a rallentare.
Questa volta non dissi nulla, ma impugnai una delle fruste che avevo preso dal muro.
Aveva un manico rigido, lungo quasi un metro.
Dal manico, si allungava una specie di striscia sottile di pelle, lunga almeno un metro e mezzo, e alla fine della striscia câera un nodo dello spessore di circa un centimetro.
â avanti! â dissi di nuovo, ma questa volta Francesca non reagĂŹ, continuando a rallentare.
Agitai in aria la frusta, e capii subito che il nodo in fondo alla striscia di pelle serviva per dare peso e controllo al colpo.
Per una o due volte mossi la frusta a vuoto, per prendere confidenza.
Francesca era cosĂŹ concentrata nella sua fatica che non sentĂŹ, o non fece caso, il sibilo nellâaria.
Attesi.
Pochi istanti dopo, Francesca rallentò ancora.
â non camminare â scandii â continua a correre â
ma Francesca rallentò ancora, ansimando, e alla fine smise di correre e iniziò a camminare.
Sorrisi.
Pregustavo questo momento.
Alzai la frusta sopra la testa, e senza far troppo forza diedi un veloce colpo con il polso, prima indietro e poi in avanti.
La frusta fischiò nellâaria e colpĂŹ la schiena di Francesca.
Lei scartò di colpo, ed emise un suono a metà tra un grido e un lamento.
Ma io ero pronto, e tenevo ben strette le redini con la sinistra, e appena Francesca cercò di scostarsi e fermarsi, diedi un forte strattone.
La sua testa scattò allâindietro, tirata dal morso, che le si infilò ancora piĂš a fondo tra i denti.
Lo scatto allâindietro tese le cinghie che fissavano il collo alle stanghe, bloccandolo a metĂ del movimento.
Un secondo dopo, la mia frusta colpĂŹ nuovamente: questa volta avevo piĂš confidenza, e riuscii a far finire il colpo proprio dove volevo, allâattaccatura tra schiena e natiche.
Di nuovo Francesca si agitò, ma di nuovo le redini le impedirono di quasi ogni movimento.
â corri, ho detto â urlai, e Francesca si piegò sulle stanghe e riprese a spingere, e dopo pochi passi di nuovo trottava veloce.
Altre due volte, Francesca iniziò a rallentare, ma bastarono due colpi di frusta ben assestati per farle tornare la voglia di correre.
Dopo pochi minuti, con il sudore che scorreva lungo la schiena Francesca, segnata da tre o quattro belle striature rossastre, tirai leggermente le redini e dissi â pianooooâ al passo â e Francesca rallentò, e si mise a camminare, con le spalle che salivano e scendevano rapide, al ritmo del suo respiro affannoso.
Proseguimmo per qualche centinaio di metri, mentre osservavo con attenzione i dintorni, studiando la mappa.
Eccolo, proprio dove mi avevano spiegato alla villa.
â ferma â dissi, tirando le redini.
Attesi qualche istante.
Francesca restò ferma, con la testa bassa, respirando affannosamente.
Attesi ancora, facendola riposare, finchè il respiro si fece regolare.
â avanti â le dissi, agitando appena le redini â piano pianoâ prendi fiato, ci sarĂ una salita da fareâ però poi siamo arrivati e se fai la brava avrai un premioâ dâaccordo? â
Lei non rispose, continuando a trainare lentamente il calesse.
Qualche decina di metri dopo, tirai le redini verso destra e Francesca curvò verso destra.
Imboccammo una stretta strada sterrata, ma con il fondo ben tenuto.
Vidi Francesca alzare lo sguardo, e quasi bloccarsi: davanti a lei, la strada faceva un paio di piccole curve, e poi iniziava una salita con almeno tre tornanti, che portavano su quello che sembrava un piccolo spiazzo sul crinale della collina.
Ripensai alle parole della signora e dello stalliere, alla villa: âè una salita difficile, ma si fidi, la sua schiava è giovane e forte: con le giuste motivazioni, riuscirĂ sicuramente ad arrivare in cimaâ il nostro consiglio è di non farla mai fermare, perchĂŠ poi ripartire sarebbe molto difficileâ.
Rimisi a posto la frusta che avevo usato, e ne presi unâaltra. La guardai: piĂš corta, con una striscia di cuoio piĂš larga e spessa, e meno flessibile. Caricando tutto il braccio, e non solo il polso, sarebbe arrivata a colpire esattamente la schiena e il culo di Francesca.
â andiamo â dissi â scegli tu la velocitĂ , ma non ti fermare, mai, finchè non saremo in cimaâ vai!!! â
Francesca attese ancora qualche secondo, poi si piegò in avanti e, tendendo la schiena e il culo in quel modo che mi era già cosÏ familiare, spinse il calesse in avanti.
Le ruote scricchiolarono sui piccoli sassi.
Appena iniziò la salita, Francesca tese le spalle e le braccia, e anche i muscoli della schiena si piegarono per lo sforzo.
â avanti!! Avanti!!! â la incitai
Francesca arrivò piĂš o meno facilmente al primo tornante. Però forse lo prese troppo stretto, o forse una ruota sbattè contro un sasso, ma il calesse rallentò e sembrò fermarsi.
Non esitai neanche un secondo, fu un gesto immediato e istintivo.
Alzai il braccio e calai la frusta su Francesca.
Il colpo arrivò diretto, dallâalto verso il basso, appena sotto le spalle.
Francesca non fece neppure in tempo a reagire che con lo stesso movimento, caricando il braccio da sinistra verso destra, come per un rovescio da tennista, la colpii nuovamente, questa volta quasi orizzontalmente, a metĂ della schiena.
Francesca urlò, o almeno emise un rumore soffocato attraverso il morso.
Ma scattò in avanti, e lo scatto le diede la spinta per continuare a muovere il calesse e superare il tornante.
â avanti â urlai â non fermarti â e di nuovo feci calare la frusta dallâalto verso il basso, cercando questa volta di colpire Francesca proprio sul culo.
La frusta non faceva praticamente rumore, non era come nei film o nei racconti, o forse il vento e il suono delle ruote sullo sterrato lo coprivano, ma quasi ebbi il dubbio di non averla colpita, ma subito lei spinse in avanti il culo, e cosÏ facendo diede uno strattone al calesse, che sobbalzò.
â brava!! Tira!!! â gridai, e scoppiai a ridere.
Francesca si piegò in avanti, e tirò il calesse fino in cima alla salita.
Altre tre volte rallentò quasi fino a fermarsi, e altre tre volte la frustai, ogni volta piÚ forte, ogni volta con maggiore precisione, mirando prima alla schiena, poi ai glutei e infine anche al retro delle cosce che, scoprii, dovevano essere molto sensibili, a giudicare dai suoni che emetteva lei dopo ogni colpo, e da come scattava in avanti.
Devo ammetterlo, mi divertii moltissimo.
Avevo sempre pensato di essere un tipo cerebrale, di essere affascinato e attratto dal controllo mentale.
Dalla sottomissione, senza manette, corde, e dalla violenza solo come strumento per ottenere questi risultati.
Ma da quando avevo Francesca, avevo scoperto un novo aspetto di queste mie, chiamiamole cosĂŹ, passioni.
Avevo scoperto che infliggere dolore fisico, e la violenza, anche fine a se stessa, mi piacevano.
E vedere Francesca legata, bloccata tra le stanghe del calesse, a soffrire e faticare, senza possibilitĂ di ribellarsi nĂŠ di dire o fare nulla, se non tirare il calesse, mi eccitava e mi divertiva.
Dopo il terzo tornante, la strada divenne improvvisamente piatta e dopo pochi passi arrivammo in un campo.
â ooohh â dissi, tirando le redini.
Francesca si bloccò, ansimando e, da quello che potevo immaginare dai movimenti delle sue spalle, piangendo.
La schiena, il culo e le cosce erano percorsi da diversi segni rossi e porpora.
Mi guardai attorno.
Il luogo era bellissimo, avevano fatto bene a consigliarmelo, alla villa, come destinazione della prima gita.
La stradina infatti costeggiava un prato, con lâerba tagliata di fresco.
Da un lato, il prato declinava verso la valle, con una meravigliosa vista sulla campagna e proprio al limitare del prato, una panchina, un tavolo di legno grezzo.
Sugli altri tre lati, alcuni alberi delimitavano lâinizio di un bosco.
Poco distante dalla stradina, infine, a terra câera un grande tronco, tagliato a metĂ e scavato allâinterno: da una fontanella zampillava dellâacqua che finiva nel tronco.
Scesi dal calesse.
Francesca intuĂŹ che stava succedendo qualcosa, e la vidi irrigidirsi.
Mi stiracchiai, girai lo sguardo intorno e giĂš, verso la pianura.
Nessuno in vista; dâaltronde, era una delle richieste che avevo fatto, al momento di prenotare: non volevo condividere i miei spazi con nessuno. O meglio, i nostri spazi, pensai.
Lentamente camminai fino a trovarmi di fronte a lei.
A causa dei paraocchi, Francesca non mi vide finchè non mi misi proprio davanti alla sua faccia.
Quando mi vide, spalancò gli occhi.
Aveva gli occhi gonfi di pianto.
Le lacrime scendevano ancora lungo le guance.
Il muco era sceso dal naso, sulle labbra tirate indietro dal morso, fino sul mento, mescolandosi con la saliva che era colata tra i denti, e formava due fili trasparenti che penzolavano dal suo mento.
La guardai negli occhi.
Non câera rabbia, o ribellione: solo disperazione e paura: era bloccata, e mi accorsi che il suo sguardo era corso per un attimo alla frusta, che tenevo ancora in mano.
Annuii, come se mi avesse chiesto qualcosa.
â adesso ti tolgo il morso e poi ti libero â le dissi â ma ti avviso: non devi parlare, e non devi muoverti. Una parola, o un movimento, e ti frusterò â dissi, agitando leggermente lo strumento nella mia mano â e poi ti rimetterò tra le stanghe e ti farò correre fino lassĂš â conclusi, accennando al sentiero, che proseguiva verso la cima della collina.
â hai capito? â
Francesca non emise nessun suono, ma fece un piccolo movimento con la testa.
â bene, brava. Prima di tuttoâ questo â dissi, e liberai il collare dalle cinghie che lo fissavano alle stanghe. Questo le permise finalmente di raddrizzare il collo e la testa, cosa che fece socchiudendo gli occhi per il sollevo.
â e poi, questiâ â e liberai gli avambracci e i polsi dalle stanghe â e infineâ questo â conclusi, allungando le mani dietro la sua testa e liberando il morso, che presi gentilmente tra le mani e rimossi dalla sua bocca.
Francesca emise un gemito, aprÏ e chiuse le mascelle, si leccò le labbra, poi alzò una mano, per portarla alla bocca, ma si bloccò e mi guardò spaventata.
Io annuii, e lei si accarezzò le labbra con la mano.
Tornai al calesse, presi la borsa ed estrassi il guinzaglio, che fissai al collare.
â andiamo â dissi, e mi avviai nel prato
â hai sete? â le chiesi, indicando lâacqua che zampillava dalla fontanella, e lei annuĂŹ.
â vieni, allora â dissi, e tendendo il guinzaglio la portai alla fontanella.
â bevi, te lo sei meritato â
Francesca si piegò, per portare la bocca alla fontanella, io attesi un istante, e poi diedi un deciso strattone al guinzaglio, allontanandola.
Lei si girò e mi guardò, spaventata.
â non dalla fontanellaâ â spiegai â da lĂŹ â aggiunsi, indicando il tronco cavo, poggiato sullâerba, nel quale scorreva lâacqua uscita dalla fontanella.
Francesca mi guardò un attimo, ma probabilmente la sete e il timore erano troppo forti, e si accucciò davanti al tronco, unendo le mani per tuffarle nellâacqua e portarsi il liquido alla bocca.
Di nuovo, attesi un istante, e poi tirai il guinzaglio.
Lei mi guardò, bloccandosi.
â non cosĂŹâ â spiegai, sorridendo sornione â i cavalli da tiro non bevono accucciati, nĂŠ con le maniâ â lei mi guardava, sena capire.
Mi misi di fronte a lei, dallâaltra parte del tronco â giĂš, a quattro zampe â dissi, e attesi.
Francesca mi guardò ancora, poi si mise a carponi, ginocchia e mani a terra, e faccia sopra il tronco, che adesso assumeva chiaramente la funzione di abbeveratoio.
â ora puoi bereâ â dissi.
E lei abbassò la testa, e tuffò la bocca nellâacqua, e risucchiò e leccò lâacqua, mentre io la osservavo.
Poi andai dietri di lei, e osservai la sua fica e il suo ano, esposti in bella vista mentre lei si piegava in avanti per bere.
E il mio cazzo reclamò: che va bene il cervello, e le fantasie, e le immagini e la dominazione e la frusta e il controllo, ma il cazzo ragiona in maniera semplice, binaria: o si scopa, o non si scopa.
E al mio cazzo sembrava che fosse proprio il momento di scopare.
E chi ero io, per contraddire il mio cazzo?
â basta? â chiesi, e lei annuĂŹ.
â vieni â dissi, e mi diressi verso la panchina, tirando il guinzaglio. Francesca non si alzò, ma rimase a quattro zampe e mi seguĂŹ.
Davvero, rimase a quattro zampe.
Non fece nemmeno il gesto di alzarsi in piedi.
Era successo qualcosa.
Una cosa piccola, magari, non certo definitiva, e non era il caso di trarre conclusioni, ma era un dato di fatto: per paura, per stanchezza, per disperazione, non mi interessava, ma Francesca era restata al posto in cui, tutti e due, sapevamo che io volevo che restasse: a quattro zampe, al guinzaglio, accanto a me.
Raggiungemmo la panchina.
Io mi sedetti, appoggiando la borsa accanto a me.
Lasciai Francesca di fronte a me, a quattro zampe.
Mi godetti il panorama, la campagna, i campi e i boschi.
Poi aprii la borsa, ed estrassi la bottiglia di vino, rosso, un bicchiere e il cavatappi. Aprii il vino, e me lo versai.
Poi estrassi alcuni sandwich, al salmone, al petto di pollo, prosciutto e formaggio.
Bevetti un sorso di vino, mi pulii la bocca con un tovagliolino di carta e mangiai.
Presi un secondo sandwich, e iniziai a mangiare.
Poi la guardai.
â hai fame? â lei annuĂŹ.
Diedi altri due morsi al mio panino, poi quando ne rimase solo un pezzetto, lo tenni nel palmo della mano, che abbassai davanti a lei â magia â dissi.
Francesca allungò il collo, abbassò la testa fino al palmo della mia mano, e prese il panino tra i denti, mangiandolo.
Io presi un altro panino, lo divisi in pezzetti, che misi uno alla volta sul palmo della mano e che Francesca, da bravo animaletto addestrato, mangiò uno dopo lâaltro.
â lecca â le dissi, e lei leccò la mano, pulendola.
â in realtĂ â dissi â i panini non sarebbero per teâ alla villa mi hanno detto che nella sacca câera anche il cibo perâ come ti hanno chiamata? Ah, sĂŹ, âil mio animaleâ ecco, questo è per te â
ed estrassi dei pezzi di una specie di pastone, duro, tagliati grossolanamente.
Ne presi uno in mano, feci per porgerglielo, ma ci ripensai.
â mangia â dissi, buttando il boccone a terra.
Francesca mi guardò, ma ancora una volta non vidi segni di rabbia o ribellione: fece un piccolo passo in avanti, piegò la schiena e le braccia, abbassò la testa sullâerba, con i denti afferrò il cibo, che masticò e deglutĂŹ.
Il boccone successivo lo gettai a qualche metro dalla panchina, e Francesca ci andò senza fiatare, alla ricerca del cibo tra lâerba.
â senza mani, mi raccomandoâ â dissi, e lei si piegò e con la faccia e il naso frugò nellâerba finchè non trovò il cibo, e lo ingoiò.
Trovai questo esercizio eccitante, non so nemmeno perchĂŠ.
E lanciai altri pezzi di quello strano cibo avanti e indietro nel prato, cercando i punti con lâerba piĂš alta, per vedere Francesca frugare tra gli steli con la testa, come una brava cagnolina.
Glielo dissi, e lei non reagĂŹ.
â vieni â la chiamami infine.
â ora puoi parlare, finchè non ti dirò di nuovo di tacere â lei annuĂŹ appena
â vuoi sapere cosa faremo adesso? â le chiesi, accarezzandole la testa e i capelli, mentre stava a carponi di fronte a me, ancora seduto sulla panchina.
â sâ sĂŹ â sussurrò appena, e per la prima volta da ora sentii la sua voce, e il cazzo mi diventò di nuovo duro, non lo so, un riflesso pavloviano? Magari ero io, e non lei, quello che in realtĂ si stava âaddestrandoâ a reagire come un animaleâ
â adesso scopiamo. Qui, in questo pratoâ non lâho mai fatto allâapertoâ tu? â
lei non rispose, scosse appena la testa
â scopiamo, dicevo. Ti scopo per bene, ti scopo prima la figa e poi il culoâ non garantisco di durare tanto, ehâ è da stamattina che ho voglia di scopartiâ ma vabbè, dicevo, ti scopo ben bene, tutta quanta, davanti e dietro, e poi ti vengo in bocca e mi fai il piĂš bellâingoio della tua vitaâ e poi ti rimetti al tuo posto e torniamo alla villa, che è facile è tutta discesaâ che dici, va bene? â
Francesca non rispose, ma distolse lo sguardo.
â lo prendo per un sĂŹ â dissi, sorridendo, e mi alzai in piedi.
Mi tolsi con calma la camicia, slacciai cintura e pantaloni, sfilai le scarpe e mi trovai in mutande.
Francesca era sempre a quattro zampe davanti a me.
Abbassai anche i boxer e presi in mano il cazzo.
â succhia â le dissi, e lei lentamente si avvicinò e mi prese in bocca il cazzo.
Senza estrarre il cazzo dalla sua bocca, mi sedetti sulla panchina, e mi godetti un pompino allâaperto, con il calore del sole sulle spalle, il soffio del vento e il cinguettio degli uccellini che facevano da contraltare al rumore della bocca di Francesca sul mio cazzo.
La fermai.
â qui, sopra â dissi, tirandola leggermente per il collare, e lei capĂŹ e salĂŹ sopra di me.
Appoggiò le ginocchia sulla panchina, e con una mano si infilò il mio cazzo nella figa.
Era chiusa, stretta e secca, e dovette muoversi piano piano, in su e in giĂš e con piccoli movimento laterali per farlo entrare .
Ma io non avevo fretta, e mi godetti ogni istante.
Quando fui dentro e sentii le pareti della sua figa rilassarsi, dissi â fammi godere â e lei iniziò a muoversi in su e in giĂš.
Chiuse gli occhi.
Certo, stava pensando a qualcosa o qualcun altro, o si stava concentrando per sopportare tutto questo, e avrei potuto ordinarle di aprire gli occhi, di guardarmi, di dire o fare chissĂ cosa, ma non era il momento.
CosĂŹ la lasciai fare, e mi godetti un ottimo smorzacandela.
Lungo, lento, morbido, come piace a me.
â alzati â le dissi, e la portai dietro alla panchina, in piedi.
La feci piegare in avanti, fino ad appoggiare il petto sullo schienale della panchina.
Mi presi in mano il cazzo, e senza fatica lo spinsi di nuovo dentro la sua figa.
La scopai, e non le diedi nemmeno uno schiaffo o una sculacciata.
Lei non disse nĂŠ fece nulla, ma non mi arrabbiai: la scopai e basta.
Poi estrassi il cazzo, e lo appoggiai al suo buco del culo.
La sentii irrigidirsi.
Sorrisi.
Con le mani allargai le chiappe, tendendo la pelle del buco.
Poi mi afferrai il cazzo appena con la destra, appoggiai il pollice sulla cappella per guidarla e spinsi.
Piano, ma sentii Francesca gemere.
âAhiâ, disse, e io spinsi piĂš forte.
Le entrai nel culo, senza volerle far male, ma senza nemmeno preoccuparmi.
Poco dopo, il culo di Francesca si rilassò.
Sentii che si era allargato, e cominciai a spingere con piĂš forza.
Il mio cazzo si fece ancora piĂš duro, e iniziai a sospirare. Non sarei durato ancora molto.
Estrassi il cazzo, poi li rispinsi dentro con forza, e Francesca gemette di nuovo.
Lo feci ancora, e ancora, fuori tutto, e poi dentro, in un colpo solo, fino in fondo, fino a sbattere con i miei fianchi sulle sue chiappe.
Lo tirai fuori di nuovo, abbassai lo sguardo sul cazzo prima di sbatterlo dentro di nuovo, e vidi che sulla cappella câerano tracce marroni.
Spinsi dentro, ancora piĂš forte, ancora piĂš in fondo, e con le mani allargai le chiappe di Francesca per arrivare ancora piĂš in fondo, ancora di piĂš dentro di lei, ed estrassi il cazzo di nuovo, e lo guardai.
Sorrisi.
Sul mio cazzo câerano, inequivocabili, residui di materia fecale.
Merda, insomma.
âE adesso ci divertiamoâ, pensai.
â girati!! In ginocchio!!! â ordinai, tirando Francesca per il collare.
Lei obbedĂŹ, portandosi per un istante le mani al culo, come per controllare che non ci fosse nulla di rotto, almeno non definitivamente.
Poi si inginocchiò davanti a me.
Io feci un passo verso di lei, tenendo il cazzo, teso e duro, nella destra.
â succhia!! Fammi venire, adesso!!! â
Francesca si protese in avanti, poi si bloccò.
Spalancò gli occhi, poi alzò lo sguardo e mi fissò.
â succhia!!! Conto fino a tre, e al tre il mio cazzo dovrĂ essere infilato fino in fondo nella tua bocca e la tua lingua dovrĂ girare attorno alla mia cappella pulendo tutta questa schifezza che mi hai lasciatoâ â
Francesca fece un tentativo, ma quando la sua bocca fu a un centimetro dal mio cazzo, ebbe un singulto di vomito e si scostò.
â unoâ dueâ â
si avvicinò di nuovo, e di nuovo di fermò â non ce la faccâ â
â tre â
Lasciai il cazzo.
Con la sinistra afferrai il guinzaglio, attorcigliandolo attorno al polso, cosĂŹ che lei non si potesse quasi muovere.
Con la destra afferrai la frusta, che era sulla panchina.
E la colpii.
Dallâalto in basso, senza prendere la mira, con forza.
Bastarono meno di dieci colpi, e Francesca iniziò a urlare e supplicare.
Basta, gridava, mentre si contorceva cercando di allontanarsi dai colpi, cercando di liberarsi dal guinzaglio, cercando di coprirsi quanto possibile con le braccia.
Basta, gridava, lo faccio, basta, lo faccio, ti giuro.
Ma non mi fermai.
Continuai finchè non mi fece male il braccio.
Finchè lei non rimase ferma, a terra, rannicchiata, piangendo disperata.
â adesso â dissi, ansimando per lo sforzo â adesso, puoi farlo â e ripresi in mano il mio cazzo, che era rimasto duro per tutto il tempo, tirando il guinzaglio.
Francesca di alzò appena, e in ginocchio si avvicinò al cazzo.
Un nuovo singulto di vomito, tra i singhiozzi disperati, ma questa volta aprĂŹ la bocca.
Io rimasi fermo.
Lentamente, stringendo gli occhi, prese il cazzo in bocca.
â succhia â
e lei succhiò.
Il suo stomaco fece per rimettere, ma lei resistette e continuò a succhiare.
Estrassi il cazzo dalla bocca, e controllai.
â qui â dissi, indicando un punto lungo lâasta dove forse câera ancora una piccola traccia di merda â lecca â
Dopo che ebbe leccato, le rimisi il cazzo in bocca e in pochi istanti venni.
Poi andai alla panchina, mi rivestii e schiacciai il pulsante sul telecomando, e mi sedetti.
Francesca era a terra, piangeva, e aveva appena vomitato.
Dopo pochi minuti un fuoristrada risalĂŹ la stradina, trainando un carrello.
Io salii in cabina, dove lâautista mi offrĂŹ dellâacqua e dei biscotti.
Poi lui scese, e caricò il calesse sul carrello.
Infine afferrò Francesca per il collare, la trascinò fino al carrello e la fece salire, fissando il collare a un anello dâacciaio.
Poi tornò in cabina, accese il motore e ingranò la marcia.
â allora, le è piaciuto? â mi chiese
â è statoâ speciale â sorrisi â avete appena guadagnato un cliente -.
I giorni che seguirono passarono veloci.
Io avevo da lavorare, uscivo presto al mattino e rientravo tardi la sera.
Lasciai Francesca a casa da sola.
Da quando eravamo tornati dalla piccola avventura allâaperto Francesca non mi aveva rivolto la parola, e io non avevo nessuna voglia di iniziare un dialogo.
La sera le dissi che nei due o tre giorni successivi mi sarei svegliato presto e sarei tornato a casa tardi, e che lei avrebbe avuto la casa tutta per seâ.
Le chiesi solo di farmi trovare la colazione pronta al mattino e la cena alla sera, per il resto avrebbe potuto fare quello che voleva, tranne uscire: guardare la televisione, dormire, mangiare.
â ricordati solo che tutta la casa è controllata dalle telecamere e in qualsiasi momento posso controllare cosa fai â
Lei rispose solo â va bene â e si ritirò nella sua stanza.
Nelle due mattine successive mi svegliai presto, e in cucina trovai apparecchiato, la macchina per il caffè americano pronta, frutta, yogurt, fette biscottate, la colazione pronta.
Alla sera, rientrando tardi, non trovai Francesca, che era giĂ nella sua stanza, ma nel forno ebbi per due sere la cena pronta, che scaldai e mangiai di gusto.
Prima di addormentarmi controllai le riprese delle telecamere, e vidi che Francesca si era limitata per tutti e due i giorni a vagare per la casa, dormire, usare il bagno, guardare la TV.
Lenta, apatica.
Sorrisi.
Era di nuovo arrivato il momento di dedicarmi a lei.
E mi addormentai felice.
Il giorno dopo mi svegliai e feci la colazione che Francesca mi aveva preparato.
Poi andai nella sua stanza.
Francesca era sdraiata sul letto, gli occhi aperti, e fissava il soffitto.
Indossava una tuta nera, e calze bianche di spugna.
â tra mezzâora usciamo â le dissi â preparati â
Lei mi guardò, spaventata.
â no, non andiamo alla villa, non oggi â e mi accorsi del suo leggero sospiro di sollievo.
Poco dopo eravamo in macchina, io guidavo e ascoltavo la musica, un album live solo di Richard Galliano, e mi lasciai trasportare dal contrasto tra il suono antico della fisarmonica e le disarmonie del jazz.
Francesca sedeva accanto a me.
Rigida, teneva lo sguardo davanti a seâ.
Parcheggiai, ed entrammo in un anonimo portone in un altrettanto anonimo palazzo.
Entrammo in una specie di lussuosa reception, dove una signora di mezza età mi salutò e mi fece strada.
â benvenuto â mi disse, mentre ci accompagnava lungo un corridoio â lei ha fatto delle richiesteâ particolari, se posso dire cosĂŹ â
A quelle parole, percepii una piccola esitazione da parte di Francesca, come se avesse paura di ciò che sarebbe potuto succedere.
Sorrisi in silenzio, e la signora proseguĂŹ â ma, naturalmente, noi siamo ben felici di soddisfare tutte le richieste dei nostri clienti, ogni volta che sia possibile â
Arrivammo a un bivio, il corridoio si apriva su due altri corridoi â allora, con cosa vorrebbe cominciare? Vuole prima ilâ tour, se possiamo chiamarlo cosĂŹ, o approfittare subito dei nostri servizi? â
â lei cosa consiglia? â le chiesi
â se posso permettermi, visto lâorario, il tour sarebbe lâidealeâ ha la possibilitĂ di assistere ad alcuni momenti molto.. come direâ particolari â
â vada per il tour, allora â
â bene â sorrise lei â mi segua â mi fece un gentile cenno con la mano e io la seguii nel corridoio di destra.
Nessuno prestò la minima attenzione a Francesca, che ci seguÏ, docile, a un passo di distanza.
Con una tessera magnetica fece scattare la serratura di una porta.
Entrammo.
â eccoâ â disse
Eravamo su una sorta di piccola balconata, come il palco di un teatro, appena un metro piĂš in alto del pavimento del grande salone sul quale si affacciava.
Il salone era grande, illuminato come il set di un film, o uno studio televisivo.
Faretti sparavano luci dallâalto, e grandi lampade lungo le pareti aggiungevano altra luce.
Le pareti erano coperte di specchi, come quelle di una palestra.
Il pavimento ricoperto da grandi tappeti orientali.
Di fronte a noi, accostato alla parete, un divano.
Ma non un divano normale, ma un divano gigante, o meglio, per giganti.
Come se qualcuno avesse preso un divano normale e lo avesse ingrandito, gonfiato.
Sul divano, semisdraiato, un uomo di chiara origine mediorientale.
Carnagione scura, ma non nera, la testa rasata e lucida.
Ma quello che colpiva era la stazza.
Sicuramente era alto almeno due metri, probabilmente di piĂš.
E sicuramente non pesava meno di duecento chili.
Il petto e il ventre erano enormi, faticosamente contenuti da una specie di tunica.
Le gambe, abbandonate sul divano, sembravano unâunica grande appendice.
Le braccia erano anchâesse enormi, e finivano in due mani che sembravano ridicolmente minuscole, rispetto a tutto il resto.
La faccia era una serie di pieghe di carne, e due occhietti scuri si intravvedevano appena sotto le palpebre pesanti.
Rimasi a bocca aperta, e sussurrai â maâ sembraâ â e guardai la signora, che sorrise.
â sĂŹ, lo dicono tutti, la prima volta â annuĂŹ â Jabba the Hutt â
Io non dissi nulla, mi limitai ad annuire.
â mio marito â spiegò cortese la signora â ha sempre avuto un debole per quel personaggio di guerre stellariâ e quando abbiamo avviato questa nostra piccola azienda, ha capito che avrebbe potuto realizzare qualcosa che assomigliava molto alla sua fantasiaâ che poi è un poâ quello che cerchiamo tutti, no? â mi chiese, accennando con uno sguardo a Francesca, che in piedi accanto a noi osservava la scena, a bocca aperta per lo stupore.
â proprio cosĂŹ â risposi io, accennando a mia volta a Francesca.
â beh, poi forse mio marito si è un poâ fatto prendere la manoâ â aggiunse lei
â nessuno deve essere giudicato per il modo in cui cerca la propria felicitĂ â risposi io, e lei mi sorrise felice
â ha proprio ragione â disse, e di nuovo rivolgemmo la nostra attenzione al grande salone.
Il marito, Jabba, chiamiamolo cosĂŹ, non era solo.
Lungo la parete alla nostra destra erano allineati, a circa un metro dâaltezza, una ventina di anelli di metallo.
Agli anelli di metallo, erano fissate delle corte catene, lunghe non piĂš di mezzo metro.
Le catene, erano a loro volta fissate a dei collari.
Che erano al collo di una ventina di schiave.
A causa dellâaltezza da terra degli anelli e della corta catena, le schiave non potevano alzarsi in piedi.
Erano tutte a quattro zampe.
La signora seguĂŹ il mio sguardo.
â durante lâorario di lavoro â mi spiegò â possono sdraiarsi a terra solo 5 minuti ogni ora. Il resto del tempo devono stare a quattro zampe â
Alcune schiave erano nude.
Altre vestite con abiti succinti, sexy, altre ancora in lingerie, alcune indossavano corpetti, altre ancora normali abiti da ufficio, un paio erano in uniforme da dottore o da soldatessa, una in abito da sera.
Tutte avevano una piccola palla rossa infilata in bocca.
â a Jabba non piace che le schiave parlino â mi spiegò la signora, e io non potei che essere dâaccordo.
In quel momento una piccola porta, anchâessa ricoperta da uno specchio e che io non avevo notato, si aprĂŹ.
Entrarono due uomini, di mezza etĂ , uno in maglietta, bermuda e ciabatte, lâaltro in giacca e cravatta.
Avevano in mano un bicchiere di birra, e ridevano sguaiatamente.
Si avvicinarono al divano di Jabba, si sedettero su due sedie davanti a lui e cominciarono a chiacchierare.
I due, davanti a Jabba, sembravano piccoli come bambini.
Dopo pochi minuti si alzarono, salutarono Jabba e si avviarono lentamente tra le schiave.
Fecero un paio di giri, guardandole dallâalto, toccandole, urlandosi battute grevi lâuno con lâaltro.
Notai come ogni volta che uno di loro si avvicinava a una schiava, questa cominciava a muoversi, ad agitare il culo, quelle nude a far ballare le tette mentre stavano a quattro zampe, e a emettere dei mugulii attraverso le palle rosse che avevano fissate in bocca.
Ogni volta che uno dei due uomini si allontanava, la schiava guardava terrorizzata Jabba.
Alla fine, quasi contemporaneamente, i due scelsero ciascuno una schiava.
Jabba schiacciò un bottone e con uno scatto secco gli anelli di metallo del muro si aprirono.
I due afferrarono le catene come se fossero guinzagli e, sempre ridendo e urlandosi battute, uscirono dalla porta tirandosi dietro le due schiave, che li seguirono trotterellando.
Nel salone ora regnava il silenzio, turbato solo dal pesante respiro di Jabba.
â ecco â sussurrò la signora â mio marito pretende che le schiave facciano del loro meglio per farsi scegliereâ â
i piccoli occhi scuri di Jabba giravano lenti sulle schiave rimaste
â e punisce quelle che non si sono date abbastanza da fare â
Jabba con una mano prese un telecomando, e le schiave lo guardarono tremando
â certoâ â aggiunse la signora, sussurrando ma sorridendo divertita â in veritĂ le sceglie un poâ a casoâ ma serve a mantenere la disciplina, no? â
â assolutamente â sussurrai anche io, senza distogliere gli occhi dalla sala.
La tensione e la paura arrivavano anche a noi, a ondate.
Guardai Francesca, che osservava la scena con occhi sbarrati.
Tlack! Tlack!
Scattarono due anelli, e due catene caddero a terra.
Le due schiave prima scossero la testa, poi provarono adire qualcosa che non fu altro che un sordo mugolare, ma quando Jabba schiccò le dita tutte e due lentamente si alzarono e lo raggiunsero.
Le altre schiave si rilassarono, probabilmente per lo scampato pericolo, e si misero tutte nella stessa posizione: in ginocchio, rivolte verso Jabba, con le mani chiuse a pugno e appoggiate a terra: insomma come fanno i cani ben addestrati quando si siedono.
Tutte quelle donne, vestite in modo cosĂŹ diverso, e tutte in quella tessa identica posizione, mi eccitarono moltissimo.
La signora se ne accorse e mi chiese â vuole andare? -, ma io scossi la testa: il desiderio di vedere era troppo forte.
Avrei avuto tempo, piĂš tardi, per sfogarmi.
Le due schiave erano in piedi, davanti a Jabba.
Tremavano.
La prima aveva probabilmente sui trentâanni, era piccolina, di carnagione scura, mediterranea, capelli neri e sciolti sulle spalle, ed era nuda.
Aveva le gambe corte e il culo tondo, e due grossi seni pieni, leggermente penduli, con i capezzoli piccoli e scuri.
Lâaltra era leggermente piĂš giovane, piĂš magra, pelle chiara e corti capelli biondi.
Era vestita in gonna e camicetta neri, ma a un cenno di Jabba si spogliò in un attimo, rivelando un culo stretto e alto, e due seni piccoli ma pieni, con areole rosa e larghe.
â la punizione per non essersi date abbastanza da fare con i clienti â sussurrò la signora
â la cambiamo ogni settimana, piĂš o meno. Se no si abituanoâ â ridacchiò
Per la prima volta sentii la voce di Jabba.
Da un corpo cosĂŹ grande e impressionante, uscĂŹ una vocina flebile, quasi femminile.
â dieci â disse la vocina
le due schiave tremarono, ma non si mossero.
Jabba indicò la brunetta.
â eccoâ ciascuna somministra la punizione allâaltraâ â mi spiegò la signora â e deve metterci tutto lâimpegno possibile, se no sarĂ lei a subire, oltre alla sua punizione, anche la punizione dellâaltra. Non ci crederĂ , ma dopo un poâ le ragazze cominciano a sviluppare un odio reciproco, che impedisce loro qualsiasi tipo di alleanza o amiciziaâ e piĂš si odiano, piĂš noi cerchiamo di metterle in punizione insiemeâ spesso alla fine sono piĂš cattive e rabbiose di quanto potremmo essere noiâ â aggiunse, scuotendo la testa.
Io non replicai, osservavo solo, ipnotizzato.
Questa evidente, sfacciata e violenta esibizione di potere e sottomissione mi aveva eccitato come non ricordavo mi fosse mai capitato.
Mi trattenevo a stento dal saltare lâelegante balaustra, entrare nella sala e abusare di una qualsiasi delle schiave.
Sospirai.
Jabba fece un molle cenno con la mano destra.
La biondina si mise di profilo, cosĂŹ che anche le schiave ancora incatenate potessero vedere.
Poi, lentamente, si afferrò i capezzoli con lâindice e il pollice di ciascuna mano.
E tirò verso lâalto.
Le tette piccole e sode si stirarono e allungarono, ma lei continuò a tirare, strizzando gli occhi per il dolore fino a che Jabba non fece un cenno.
E rimase ferma.
Francesca tremò, credo immaginando il dolore della schiava.
Dopo una pausa che sembrò non finire mai, Jabba fece cenno alla brunetta.
Lei si avvicinò a un tavolino, e prese in mano una lunga canna, flessibile, come se fosse di legno morbido o di bambÚ.
La bionda la osservò, e iniziò a tremare.
La bruna si mise di fianco a lei, e guardò Jabba, che annuÏ impercettibilmente.
Il colpo arrivò fortissimo.
La brunetta mirò bene, e la canna impattò esattamente dove doveva, nel solco tra il seno, tirato verso lâalto, e il petto.
Il rumore fu uno schiocco secco, ma fu coperto da una specie di urlo che le altre schiave fecero attraverso le palle rosse che chiudevano le loro bocche.
â devono contare â mi spiegò la signora, e io capii che quel suono era un âuno!â.
La biondina si piegò, emise un urlo soffocato, cercò di tossire, ma riprese la posizione, di nuovo alzando le tette tirate per i capezzoli e aspettando.
Le sue gambe iniziarono a tremare.
Ma ciò che mi colpÏ davvero fu lo sguardo di odio e rabbia che lanciò alla brunetta.
La brunetta aspettò il cenno di Jabba, che arrivò.
Di nuovo colpĂŹ, e di nuovo le schiave urlarono, soffocate, il numero del colpo.
Quando finalmente arrivò il decimo e ultimo colpo, la biondina era caduta a terra tre volte, non era riuscita a trattenersi e allâottavo colpo si era pisciata addosso, piangeva, tossiva.
Il suo petto e i seni erano coperti da dieci strisce rosse.
Dopo il decimo colpo, cadde a terra, nella pozza della sua stessa urina.
Jabba attesa qualche istante, finchè la bionda non sembrò essersi ripresa.
Poi fece un cenno con la mano.
La brunetta tremava, e le lacrime scendevano giĂ dai suoi occhi, e il naso colava muco sulla palla rossa che aveva in bocca.
Ma si mise al posto della bionda.
Si afferrò i capezzoli, piccoli e scuri, e iniziò a tirare.
Le sue tette erano molto piĂš grandi e pesanti di quelle della bionda, e lei dovette alzare i capezzoli in alto fin sopra le spalle, per poter scoprire la porzione di pelle tra le sue tette e il petto.
Guardai la bionda.
Respirava ancora con affanno, ed era leggermente piegata in avanti, e teneva una mano sui seni.
Ma era in piedi, vicino alla bruna, e teneva nella destra la canna.
E guardava la bionda e Jabba, e io vidi nel suo sguardo lâansia e la rabbia della vendetta.
Jabba si godette quel momento.
E io me lo godetti con lui.
Poi finalmente annuĂŹ, e la bionda colpĂŹ sotto i seni della brunetta con tutta la sua forza.
Per dieci volte.
Le altre schiave contarono.
La ragazza urlò.
Jabba si leccò le labbra.
La signora rise.
Io mi afferrai il cazzo attraverso i pantaloni.
Francesca piangeva.
Quando tutto finĂŹ, rimase solo il silenzio, i singhiozzi della brunetta, a terra, rannicchiata, e i sospiri di fatica e rabbia della bionda.
Si aprĂŹ la porta, entrarono due altre schiave in tenuta da lavoro, e senza alzare lo sguardo pulirono per terra e accompagnarono fuori le due ragazze.
â quanto tempoâ? â chiesi alla signora, che capĂŹ subito la domanda.
â naturalmente dipende dalla punizioneâ quella di questa settimana è abbastanza dura, quindi diciamo un paio di settimane per recuperare, e unâaltra settimana per tornare al lavoroâ ma per fortuna â disse â abbiamo sempre piĂš schiave di quelle che servonoâ â e con un sorriso malizioso osservò Francesca, che si ritrasse dietro di me.
Come a chiedermi di proteggerla.
â vogliamo proseguire, con la seconda parte della sua richiesta? â mi chiese la signora, facendomi strada fuori dalla porta.
Io sorrisi, e risposi â non vedo lâora â e la seguii.
La donna era alla pecorina, sul letto.
La stanza era senza finestre, il letto matrimoniale e le lenzuola bianche.
Le luci erano tutte accese.
Io ero in ginocchio dietro di lei, e la scopavo ritmicamente.
Ad ogni colpo, le gemeva e sospirava, alternando con frasi come âoh sĂŹ, scopamiâ, âgodoâ âsono la tua puttanaâ e altre simili.
Le diedi uno schiaffo sul culo, e lei gemette di piacere.
Mi fermai, e osservai il culo abbondante, e piegandomi leggermente fissai i grossi seni penzolanti, con i capezzoli larghi, rosa chiaro.
Poi mi afferrai il cazzo, e glielo appoggiai al culo.
Lei inspirò e inarcò la schiena, e io iniziai a spingere.
âoh, si dai, inculamiâ sussurrò lei, e io spinsi con forza.
Sentii il muscolo rilassarsi e entrai dentro di lei lentamente, ma con facilitĂ , e iniziai a scoparle il culo.
â guardatevi â dissi
e la donna alzò la faccia e fissò negli occhi Francesca, che era seduta, rigida, le mani in grembo, in una seggiola di legno proprio di fronte al letto.
Anche Francesca fissò la faccia della donna che stavo inculando.
Io guardai prima il culo della donna, mentre il mio cazzo ci scompariva dentro, poi Francesca, i cui occhi erano fissi sulla faccia della donna.
Quando sentii che stavo per venire, uscii da lei â non muoverti â dissi, le girai attorno, mi misi in piedi accanto al letto, strinsi forte il cazzo e venni, facendo attenzione a che gli schizzi arrivassero precisi sulla faccia della donna.
Il primo schizzo, il piĂš copioso, le arrivò sulla fronte, finendo anche sui capelli tinti di biondo e su un sopracciglio; il secondo arrivò dritto sul naso e le labbra; per il terzo mi avvicinai, e feci attenzione a colpire lâocchio destro, che lei chiuse appena un attimo prima, cosĂŹ che la striscia bianco pallido le rimase sulla palpebra, di traverso, incollata al mascara.
Sospirai, e le strofinai la cappella sulle guance, spremendo il cazzo dalla base, per far uscire le ultime gocce di sperma.
â non muovetevi â dissi poi, e andai nel piccolo bagno della camera, dove mi sciacquai velocemente.
Poi uscii, mi rivestii.
Osservai la scena.
Al centro della camera del bordello, un letto matrimoniale, disfatto, dove avevo appena finito una scopata di tutto rispetto.
A pecorina, con la faccia rivolta verso il fondo del letto câera la puttana che avevo scelto.
Non giovane, piĂš sui quaranta che sui trenta, anche un poâ sovrappeso.
Era nuda, le tette grosse, pendevano molli sotto di lei, i capelli tinti di biondo e lunghi erano spettinati sulle spalle, e la sua faccia troppo truccata, col rossetto sbavato era coperta da strisce biancastre.
Di fronte a lei, seduta con la schiena rigida, sedeva Francesca.
Era lĂŹ da unâora, da quando avevo fatto entrare la puttana, lâavevo fatta spogliare e avevo iniziato a scoparla.
Francesca prima aveva probabilmente temuto che volessi coinvolgerla in una cosa a tre, ma quando aveva capito che avrei âsolamenteâ scopato la puttana davanti a lei si era immobilizzata, cercando di non farsi notare, immagino sperando che la puttana mi prendesse abbastanza da non farmi venire voglia di far fare qualcosa anche a lei.
Presi unâaltra seggiolina, e mi sedetti vicino a loro, di lato, cosĂŹ che potessi guardarle tutte e due.
Francesca seduta e vestita, la puttana nuda, a pecora, con in faccia il mio sperma che si seccava piano piano.
Restammo immobili e in silenzio per quasi un minuto.
â come ti chiami? â chiesi allâimprovviso, rivolto alla puttana
â Samantha â rispose lei
â non il nome che usi nel bordello, il tuo vero nome â
Lei esitò appena un istante, poi rispose â Nathalie â
E per la prima volta emerse uno strano accento, probabilmente del nord, certamente di un altro paese.
â da dove vieni? â chiesi, e Nathalie confermò la sua origine straniera, di un paese del nord.
â raccontami la tua storia â dissi
Lei iniziò, come se avesse già raccontato quella storia piÚ volte.
Io annuii, perchĂŠ avevo verificato con i proprietari del bordello e avevo scelto lei prorio per la sua storia.
Ero una giovane studentesse, al mio paese â spiegò Nathalie â e dopo lâuniversitĂ mi venne offerta una borsa di studio per specializzarmi. Accettai, e venni qui.
Dopo due anni, ottenni la specializzazione e iniziai a lavorare in una grande azienda.
Vedere quella donna, sentire che aveva unâistruzione superiore, sentire il suo accento, e nel frattempo vederla lĂŹ, nuda, con il culo allâaria e il mio sperma sul naso, mi fece sentire un brivido al basso ventre
Peccato aver appena finito di scoparla, mi dissi, magari tra un poâ potrei ricominciare.
Ma lei non si accorse di nulla, e proseguĂŹ.
Dopo poco tempo che lavoravo, conobbi un ragazzo, mi innamorai, e andai a vivere con lui.
Lui aveva dei giri strani, aveva dei debiti con degli strozzini e io firmai a garanzia dei suoi debiti.
Ma poco dopo lâazienda trasferĂŹ la sede allâestero, io rimasi senza lavoro e non riuscii piĂš a pagare i debiti.
Venni processata e il giudice mi diede ventâanni di schiavitĂš.
Me ne mancano ancora cinque.
â e dopo la sentenza, cosa successe? âchiesi io
venni comprata da un uomo.
Era appena stato lasciato dalla moglie, non voleva avere altre storie sentimentali ma voleva una donna, e aveva deciso di prendere una schiava.
Io ero bella, intelligente, giovane, straniera.
Spese molti soldi, ma mi comprò.
Ma io non accettai la schiavitĂš.
Mi ribellai, e per due anni lui provò in tutti i modi a domarmi.
Con le buone, e con le cattive, ma io non accettai mai di sottomettermi.
Allâimprovviso la sua voce perse il tono neutro, e divenne roca e spezzata.
Alloraâ allora lui un giorno mi prese, e mi riportò alla casa dâaste.
Venni venduta.
Mi compròâ mi comprò ilâ questo.
E dicendo cosĂŹ alzò lo sguardo, come a indicare lâintero bordello.
E da alloraâ da allora sonoâ qui.
â e qui, sono riusciti a domare la tua indole ribelle? â le chiesi, sorridendo
Lei scosse appena la testa, annuendo.
Subitoâ voiâ lei non può immaginare cosaâ comeâ ioâ loro hannoâ
La voce si ruppe, e una lacrima scese dagli occhi, e io la seguii fino a che si mescolò con il mio sperma, ormai secco sulla sua guancia.
â hai piĂš rivisto il tuo primo padrone? â
solo una voltaâ venne qui, chiese di me, e mi presentò la sua nuova schiavaâ e le fece raccontare la sua giornata, e lei lo fece, e insistette su come fosse buono il padrone, su quanto tempo libero avesse, sui regali e i viaggi che avevano fatto insieme, e su come fosse felice di servire un padrone cosĂŹ buono e gentile.
Poi luiâ luiâ disse che aveva pagato il mio culo per tutto il giorno, e chiunque avesse voluto avrebbe potuto scoparmiâ e quindi lui e la schiava mi portarono in un salottino, dove loroâ loroâ
La puttana adesso piangeva, piano.
Loro mangiavano e bevevano e rimasero lĂŹ, tutto il giorno, mentre un cliente dopo lâaltroâ miâ mi⌠davanti a loro⌠che ridevano eâŚ
Alzai la mano e la fermai.
â ancora una domanda, poi potrai andare â
Parlai alla puttana, ma lo feci guardando fisso Francesca.
â cosa diresti a una schiava, appena comprata, che si ribella al suo padrone e non accetta suo destino? â
La puttana capĂŹ.
Guardò Francesca, e le disse â nonâ noâ noâ non lo saiâ non immagini cosa può succedertiâ quiâ o in posti, ci sono posti⌠molto peggiori di questoâ sei fortunata, credimiâ non immagini nemmeno quantoâ questo postoâ ho visto fareâ succedere cose cheâ â
Non riuscÏ a proseguire, e abbassò lo sguardo singhiozzando.
â va bene, alzati â dissi a quel punto â abbiamo finito, puoi andare â
â grazie, grazieâ spero cheâ sia stato tutto di suo gradimentoâ â
â sĂŹ, grazie â risposi sorridendo
â alloraâ potrebbe â la puttana abbassò la voce, sussurrando timorosa, come se qualcuno potesse sentire â se glielo chiedessero, potrebbe dire cheâ â
â certo â annuii â dirò che sei stata davvero obbediente, brava e partecipe, e che tornerò certamente altre volte â
â grazieâ grazieâ â disse lei, poi raccolse da terra i suoi vestiti e uscĂŹ dalla camera.
Durante tutto il viaggio di ritorno io non dissi nulla, e Francesca rimase in silenzio, nel sedile accanto a me.
Quando entrammo in casa, finalmente mi rivolsi a lei.
â allora? â
â ioâ ioâ â le prime parole di Francesca dalla mattina furono appena sussurrate â ioâ non voglioâ io non voglioâ io voglio andare a casa miaâ io me ne vado â
e cosÏ dicendo si girò, aprÏ la porta e iniziò a camminare, semplicemente, lentamente, verso il cancello.
Io la seguii, lentamente, e dopo che ebbe fatto tre passi misi la mano in tasca, e schiacciai il telecomando.
Il collare emise un piccolo trillo, e unâondata di dolore percorse il corpo di Francesca, inaspettato, e violento, e lei cadde a terra, contorcendosi.
Tenni il pulsante premuto per alcuni secondi, durante i quali lei gridò e urlò, a terra.
Poi lasciai il pulsante, mi avvicinai a lei e la alzai lentamente, la abbracciai e la riportai lentamente in casa.
Chiusi la porta, sempre abbracciandola, e lei provò a spingermi via, ma con un gesto appena accennato, e poi alzò i pugni e mi colpÏ sul petto e sulle spalle, mentre io la tenevo sempre tra le mie braccia.
Poi abbandonò la testa sul mio petto, e pianse.
Io la strinsi, piano, e la accarezzai sulla schiena e sulla testa.
â sssshhhâ ssssshhhâ. â sussurrai â piano, pianoâ calmati adessoâ â
poi le presi dolcemente la testa tra le mani e le alzai la faccia, guardandola fisso.
â non câè nulla che tu possa fare. Nulla. Lâhai capito, vero? â
e lei annuĂŹ.
â non costringermi a fare qualcosa che non voglio. Non costringermi a venderti, a prendere unâaltra al posto tuoâ sai, quando ti ho comprata credevo di volere te, solo te. Ma sai, da un poâ, ho capito che alla fine potrei davvero avere unâaltra, come schiava, e sarei felice ugualmenteâ sei importante, davvero, sei molto importante per meâ ma ho capito che non sei nĂŠ unica, nĂŠ indispensabileâ e tu, lâhai capito, questo? â
di nuovo, Francesca annuĂŹ.
Eravamo uno di fronte allâaltra, i nostri volti si sfioravano, i nostri respiri erano caldi sule nostre facce.
E lentamente abbassai la mano destra lungo la sua schiena, dove era stata ad accarezzarla, fino allâinizio dei suoi pantaloni.
La guardavo fissa negli occhi.
Poi infilai la mano, lentamente, dentro i pantaloni, sostai le mutandine e con il dito medio arrivai fino al suo buco del culo, dove mi fermai.
â chi sei, tu? â le chiesi avvicinandomi ancora di piĂš, fino a toccarle il naso con la punta del mio.
Francesca abbassò lo sguardo e sussurrò â la sua schiava, padrone â
E io spinsi lentamente il mio dito dentro il suo culo, stretto e secco, e lo infilai fino alla seconda falange.
Francesca si irrigidĂŹ per il dolore e lâintrusione.
â stringi forte â le dissi
restammo cosĂŹ, fermi, per un paio di secondi.
Poi sentii il suo ano contrarsi, con forza, lungo tutto il mio dito
â voglio che tu faccia lo stesso con il mio cazzo. Adesso â dissi, e non mi mossi.
Il tempo si fermò, io con la mia faccia appoggiata alla sua fronte, lei con lo sguardo basso, mentre la tenevo abbracciata con la sinistra e la mia mano destra era nei suoi pantaloni, e il dito medio infilato nel suo culo.
Poi, finalmente, Francesca alzò la testa, guardò un punto dietro le mie spalle, sussurrò âsĂŹ, padroneâ, e iniziò a slacciarsi la camicetta.
â passo a prenderti alle tre â le dissi mentre uscivo al mattino per andare al lavoro â fatti trovare pronta e vestita elegante â e mi chiusi la porta dietro le spalle.
Erano passati pochi giorni da quando eravamo stati al bordello, ma tra noi non câera quasi stata interazione.
Ero uscito sempre presto, tornando tardi la sera, stanco e con ancora del lavoro da fare.
Francesca mi aveva aspettato sveglia, mi aveva servito la cena che aveva preparato e mi aveva fatto un pompino mentre, sul divano, finivo di lavorare al computer.
Piacevole, certo, ma nulla di speciale.
Oggi mi ero preso il pomeriggio libero, e avevo deciso di dedicarlo a lei.
Cioè, a me, cioè, a noi.
Alle tre arrivai a casa, aprii la porta e gridai â andiamo! â
Francesca mi raggiunse.
Indossava una giacca grigia, una camicetta bianca con gli sbuffi sulle maniche che uscivano dalla giacca chiusa fino al collo, un paio di pantaloni grigi e delle scarpe nere, lucide, con la suola spessa in gomma, simili alle scarpe da uomo, e niente calze, lasciando che i pantaloni lasciassero scoperte le caviglie.
Si era lavata i capelli che erano neri e lucidi, e aveva un filo di trucco.
Era oggettivamente bella; non bellissima, non era una di quelle donne dalla bellezza mozzafiato, tipo modella o attrice, ma era bella, femminile e affascinante e indossava i suoi abiti come unâarmatura.
Lâunica cosa che stonava, era il collare, stretto attorno al collo, che schiacciava e deformava il colletto della camicia.
â sei bellissima â le sussurrai, prendendola sotto braccio con galanteria, chiudendo la porta dietro di noi.
Arrivammo alla macchina â guida â le dissi, sedendomi al posto del passeggero.
Francesca salĂŹ, e mise a posto il sedile e gli specchietti, accese la macchina e partĂŹ.
Io le davo le indicazioni, mentre con la mano battevo il ritmo di un blues di Ronnie Earl.
â posso sapere dove andiamo? â mi chiese a un certo punto Francesca
â in giro â le risposi â sai, mi sono reso conto che fino adesso siamo praticamente rimasti in casaâ tranne le nostre due piccole uscite âspecialiâ â dissi, riferendomi alla gita in cui lâavevo attaccata al calesse e il giorno al bordello
â però, sai, la schiavitĂš è legaleâ quindi non è che uno non possa andare in giro con la propria schiava â
Francesca guidava, in silenzio, con lo sguardo fisso sulla strada.
â lo so cosa stai pensando. Che non hai mai visto in giro un padrone con uno schiavo. E nemmeno io. Me ne sono reso conto, tutti sappiamo che la schiavitĂš esiste ed è legale, ma nĂŠ tu nĂŠ io conosciamo qualcuno che ammetta di avere uno schiavo e, soprattutto, qualcuno che si faccia vedere in giro con degli schiavi. Come mai, secondo te? â
di nuovo, Francesca non rispose continuando a guidare.
â câè un motivo, sai. Lo spiegano sui forum. PoichĂŠ molte persone, come te e come meâ cioè come me prima diâ prima di ânoiâ sono contrarie alla schiavitĂš, i proprietari di schiavi evitano di farsi vedere in giro con gli schiavi â
guardai fuori dal finestrino
â guardaâ non lo immaginiamo neanche, ma chissĂ quante delle persone che vediamo ora per strada o in macchina possiedono degli schiaviâ â
la guardai
â ma câè unâaltra cosa. Alla fine, i proprietari di schiavi hanno deciso che non era giusto che non potessero uscire con i loro schiavi, e allora, piano piano, quasi naturalmente, sono nate delle zone âsalevers freeâ, cioè delle zone in cui lâaccesso a padroni con schiavi non solo è tollerato e permesso, ma addirittura è, in modo molto gentile, sconsigliato, potremmo dire, lâaccesso a coloro che sono privi di schiaviâ ecco, stiamo andando in una di queste zone â
Guardai Francesca, e intuii un brivido di paura nel suo sguardo, e vidi una piccola contrazione nella mascella.
Non sapeva cosa sarebbe successo, e come sempre il timore dellâignoto è piĂš forte della paura di ciò che si conosce.
E intuire, piĂš che vedere, la sua preoccupazione mi fece subito venire il cazzo duro.
Arrivammo a quella che sembrava lâentrata di un grande complesso commerciale.
Câera una guardiola, e lâingresso era chiuso con una sbarra.
La guardia buttò uno sguardo nella macchina, notò (me ne accorsi) il collare di Francesca e alzò la sbarra.
Parcheggiammo.
Uscimmo dalla macchina, nel grande parcheggio, illuminati dal sole del primo pomeriggio, lâaria era tiepida.
Francesca rimase ferma, in piedi, accanto allâauto.
Io aprii il bagagliaio, presi un guinzaglio e lo fissai al collare di Francesca, che mi guardò fisso senza dire nulla.
â andiamo â dissi, e mi incamminai verso lâingresso del centro commerciale, dando uno strattone al guinzaglio.
Avanzammo cosĂŹ, io davanti, con il telefono in una mano per controllare alcune mail, e il guinzaglio nellâaltra; dietro di me Francesca, che mi seguiva passo passo, il guinzaglio teso attaccato al suo collare.
Prima dellâingresso al centro commerciale mi fermai davanti ai carrelli.
Mi frugai in tasca, presi una moneta e la gettai a terra.
â prendi un carrello â dissi
Francesca mi guardò, poi lentamente si accucciò, raccolse la moneta, liberò il carrello e, dopo un mio strattone al guinzaglio, mi seguÏ spingendo il carrello
Le porte automatiche si aprirono ed entrammo.
Io mi sforzavo di non girarmi, di non guardare Francesca.
Ma girai appena la testa per vedere la nostra immagine riflessa.
Io davanti, e lei dietro di me.
Lei che spinge un carrello, e io che la guido con il guinzaglio.
Per prima cosa entrammo nel supermercato.
Tra gli scaffali, molte persone che facevano la spesa.
Sentii Francesca rallentare e il guinzaglio tendersi, mi girai la vidi bloccata, in piedi.
Era la prima volta che usciva tra la gente da quando è diventata una schiava, e probabilmente era emozionata, umiliata e rabbiosa.
Io tirai il guinzaglio â andiamo â dissi, e lei mi seguĂŹ.
Attorno a noi notai altre persone accompagnate da schiavi.
Alcuni, pochi, li tenevano al guinzaglio, altri semplicemente si facevano seguire, docilmente.
Mentre camminavamo indicai i prodotti che volevo e proseguii, lasciando che fosse lei prenderli e metterli nel carrello.
Alla cassa, mentre pagavo notai il collare al collo della cassiera, e vidi come tutte le cassiere, e anche gli inservienti del supermercato, indossassero il collare.
Sono tutti schiavi, mi resi conto.
Pagai, e Francesca mise la spesa nei sacchetti.
Mi avviai, e lei mi seguĂŹ, sempre al guinzaglio, portando i sacchetti.
Arrivammo davanti a una caffetteria, di quelle fighette di una catena internazionale, e decisi di entrare.
Al muro, accanto alla porta, era fissato un anello di metallo, a circa un metro da terra.
Accanto allâanello un cartello con il disegno stilizzato di un cane e la scritta âio aspetto quiâ.
Per terra, una ciotola di metallo piena a metĂ dâacqua.
Senza dir nulla, mi avvicinai allâanello e vi annodai il guinzaglio.
Mi girai verso Francesca, e dissi â tu aspetti qui â
Lei mi guardò fisso negli occhi, prese il guinzaglio con una mano, fece per dire qualcosa, si trattenne, contraendo la mascella
â giĂš â aggiunsi, indicando il marciapiede â mi aspetti qui, ma a quattro zampe â
Restammo fermi alcuni istanti.
Lei mi fissò, e io vidi distintamente la rabbia e lâodio nei suoi occhi.
Restai fermo, immobile.
Lentamente, Francesca si abbassò.
Piegò le gambe.
Si inginocchiò a terra.
Mi guardò di nuovo.
Io feci un cenno con il mento, quasi di incoraggiamento.
Lei abbassò lo sguardo verso terra, poggiò sul marciapiede prima la mano destra, poi la sinistra.
Restò cosÏ, inginocchiata, con il sedere appoggiato ai talloni, le mani a terra.
Mi guardò.
â alza il culo â le dissi, muovendo appena la mano.
Lentamente, come se fosse schiacciata da un peso, Francesca raddrizzò le gambe e alzò il sedere, mettendosi a quattro zampe sul marciapiede.
â va bene cosĂŹ? â mi disse, ed erano le prima parole che mi rivolgeva dalla mattina, e le uscirono gutturali, dal profondo della gola, quasi un ringhio rabbioso.
â no â risposi sorridendo appena â devi stare appoggiata sui gomiti â
e Francesca ubbidĂŹ, abbassandosi sui gomiti, inarcando cosĂŹ la schiena e alzando il culo.
I lunghi capelli, sciolti, toccavano terra, e vederla lĂŹ, vestita elegante, a quattro zampe sul marciapiede, legata a un anello per cani, con i pantaloni grigi che le tirano sul culo e la giacca tesa sulla schiena mi fece quasi commuovere, tanto la trovai bella e quasi romantica.
â non ti muovere, mi raccomando, faccio in fretta â le dissi â ah, se hai sete bevi pure â aggiunsi, indicando la ciotola dâacciaio con lâacqua posata accanto al muro.
Entrai, e mi sedetti a un tavolo dal quale potevo tenere dâocchio il marciapiede.
Francesca restava lĂ , ferma immobile, quasi una statua: mi ricordò unâinstallazione, mi venne in mente Jeff Koons.
Ordinai un caffè americano.
â è sua quella schiava lĂ fuori? â mi chiese un cameriere, che, notai subito, indossava anche lui un collare
â sĂŹ, perchĂŠ? â
â ha bisogno di nulla? Vuole che le porti fuori qualcosa? â
â no, grazieâ â dissi, e il cameriere fece per allontanarsi â anziâ aspetti â lo richiamai
â sĂŹ? â
â avete qualcosa di salato? Magari del riso bianco? â
â beh, sĂŹ, credo sia rimasto dallâora di pranzoâ â
â bene, me ne porti un piatto. Qui da me. Non serve che lo scaldi. Me lo metta in un piatto piano â
dopo pochi minuti il cameriere tornò, e mi mise davanti un piatto con una buona porzione di riso bianco, freddo.
â del sale, e del peperoncino â dissi, e il cameriere me li portò
aprii la saliera, e cosparsi il riso di sale, e poi aggiunsi una passata di peperoncino.
Presi un cucchiaio e mescolai ben bene.
â lo porti alla mia schiava lĂ fuori â dissi al cameriere â e le dia queste istruzioni. Deve finire tutto entro cinque minuti, quando io uscirò dopo aver bevuto il caffè. Non voglio trovare nemmeno un chicco di riso sul piatto. E non deve usare le mani, nĂŠ alzare i gomiti da terra. Le dica che io la controllerò da qua â
il cameriere non fece commenti nÊ sembrò interessarsi della cosa.
Era uno schiavo anche lui, probabilmente aveva visto ben altro, e lâultima cosa che voleva era immischiarsi nei problemi di altri schiavi.
Lo osservai uscire, posare il piatto davanti a Francesca e parlarle.
Lei lo osservò, dal basso in alto. Gli chiese qualcosa.
Lui rispose facendo cenno verso di me, Francesca si girò verso la vetrina e io da dentro la salutai con la mano e sorrisi.
Lei disse ancora qualcosa al cameriere, che scosse la testa, allargò le mani in un gesto di impotenza, girò le spalle e tornò dentro.
Francesca rimase lĂŹ, a guardare quel piatto di riso a terra, sul marciapiede davanti a lei.
La gente le camminava accanto, senza degnarla di piĂš di uno sguardo veloce e distratto.
Alla fine abbassò la testa e avvicinò la bocca al piatto.
I capelli le finirono a terra e nel piatto, e non vidi la sua bocca prendere il primo boccone di riso.
Ma dopo un attimo, la sua espressione cambiò.
Il riso era salatissimo e piccante.
Francesca aprĂŹ la bocca, con lâistinto di sputare, ma guardò verso la vetrina e mi vide.
Io sorrisi e feci di ânoâ con la testa.
Francesca deglutÏ con uno sforzo, e lentamente si abbassò per un altro boccone.
In quel momento, una signora grassa passò sul marciapiedi, portando al guinzaglio un cane di taglia media.
Ignorando del tutto Francesca, il cane si fermò lungo il muro al quale era attaccato il guinzaglio della mia schiava, e fece una lunga pisciata.
Poi si accostò alla ciotola, e bevette.
Poi si allontanò.
Francesca aveva assistito a tutto questo restando immobile, con la testa sul piatto.
Poi prese un secondo boccone e iniziò a masticare.
Resistette per altri due bocconi.
Poi il sale e il peperoncino ebbero il sopravvento, e si girò verso la ciotola dellâacqua dalla quale aveva appena bevuto il cane.
Prese la ciotola tra le mani e bevve.
Lo so, avrei tanto voluto che bevesse stando a quattro zampe, invece che portandosi la ciotola alla bocca.
Ma era pur sempre in ginocchio, nel mezzo del marciapiede, legata a un anello di ferro alla parete dove pisciavano i cani di passaggio e aveva appena bevuto da una ciotola per cani.
Ero soddisfatto, come provava lâerezione quasi dolorosa che avevo nei pantaloni.
Pagai, mi alzai ed uscii.
Francesca era ancora in ginocchio.
Mi guardò, non disse niente.
Io slegai il guinzaglio, diedi un colpetto verso lâalto per farla alzare in piedi e mi incamminai verso la macchina.
â guida â le dissi
Mentre viaggiavamo per la città , seguendo le mie indicazioni, finalmente Francesca parlò.
Lo fece a voce bassa, quasi un sussurro, e dovetti spegnere la radio che passava Dylan, per sentirla.
Parlò tenendo gli occhi fissi sulla strada e le mani strette sul volante.
â perchĂŠ? PerchĂŠ mi hai fatto questo? â
io rimasi in silenzio
â posso capire â continuò â anzi no, non posso capireâ ma riesco almeno a immaginare una ragione dietro aâ al sessoâ â scosse la testa â ma questoâ questo â
sospirò, e deglutÏ a fatica.
Mi sembrò che lottasse contro il pianto.
â questoâ â riprese â questo non ha motivo. Non lo capisco â scosse la testa
Io rimasi in silenzio per qualche istante.
â vedi â le dissi poi â invece è facile da capire. Lo faccio perchĂŠ posso. è il potere. La certezza di poter disporre di te, contro la tua volontĂ , è una sensazione che mi travolge. Ed è tremendamente eccitante â aggiunsi, sistemandomi palesemente lâerezione che avevo nei pantaloni.
Francesca non rispose. Continuò a guidare.
â dove andiamo? â chiese a un certo punto, riconoscendo la parte della cittĂ in cui eravamo arrivati.
Io la guardai, sorrisi e risposi â riconosci la zona? â
Lei annuĂŹ.
â vorrei rifare alcune parti di casa miaâ â spiegai â sai, mi sono convinto che vivere con una schiava richiede alcune modifiche che non sono solo un paio di ganci di ferro alle pareti o al soffittoâ e ho capito che mi serviva un architetto â
Francesca si irrigidĂŹ e io continuai â e lâunico studio che conosco è il tuo vecchio studioâ quindi ho chiamato, e ho preso un appuntamento per oggi pomeriggio â
Francesca si girò a gradarmi â non vorrai â
â sĂŹ, certo â la interruppi â stiamo andando nel tuo vecchio ufficio â
â io non possoâ â
â oh, invece tu verrai con meâ cosa dici, lâeffetto sarebbe migliore se entrassi tenendoti al guinzaglio in piedi, o a quattro zampe? â
Francesca scuoteva la testa â non possoâ â
â magari invece che farti parlare ti faccio abbaiareâ o ti lego fuori dalla porta della sala riunioni, a terra, a quattro zampeâ â
â no nonâ â
â potrei anche lasciarti a disposizione dei tuoi vecchi collaboratori e dipendenti, mentre io sono in riunioneâ ti farebbero lavorare, o magari solo saltare, correre e abbaiare in giroâ â
Francesca rallentò, fermò la macchina a lato della strada e mise le quattro frecce.
Si girò e mi guardò.
â ti prego â mi disse â non farlo â
â lo sai che piĂš mi dici che non vuoi farlo, piĂš cresce in me la voglia di fartelo fare, vero? â
Francesca non rispose, ma ripetè â ti prego, ti pregoâ â
â perchĂŠ è cosĂŹ importante? â chiesi
â perchĂŠ questa â disse, accennando al palazzo di uffici in fondo alla via â questa è la mia vitaâ è tutto ciò che avevo ed è tutto ciò a cui spero di tornareâ non puoi togliermi anche questoâ â
â certo che posso â le risposi, duro
â ti prego, tutto, ma non questo â
â âtuttoâ? â chiesi
Francesca tremava leggermente â non so, non soâ ma ti prego questo no â
â questa cosa è cosĂŹ importane per te? Le chiesi, e lei annuĂŹ.
â e allora â continuai â anche il prezzo che devi pagare per averla deve essere molto alto â
Restammo cosĂŹ, in silenzio, nella macchina ferma con le doppie frecce.
â però mi piace davvero lâidea di portare la mia schiava nel suo vecchio ufficioâ non so se ho voglia di rinunciarciâ â
â ti prego â sussurrò Francesca â ti prego â
poi alzò lo sguardo, fece un respiro e chiese â cosa vuoi in cambio? â
â da te? â lei annuĂŹ
â cosa posso volere? Ho giĂ tutto, di teâ â poi guardai fori dal finestrino, riflettendo.
Non stavo fingendo.
Avevo davvero voglia di portarla nel suo vecchio ufficio, e farla umiliare davanti ai suoi vecchi dipendenti e collaboratori.
Ma in quel momento Francesca mi stava dando dato una grande opportunitĂ , e non volevo sprecarla.
Avrei sempre potuto tornarci, in quellâufficio.
â vediamo â cominciai â vediamoâ ecco cosa potresti fare, se vuoi convincermi a non portarti nel tuo vecchio ufficio â
mi girai e la guardai, poi iniziai a elencare
â voglio pisciarti addosso. Voglio pisciarti in bocca. Voglio che tu beva la mia piscia direttamente succhiandola dal mio cazzo, e che ti faccia frustare mentre lo fai. Voglio che la lecchi da terra, fino allâultima goccia. Voglio che mi supplichi di farlo, che me lo chieda per piacere. Voglio che mi ringrazi mentre lo faccio, e che tu sia la donna piĂš felice del mondo, mentre lo fai. Voglio vedere la tua gioia piĂš sincera mentre ti piscio addosso e in bocca, e voglio le tue lacrime di gratitudine mentre dopo tutto questo ti inculo mentre ti spingo la testa nella tazza del cesso â
Tacqui.
Francesca mi guardava tremando.
DeglutĂŹ.
Io sospirai.
â va bene, come non detto, andiamo allâufficio â dissi
Lei mi guardò unâultima volta, poi tolse le quattro frecce e disse, in un sussurro â no. Andiamo a casa -.
Nella scena seguente, Francesca era nuda, aveva la testa infilata nel water, e vomitava rumorosamente, alternando i rigurgiti di vomito a incontrollabili singhiozzi di pianto.
Io ero in piedi dietro di lei, nudo e col cazzo duro.
Nella mano destra il frustino di cuoio.
Con un colpo di frusta sulla schiena la obbligai ad alzare il culo.
Mi inginocchiai dietro di lei, le appoggiai il cazzo al buco del culo e dissi â allora? â accompagnando la domanda con unâaltra frustata.
II colpo lasciò un segno rosso sulla schiena di Francesca, che si aggiunse ai molti altri che le si incrociavano sulla sua schiena e le natiche.
â allora? â ripetei
Francesca girò lentamente la faccia sopra la spalla sinistra.
Aveva i capelli bagnati e attaccati alla faccia, le lacrime agli occhi e lunghi fili di bava e vomito le uscivano dalla bocca e dalle narici.
La puzza di vomito e urina riempiva lâaria.
Gli occhi di Francesca erano vuoti, le pupille scure quasi senza luce.
â allora? â chiesi per la terza volta, agitando la frusta.
Francesca aprÏ appena la bocca, prese fiato e sussurrò
â ti pregoâ â e si fermò, piangendo.
Io alzai la frusta e la colpii sul culo, con forza.
Francesca gridò, ma non si mosse.
â ti prego â ripetè â ti pregoâ inculami â
io annuii
â ti pregoâ inculamiâ inculami subitoâ â
si fermò.
Le lacrime riempirono i suoi occhi e singhiozzò.
Io sorrisi, la afferrai per i capelli dietro la testa, completamente fradici di piscio, li strinsi con forza e le spinsi la testa giĂš, dentro il water.
Quando sentii la sua fronte fermarsi contro la ceramica bianca, spinsi forte con il cazzo, esaudendo il suo desiderio.
Poco dopo, quando sentii che stavo per venire, con la destra le tenni la testa schiacciata dentro il water, mentre con la sinistra tirai lâacqua.
Le venni nel culo, grugnendo di piacere, mentre lei cercava di respirare con lâacqua che le ricopriva la faccia.
â lavati â le dissi, tirando fuori il cazzo â e fila in cucina, ho fame -.
Nei due giorni successivi non successe nulla.
Francesca era apatica e distante.
Io non avevo nĂŠ tempo nĂŠ voglia di dedicarmi a lei, e quindi mi limitai a ordinarle di farmi da mangiare, lavare, stirare, occuparsi della casa e, una sera, davanti alla tv, mi feci fare un pompino.
La terza sera tornai tardi dal lavoro.
Francesca aveva apparecchiato e preparato una cena leggera.
â Porta tutto in sala, cenerò davanti alla tv â le dissi.
Cenai guardando distrattamente i programmi della sera, bevendo un paio di bicchieri di vino, che mi ero fatto portare da Francesca. Lei, quando non faceva avanti e indietro dalla cucina, restava in piedi accanto a me, ferma, lo sguardo fisso sulla parete.
Alla fine della cena, le accarezzai distrattamente il culo attraverso i pantaloni, e pensai che, dopo che avesse finito di sistemare in cucina, lâavrei scopata.
Ma prima, mi dissi, mi riposerò un paio di minuti.
Avevo la testa pesante.
Troppo lavoro, e questo vino è traditore, sembra leggero e invece mi ha dato subito alla testa.
â mi addormento cinque minuti â sussurrai a Francesca â poi svegliamiâ nel frattempo metti tutto a posto â feci in tempo a dire, indicando con la testa la cucina, mentre mi lasciavo cadere sul divano.
Quando mi svegliai la prima cosa che sentii fu un terribile giramento di testa, e unâimprovvisa nausea che quasi mi fece vomitare.
Aprii gli occhi lentamente, e la luce sembrò arrivare direttamente nel cervello.
Strinsi gli occhi, e li riaprii piĂš lentamente.
Feci per alzarmi, ma qualcosa mi bloccava.
Girai la testa, e vidi che ero sul mio letto, sdraiato, e che avevo i polsi bloccati da delle corde che sembravano fissate alla testiera del letto.
â maâ cosaâ â
â liberami â disse una voce alla mia destra
Girai la testa, e vidi Francesca in piedi accanto al letto.
Stava lĂŹ, ferma, rigida, e mi guardava fissa.
â liberami â ripetè
â ma cosaâ â
â liberamiâ disse di nuovo, e per la prima volta vidi che teneva in mano il frustino di cuoio
â Francesca, calmatiâ â
-liberami!!! â gridò allâimprovviso, e mi colpĂŹ col frustino, prima sulla pancia, poi sul petto, poi in faccia.
I colpi mi fecero sussultare; il dolore era bruciante, provai a muovermi ma le corde alle braccia mi bloccavano, e mi accorsi che anche le caviglie erano bloccate.
â aspettaâ aspetta â le dissi, cercando di ragionare e di resistere al dolore che sembrava diffondersi su tutto il corpo, ma lei alzò il frustino e mi colpĂŹ di nuovo.
Cercai di girarmi per evitare il colpo, e presi due frustate sul braccio.
â va beneâ va beneâ basta!!! Fammi parlareâ non sono sicuroâ devoâ dobbiamo capire come fareâ â
Francesca si fermò.
Mi guardò, ancora con gli occhi spalancati; il respiro era affannato
â tuâ tuâ tu mi hai fattoâ mi hai fatto fareâ tuâ â balbettava scuotendo la testa â tu mi hai fato delle cose orribili!!! â gridò, e di nuovo abbassò il frustino con forza, urlando â porco! Stronzo! Schifoso! Maiale! â e ogni insulto era accompagnato da un colpo
â basta! â gridai, quando mi sembrava di non avere piĂš una arte del corpo che non mi facesse impazzire di dolore â basta!!! Se vuoi che ti liberi devi smetterla!!!! â
Francesca si fermò.
â puoi liberarmi? â mi chiese, finalmente
Io sospirai â non lo so â
Lei sollevò il frustino â ferma!!! â gridai â davveroâ non lo soâ non ho mai studiato le leggi sulla liberazione degli schiaviâ â
â cosa câentra? â mi interruppe lei â mi hai compratoâ hai sempre detto che sono âtuaâ quindi puoi fare quello che vuoi, anche liberarmi!! â
â non lo so â ripetei â ascolta, quando una persona viene messa allâasta, succede perchĂŠ lo stato affida a un altro cittadino, quello che si compra lo schiavo, il compito di punire lo schiavo al posto dello stato stessoâ insomma, il padrone ha il dovere di fare quello che lo stato dovrebbe fare ma non vuole o non può fareâ quindi liberare uno schiavo non è cosĂŹ sempliceâ devoâ dobbiamo studiareâ â
Francesca rimase in silenzio.
Decisi di provare a farla parlare: almeno, fino a quando parlava non mi avrebbe frustato.
â ho una sete terribileâ e un malditesta che mi spacca in dueâ cosa mi hai fatto?-
â anesteticoâ e sciroppo per la tosseâ nellâarmadio dei medicinaliâ nel vinoâ ho fatto un corso specialistico di chimica biologica, allâuniversitĂ â â
â cazzoâ sto malissimo â
â peggio per te. Adesso dimmi, cosa devo fare perchĂŠ tu possa liberarmi? â
â se câè un modo sarĂ sicuramente scritto nel contratto che ho accettato quando ti ho comprataâ miâ mi serve il computerâ â
Francesca uscĂŹ dalla stanza, diretta verso il mio studio.
Poi rientrò in quel momento con il mano il mio portatile.
â ecco â disse â adesso? â
â adesso apri lâindirizzo che è il primo tra i preferitiâ ecco, quello â proseguii mentre Francesca mi faceva vedere lo schermo â ecco, adesso clicca su âaccediâ â
â câè una password? â
â no â risposi io â devo usare il lettore di impronte digitaliâ vai nel mio studioâ nel secondo cassettoâ una specie di chiavetta USB verde con un piccolo schermo su entrambi i latiâ â
Quando tornò mi chiese â è questo? â
â sĂŹ â
â e adesso? â
â adesso attaccalo al computerâ sĂŹâ cosĂŹ â
â e adesso? â
â adesso devo far leggere al computer le mie impronte digitaliâ lâindice destro sopra e quello sinistro sottoâ vedi che la chiavetta ha due schermi? â
â ecco â disse Francesca, avvicinando il computer con attaccata la chiavetta alla mia mano legata
â non ce la faccio â dissi, perchĂŠ non câera abbastanza spazio tra la mia mano legata e il muro â e poi devo usare le due mani insiemeâ i due indici â
Francesca mi guardò â no â disse poi
Io non disse nulla, abbassai la testa sul cuscino e sospirai
â non câè un altro modo? Una password normale? â mi chiese poi
â non lo so. Probabilmente sĂŹ, ma io ho sempre usato questoâ dopo i primi giorni poi non ci sono praticamente piĂš andatoâ non ho piĂš avuto bisognoâ â
â certo!!! â disse lei, con un altro scatto di rabbia â perchĂŠ avevi tutto quello che voleviâ â si girò, afferrò il frustino, e questa volta mi colpĂŹ mirando direttamente al cazzo.
Anche attraverso i pantaloni, il dolore fu terribile.
Come un ferro infuocato che passava direttamente dal cazzo al cervello.
Questa volta gridai, cercai con tutte le mie forze di liberarmi dalle corde, sentii la pelle sui polsi strapparsi e le lacrime scendere lente lungo le guance.
â fa male eh? â gridò Francesca, e il secondo colpo fu ancor piĂš doloroso del primo â fa male? E questo? E questo? â gridò, cercando di colpirmi sempre sul cazzo.
Io mi agitavo e muovendomi riuscii a evitare di essere colpito in pieno, ma adesso sentivo un dolore terribile in tutta la zona del cazzo, e temevo anche di sentire il caldo di qualche goccia di sangue.
.
â se mi fai svenire non posso sbloccare il pcâ â riuscii a dire
â come facciamo? â mi chiese lei, sempre con il frustino in mano
â liberami una mano â
â no â
â allora non câè modo. Aspetta!!! â gridai, vedendo che stava di nuovo alzando il frustino â aspettaâ una mano sola.. cosĂŹ la avvicino allâaltraâ tocco il lettore di impronte e attivo il pcâ sarò legato con lâaltra mano e le gambeâ e tu hai la frustaâ se provassi a fare qualsiasi cosa mi potresti fermare a forza di frustateâ â
Francesca riflettè.
Poi lentamente si mosse.
â solo una mano â disse, guardandomi e minacciandomi con il frustino â e poi ti fai di nuovo legare â
â solo una mano â annuii io
Lentamente iniziò a lavorare sul mio polso destro.
Pochi istanti dopo, sentii le corde scivolare via e mossi le dita, grugnendo per il dolore del sangue che ritornava a circolare.
â muoviti â disse Francesca, spostando il pc alla mia sinistra â fermo!!! â gridò subito dopo, quando vide la mia mano muoversi verso il basso
â scusaâ â sussurrai â mi fa male lĂ â â indicai con un dito il basso ventre â voglio solo appoggiarci la mano sopra per un istante â ti pregoâ lentamenteâ â e mentre dicevo cosĂŹ, muovevo lentamente la mano verso il mio cazzo
â metti lâindice della sinistra qui â disse allora Francesca, avvicinando il pc alla mia mano ancora legata â dove deve stare? Qui? Su questo piccolo schermo verde? â chiese, mentre mi afferrava lâindice sinistro e lo tirava verso di seâ
â adesso lâaltro ditoâ muoviti, vieni q â
Francesca aprĂŹ la bocca, si bloccò un istante, poi i suoi occhi si girarono verso lâalto e cadde distesa sul letto.
Io rimasi fermo qualche secondo, respirando piano, senza far nessun rumore.
Francesca non si mosse.
Con la mano destra, provai a toccarla sulla spalla.
Di nuovo, non successo nulla.
â mi senti? â le chiesi piano
â mi senti? â ripetei a voce piĂš alta
Abbassai la testa sul cuscino, e finalmente sorrisi.
â troia!!!! â gridai â troia!!!!! â mentre nella mano destra stringevo il telecomando del suo collare, sul quale continuavo a premere con rabbia il pulsante rosso, quello che faceva immediatamente svenire chi portava il collare.
Quello piccolo, come il telecomando dellâantifurto di unâauto.
Quello che ogni mattina mettevo nella tasca destra dei pantaloni.
Quello che avevo afferrato mentre Francesca cercava di farmi appoggiare il dito della mano legata sul lettore di impronte digitali.
â troia. Brutta maledetta troia â ripetei ossessivamente, mentre con la mano tremante mi liberavo prima delle corde sul polso sinistro, poi da quelle delle caviglie.
Finalmente mi alzai in piedi, rischiando di cadere per quanto erano diventati insensibili i piedi a causa delle corde che avevano bloccato la circolazione, e osservai Francesca svenuta sul letto.
Mi sedetti sulla sedia allâangolo della camera.
E adesso? Mi chiesi.
E risi, risi forte, appoggiandomi alla spalliera, risi felice.
Ridevo perchĂŠ mi era venuta in mente quella battuta, quella di Pulp Fiction, quando Travolta chiede a Marcellus Wallace, dopo averlo liberato dai due pazzi maniaci, âe adesso?â.
E Marcellus risponde âe adesso⌠ora ti dico adesso cosa: chiamerò qualche scagnozzo strafatto di crack per fare un lavoretto in questo cesso, con un paio di pinze e una buona saldatrice. Hai sentito quello che ho detto, pezzo di merda? Con te non ho finito neanche per il cazzo! Ho una cura medievale per il tuo culo!â.
Quando smisi di ridere mi alzai, e alzandomi sentii che tutto il corpo mi bruciava, per i colpi che mi aveva dato Francesca.
âforzaâ mi dissi âabbiamo un lavoro da fareâ e mi avvicinai al letto, afferrando il corpo abbandonato di Francesca da sotto le ascelle e trascinandolo fuori dalla stanza. Quando entrai nella stanza, Francesca scattò verso lâangolo piĂš lontano, accucciandosi e mettendosi in posizione di difesa.
Mi guardò, i suoi occhi scuri spalancati dalla paura.
Cercò di vedere se portassi qualcosa, un bastone, una frusta, o qualsiasi altro strumento per farle male.
Ma io in mano avevo solo dei vestiti, che lanciai al centro della stanza
â cambiati â le dissi â quei vestiti sono sporchi
lei non si mosse
â non preoccuparti, non ti farò nulla â dissi, sedendomi a terra, appoggiato alla parete piĂš lontana da lei â voglio solo guardarti, vederti nuda lâultima volta â
di nuovo, Francesca non si mosse, ma mi guardò interrogativa.
Io scossi la testa â ti riporto alla casa dâaste â spiegai, tranquillo, alzando le spalle in un gesto di rassegnazione â ho chiamato, ti riprendono, mi ridanno poco meno del settanta per cento di quello che ti ho pagataâ direi che alla fine non è maleâ â
Francesca fece per dire qualcosa, ma ancora rimase zitta, aprendo appena le labbra.
â Non posso tenerti â le dissi, calmo â ho avuto paura. Potresti farmi male, intendo male davvero, non come primaâ oh, no che le frustate che mi hai dato siano state piacevoli, eh â le dissi, sorridendo, e alzai la maglietta sul costato, facendole vedere le strisce rosse e bluastre â ma male davvero, intendo, e non posso correre questo rischio.
Con la testa, feci un cenno verso i vestiti, che giacevano al centro della stanza â dai, cambiati, non abbiamo molto tempoâ â
Finalmente, Francesca parlò â maâ cosaâ cosaâ â
â Cosa ti succederĂ ? Francamente, non lo so. Ho chiesto, mi hanno detto che ti terranno loro fino al prossimo week end, quando è in programma unâasta internazionaleâ compratori anche dallâestero, tipo Emirati Arabi, Russia, estremo oriente, Africaâ se sei fortunata, finisci a lavorare in un call center in Indiaâ non abbiamo sempre detto che quelli dei call center sono i ânuovi schiaviâ? Oppure finirai nellâharem di un ricco emiro di Dubaiâ niente di terribile, direi â
Francesca non disse nulla, ma mi guardò.
Non riuscii a reggere quello sguardo, e sbuffai â lo so. è molto piĂš probabile che non ti vada cosĂŹ bene. Immagino che le alternative piĂš probabili siano le miniere, i campi di lavoroâ â
Francesca trattenne il respiro â o un bordelloâ immaginoâ mi hanno dettoâ che molte delle schiave, diciamo cosĂŹ, occidentali e di dellâaspettoâ â
Non finii la frase.
Francesca tremava.
Scuoteva la testa.
Io presi dalla tasca il telecomando del collare, quello che comandava la scossa di dolore.
â Non farmelo fare â le sussurrai â per piacere, non farmelo fareâ vestiti â
Rimasi seduto, a guardarla.
Aspettai, per uno o due minuti, fino a che lei si mosse.
Si alzò, andò al centro della stanza, prese i vestiti e tornò verso lâangolo della stanza, dove iniziò a spogliarsi e a rivestirsi.
Io la osservavo senza far nulla, ma anche cosĂŹ, solo guardandola, mi venne il cazzo duro e iniziai a sentire caldo.
Ma rimasi fermo, fino a quando no fu vestita.
Poi mi alzai.
â Andiamo? â le chiesi, e le porsi la mano.
Lei non prese la mano, ma mi seguĂŹ.
In macchina, seduti uno accanto allâaltro, mentre aspettavamo che il cancello si aprisse, senza guardarla le dissi â non ti arrabbiare, ma te lo voglio dire: queste insieme a te sono state le settimane piĂš intense della mia vita, e voglio ringraziarti, per tutto â
Lei non rispose.
Il viaggio fu breve, e lo facemmo in silenzio, senza nemmeno la radio, senza guardarci.
Arrivammo davanti alla casa dâaste, e io mi diressi allâingresso sul retro, al cancello dal quale, poche settimane prima, ero uscito con Francesca sul sedile di dietro della mia macchina.
â Fermati â sussurrò lei
Rallentai.
â Fermati! â ripetè, alzando la voce.
Mi fermai sul ciglio della strada, misi le doppie frecce e per la prima volta da quando eravamo usciti dalla stanza la guardai.
Tremava.
Aveva gli occhi lucidi.
Mi guardò, poi chiuse gli occhi e sussurrò qualcosa.
â Cosa? â chiesi
â âtienimi tu â
Io sospirai.
Spensi il motore, mi appoggiai allo schienale della macchina, sospirai di nuovo.
â Non voglioâ non voglioâ hoâ ho paura â disse lei, con un filo di voce
Io iniziai a scuotere la testa
â Ho paura â disse di nuovo, e iniziò a piangere, lentamente, con piccoli singhiozzi, con le lacrime che scendevano lungo le guance, tirando su col naso â ho pauraâ non voglio â
Io rimasi zitto.
Non per calcolo, o per strategia.
Semplicemente, non sapevo cosa dire.
La decisione di restituire Francesca mi era costata una notte insonne, mezza bottiglia del mio Bunnahabhain preferito, mille ripensamenti e dubbi, e non ero pronto a rimettere tutto in discussione.
Non sapevo cosa dire.
â Tienimi â disse lei, tra i singhiozzi â tienimiâ tuâioâ ioâ promettoâ â
â No â le dissi, senza guardarla
â Noâ non rimandarmi lĂ â tienimiâ ti prometto che â
â No! â dissi di nuovo â non promettere niente! â
Francesca tacque.
Finalmente si girò e mi guardò, gli occhi neri bellissimi, resi ancora piÚ profondi dalle lacrime, le minuscole rughe accanto agli occhi accentuate dalla stanchezza, le labbra pallide, i capelli spettinati, e io sentii qualcosa dentro di me, e le parole iniziarono a uscire da sole, e non provai nemmeno a fermarle
â Non promettere nienteâ ti voglio, ti desidero cosĂŹ come seiâ ti voglio rabbiosa, ribelle, furibonda, umiliata, dolorante, piangente, voglio sentire i tuoi insulti, le tue grida, voglio sentire il tuo disprezzo, il tuo odio, il tuo dolore, la tua pauraâ-
E mi girai, e scossi la testa.
Francesca lentamente si avvicinò, e io lentamente feci lo stesso.
Fu lei la prima ad allungare un braccio, e la strinsi piano e lei appoggiò la sua testa sulla mia spalla e io annusai il suo odore e lei pianse, pianse forte e a lungo, e io le accarezzai i capelli e le guance, senza dire nulla.
â Andiamoâ via â disse lei, accennando con un brivido allâedificio, al cancello in fondo alla strada.
Io feci per mettere in moto la macchina, ma mi fermai, mi girai verso di lei e le dissi â guardami â
Lei si girò verso di me.
Io mi mossi verso di lei, come per abbracciarla di nuovo, e lei si avvicinò appena.
E io le diedi uno schiaffo.
Con la destra, a mano aperta, forte.
Lei gridò, e si portò la mano alla guancia, stupita.
â Questo è per quello che mi hai fatto â
â Va bene â rispose lei
E quel âva beneâ mi convinse ad accendere la macchina, fare inversione e, senza voltarmi indietro, riprendere la strada di casa.
***
A casa, seduti uno di fronte allâaltra al tavolo di cucina.
Bevemmo in silenzio un caffè, ci guardammo.
Finalmente mi decisi, e ruppiil silenzio â tutto come prima â le dissi
Francesca mi guardò fisso, poi lentamente sospirò, portando una mano al collare e infilandoci un dito, come se fosse troppo stretto, poi annuĂŹ â tutto come prima â e abbassò gli occhi.
â Vai a lavarti e vestirti come si deve â le dissi allora â ma prima metti a posto â
La osservai, mentre si alzava, prendeva le tazzine e le sciacquava e metteva in lavastoviglie, e poi puliva la caffettiera.
Le guardo il culo, la schiena, i piedi.
Ho fatto bene? mi chiesi, oppure mi sono fatto travolgere dai sentimenti, da questa follia, dallâattrazione che provo per lei? Posso aver deciso non per me, ma per lei, per evitarle chissĂ quale destino terribile? Posso essere⌠innamorato?
Poi lei finĂŹ e senza dire nulla si diresse verso il bagno â non metterci troppo â le dissi, e lei annuĂŹ.
â Spogliati â le dissi quando tornò, e lei, che si era appena vestita, inizò a spogliarsi.
Era bella, profumava di pulito e di seâ, e io la guardai togliersi la camicia, i pantaloni, le scarpe â rimettile â le dissi quando si tolse i pantaloni, il reggiseno e il piccolo perizoma nero.
â Qui â dissi, e lei si avvicinò.
Le misi il guinzaglio, â giĂš â e lei si mise a quattro zampe â andiamo â e la portai in camera.
Francesca si impegnò.
Io ero nudo, sdraiato sul letto e lei era china tra le mie gambe, che mi faceva un pompino.
Presi un cuscino, lo misi dietro la testa e la guardai, dandole le istruzioni con tono neutro, come se stessi parlando di lavoro o di un argomento qualsiasi.
â Apri gli occhiâ guardami sempre mentre me lo succhiâ bravaâ usa la lingua, sia quando è in bocca sia quando è fuoriâ accarezzami con una mano e con lâaltra massaggiami piano le palleâ cosĂŹ, beneâ mugulaâ fammi sentire come quello che stai facendo ti piace e ti eccitaâ sĂŹ cosĂŹ va beneâ adesso leccami il culoâ â
E dicendo cosĂŹ allargai le gambe spingendo in avanti il culo â âbravaâ tutto intornoâ e adesso spingi dentro la lingua e falla girareâ bravaâ continua a mugulareâ ringraziami â
Francesca si fermò.
Solo un piccolo momento di esitazione, che io mi godetti tutto, ma che feci finta di non aver notato, poi mi guardò fissa e disse
â Grazie di permettermi di leccarti il culo â
â No â le dissi â con convinzione e trasportoâ â
â Grazie di permettermi di leccarti il culo â ripetè Francesca, e questa volta lo disse davvero con convinzione, sembrava un vero ringraziamento
â Leccati le labbra mentre lo dici â e lei ripetè â Grazie di permettermi di leccarti il culo â e mentre lo diceva, con ancor piĂš convinzione, si leccò le labbra, sensuale
â Ti piace vero? â e mentre glielo dicevo la guardavo fisso, facendole capire che tipo di risposta volessi, e lei
â Adoro leccarti il culo â
â E cosa preferisci, il sapore o lâodore? â
â Tutto, mi piace tutto del tuo culo â rispose Francesca, e si leccò di nuovo le labbra
â E allora chiedimelo â
â Posso leccarti il culo? â
â Non puoi farne a meno, vero? â
â Noâ non posso resistereâ voglio leccarti il culo â
â E allora va bene, puoi farlo â
E lei tornò a spingere la sua faccia tra le mie gambe, il naso appena sotto le mie palle e la lingua tornò a scorrere sul mio ano, prima lenta, attorno, e poi lunga e veloce, spinta dentro.
E tutti e due sapevamo cosâera appena successo, cosa stava succedendo.
Un test, una prova.
Io ho voluto vedere se, quanto e come lei fosse davvero disposta ad accettare quello che io voglio da lei.
E lei, lei si stava impegnando per dimostrarmi che aveva deciso.
â Porta qui il tuo culo â le dissi
E lei, senza smettere di leccarmi il culo, si girò su se stessa e portò il suo culo verso di me, alla mia destra.
Io alzai la mano e iniziai a sculacciarla.
NĂŠ forte nĂŠ piano, ma metodicamente, uno, due, cinque, dieci, quindici sculacciate.
A ogni colpo lei sussultava appena, si irrigidiva e la sua lingua aveva un piccolo guizzo, ed emetteva una specie di âmmhâ soffocato, ma non disse nulla, non si ribellò, non smise di fare quello che le avevo detto di fare.
E allora io mi presi in mano il cazzo, mi accarezzai appena e sentii di star per venire
â Sto per venire â dissi, roco â succhia â
E Francesca mosse appena la testa, e dal mio culo portò la bocca sul mio cazzo
.
Io con la sinistra le spinsi la testa giĂš, giĂš, con forza, mentre con la destra le diedi quattro o cinque sculacciate forti, una dopo lâaltra, e mentre succedeva tutto questo, venni, urlando, e lei continuò a succhiare finchè non la fermai â piano, adesso, pulisci pianoâ â e lei rallentò e pulĂŹ, piano.
Quando mi rilassai, e allungai la testa sul cuscino e il respiro tornò normale, le chiesi â come si dice? â
â Grazie â rispose appena lei
â Di cosa? â
â Di essermi venuto in boccaâ â sussurrò
â Voglio qualcosa di piĂš volgare, che contenga le parole âsborraâ, âpompinoâ, âputtanaâ, âingoiareâ â dissi, senza alzare la testa
Sentii Francesca muoversi.
Si girò, e venne a mettere la sua faccia davanti alla mia, stando in ginocchio davanti a me.
Mi guardò fisso.
AnnuĂŹ.
â Grazie â
â Per cosa? â
â Per aver permesso alla tua puttana di farti un pompino e di averle permesso di ingoiare la tua sborra â
Io soprrisi, la attirai a me e la baciai.
Sapeva di buono, sapeva di lei, e sapeva anche di me.
Lei ricambiò il mio bacio.
â Te lo farei ripetere ininterrottamente per unâoraâ â
â Posso farlo, se vuoi -.
â Tornerò tardi â
le dissi uscendo, quella mattina
â tu mangia pure, io ho una cena di lavoro. Metti tutto a posto, se vuoi guarda la TV, leggi, fai quello che vuoi, poi vai a letto â
E sulla porta, prima di uscire â anzi, vai nel mio letto: stanotte dormirai lĂŹ. Nuda, mi raccomando â
E uscii.
Avevo in programma di tornare a casa subito dopo la cena di
lavoro e divertirmi un poâ con Francesca, sia che fosse sveglia, sia che fosse giĂ a letto.
Ma le cose andarono diversamente.
La cena, per colpa di un cliente, iniziò molto tardi, e si prolungò in un paio di bicchieri bevuti in un paio di locali.
Insomma, quando arrivai a casa le due di notte erano passate da un pezzo, mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza e sicuramente il mix di aperitivi, vino e altro non aiuta nĂŠ il mio equilibrio, nĂŠ la mia reattivitĂ .
Entrai in camera, mi spogliai buttando i vestiti a casaccio sulla piccola poltrona, mi imposi un passaggio veloce in bagno per lavarmi i denti, infilai una vecchia tshirt, mi sdraiai a letto e, praticamente, svenni.
Mi svegliai in piena notte, un rumore, forse, o solo un brutto sogno.
Il cellulare sul comodino segnava le 4,27.
Feci per girarmi e rimettermi a dormire, ma mi accorsi di una presenza accanto a me, nel buio della camera.
Ci volle qualche secondo, ma poi mi ricordai: Francesca!
E niente, lo sapete come succede, no?
Tu sei lĂŹ, nel dormiveglia, che stai per lasciarti andare e tornare a dormire, e magari pensi soddisfatto che hai davanti ancora tre o quattro ore buone di sonno, e ti giri e sbadigli eâ e niente.
Il cazzo.
Il cazzo, lui, si sveglia. E non câè niente da fare.
E il mio cazzo si svegliò, proprio mentre io stavo per tornare a dormire.
E io feci lâerrore di abbassare una mano e accarezzarmelo appena, sotto i boxer.
E alle 4.28 di notte, mi girai.
Allungai una mano, e trovai i capelli di Francesca, il suo collo e il suo collare.
Afferrai il collare, e la tirai con forza verso di me.
Lei, che dormiva sul fianco, gridò, svegliandosi di soprassalto, e cercando di allontanarsi.
Diedi un altro strattone al collare, piĂš forte.
Lei gridò di nuovo.
Nel buio, scalciai le coperte e le infilai una mano tra le gambe, la girai a pancia in giĂš e le salii sopra.
Lei, smise di gridare o ribellarsi, e rimase ferma, immobile, sotto di me. Sentivo solo il mio respiro, affannoso e eccitato, e il suo, lento e rabbioso.
Mi tolsi i boxer, con una mano le allargai appena i glutei e spinsi il mio cazzo tra le sue gambe.
Francesca inarcò la schiena, e quando spinsi in avanti mi ritrovai nella sua figa, invece che nel suo culo, come volevo.
Ma la sua figa era calda, e dopo due o tre spinte si lubrificò a sufficienza da permettermi di scoparla tranquillamente.
Mi alzai sulle braccia, e con la destra le afferrai, da dietro, prima il collare e poi i capelli.
Lei gemette e io tirai piĂš forte.
Mi abbassai di nuovo su di lei, le infilai una mano sotto il petto e le afferrai un capezzolo, che strinsi.
Lei gemette di nuovo, piĂš forte.
Non avevo voglia di fare nulla, volevo solo scopare, venire e tornare a dormire, e quindi la scopai ancora per qualche istante, e quando sentii di star per venire uscii da lei, mi sdraiai a pancia in su e cercai nel buio il suo collare.
Quando lo trovai, la tirai verso di me e spinsi la sua faccia sul mio cazzo.
Appena sentii il calore della sua bocca, venni.
Rimasi nella sua bocca per qualche istante, sentendo il cazzo che piano piano si rilassava, poi mi girai, tirai su le coperte e abbracciai il cuscino, pronto per dormire.
Francesca rimase ferma, nel buio accanto a me.
Poi la sentii muoversi e nel dormiveglia vidi la luce del bagno accendersi, e sentii i suoi piedi nudi attraversare la stanza, e la sentii chiudere la porta del bagno dietro di seâ.
Di nuovo, mi girai per rimettermi a dormire, ma sentii lo stimolo di urinare.
Resistetti un paio di secondi, cercando di addormentarmi, ma poi sbuffai e decisi di alzarmi, per non dovermi poi alzare di nuovo.
Con addosso solo la maglietta, e nudo dalla vita in giĂš, mi avviai verso il bagno e, senza bussare o dire nulla, aprii la porta.
Francesca era seduta sul water, i capelli spettinati, gli occhi gonfi di sonno e, forse, lucidi di pianto.
Mi guardò in silenzio, e istintivamente si strinse nelle spalle e coprÏ i seni con una mano.
Malgrado tutto quello che era successo tra noi, ancora era in imbarazzo nel condividere con me un momento intimo e personale come quello di fare pipĂŹ.
Io rimasi in piedi, davanti a lei, aspettando che finisse.
Senza guardarmi, Francesca prese qualche foglio di carta igienica, si pulÏ in fretta tra le gambe e si alzò, tirando lo sciacquone.
Appena lei si alzò, io le scivolai accanto e mi sedetti sul water (perchÊ io sono sempre stato un ometto pulito, e quando posso faccio pipÏ seduto).
Francesca fece per uscire dal bagno.
â Ferma â le dissi
Lei si bloccò.
Nuda, con i capelli che le coprivano le spalle toniche, la vita stretta ma femminile, i glutei tondi e pieni, le gambe lunghe, era una vista meravigliosa.
Ma non era quello che mi interessava.
â Vieni qui â le dissi, la voce ancora impastata dal sonno
Lei si avvicinò.
Rimase in piedi accanto a me, seduto sul water.
La guardai, da sotto in su.
Lei rispose al mio sguardo con unâespressione neutra, ma intuivo timore e dubbio dietro al sua forzata indifferenza.
â In ginocchio â le dissi
E lei, sempre in silenzio, dopo un paio di secondi, lentamente si inginocchiò accanto a me.
â Qui davanti â le dissi, indicando le piastrelle proprio davanti al water.
Francesca, già in ginocchio, si spostò di lato e si mise davanti a me.
Allargai appena le ginocchia â piĂš vicino â dissi, e lei si avvicinò. Fino a che il suo ombelico quasi toccò la ceramica bianca del water.
Senza dir nulla, con la mano destra spinsi appena in giĂš il cazzo, verso il basso, e socchiudendo gli occhi iniziai a pisciare.
Fu una pisciata lunga, rumorosa e liberatoria, con tutto quello che avevo bevuto quella sera.
Di solito, prima di alzarmi dal water, come posso spiegarmi, lo âsgoccioloâ per bene, e ci passo anche un poâ di carta igienica.
Questa volta non feci nulla di tutto questo.
Quando il flusso finĂŹ, mi presi il cazzo, molle e rilassato, tra le dita della mano destra e lo alzai
â Pulisci â
Francesca mi guardò, senza capire.
Io abbassai gli occhi indicando con la testa il mio cazzo, che tenevo in mano, verso di lei â pulisci â ripetei
Francesca non guardò il mio cazzo.
Rimase ferma, fissandomi con espressione neutra.
Io la guardai, poi inclinai appena la testa verso destra e dissi â allora? â mentre con la mano muovevo appena avanti e indietro il cazzo.
Lei mi guardò ancora, e ancora.
Poi, senza dir nulla, abbassò la testa.
Con la sinistra le scostai i capelli da davanti alla faccia e, mentre mi appoggiavo allâindietro, contro la parete, dissi â guardami mentre lo fai â
Francesca si fermò con le labbra a un centimetro dal mio cazzo.
â Lecca â dissi
E lei socchiuse gli occhi e lentamente aprĂŹ la bocca e tirò fuori la lingua â guardami â ripetei, lei aprĂŹ gli occhi, e iniziò piano a leccarmi la cappella.
â Prima la punta, poi tutto intorno, pulisci bene â e Francesca obbedĂŹ, e io sentivo e vedevo la sua lingua muoversi rossa e lenta attorno al mio cazzo, e i suoi occhi fissi nei miei, freddi e inespressivi
â Adesso succhia â dissi, e quando lei preso in bocca il cazzo chiusi gli occhi, feci un respiro e mi concentrai.
Dopo pochi secondi, contraendo i muscoli, riuscii a far uscire qualche goccia di piscio che mi era rimasta dentro.
Aprii gli occhi appena in tempo per vedere Francesca accorgersi di quello che stava succedendo nella sua bocca, e cercare istintivamente di ritrarsi.
La bloccai mettendole con forza una mano sulla nuca â succhia â ripetei
Lei chiuse gli occhi, per un attimo non riuscÏ a deglutire e sembrò che stesse per vomitare, poi fece uno sforzo e ingoiò quelle poche gocce calde e acide.
Quando riaprĂŹ gli occhi, di nuovo mi parve di vedere delle lacrime pronte a scendere sulle sue guance, ma non successe nulla.
Finalmente lasciai la presa sulla sua nuca, e subito, quasi con ribrezzo, lei si staccò dal mio cazzo.
â Sei stata brava â dissi, e le accarezzai la testa, come si avrei fatto con un cane, e vidi questo la infastidiva, tanto che si irrigidĂŹ e quasi mi disse qualcosa, ma si trattenne
â Sei stata brava â ripetei, alzandomi, e mentre mi allontanavo verso la camera aggiunsi â potremmo rifarlo, magari la prossima volta ti terrò da parte piĂš di qualche gocciaâ vedremo â
E cosĂŹ dicendo, mi buttai sul letto, e mi addormentai, dormendo il sonno dei giusti.
O di chi, come me, possedeva una schiava bella, disperata e intimamente ribelle, come Francesca: e quello, se non è il sonno dei giusti, è comunque un gran bel sonno.
Mi svegliai solo una volta, non so se dopo pochi minuti o qualche ora, quando accanto a me sentii Francesca singhiozzare e tirare su col naso, piano, cercando di non fare rumore.
Pensai di infilarle un dito nel culo, cosĂŹ, per distrarla, ma lasciai perdere.
In fondo, era tardi e volevo dormire.
Avrei avuto tutto il tempo, per fare quello, e mille altre piccole e grandi cose, alle quali avrei pensato domani.
Che bello, domani, pensai, e mi addormentai.
La mattina dopo mi svegliai con calma.
Non avevo nulla da fare, era sabato.
Quindi dormii fino a tardi, che poi per me non era altro che svegliarmi verso le 8.30 e cincischiare tra il sonno e la veglia fino alle 9.00.
Francesca, invece, dormiva tranquilla, accanto a me.
Quando ormai mi ero svegliato del tutto, mi alzai e aprii le tapparelle, inondando la stanza della luce del mattino.
Francesca si svegliâ.
Ricordavo, da quando eravamo stati per qualche settimana piâ o meno insieme, che lei era la tipica donna che al mattino non ti rivolgeva nemmeno la parola se prima non aveva bevuto almeno due tazze di caffâ, non era stata in bagno a fare tutte le sue cose con calma e non aveva gentilmente deciso che il mondo poteva finalmente godere della sua attenzioneâ scherzi a parte, Francesca era la tipica persona con il risveglio molto lento.
A differenza mia, che appena suona la sveglia sono pronto, carico e allegro. Lo so, spesso non sono il compagno ideale per la mattina.
Francesca si mosse, lentamente.
Istintivamente portâ una mano, lenta, al collo, dove sentâ il collare, e la sua faccia sprofondâ nel cuscino.
Poi afferrâ il lenzuolo, e fece per coprirsi.
â Sveglia! â gridai, allegro â sveglia!! â ripetei, e in un colpo tirai via il lenzuolo, lasciando Francesca scoperta, nuda, a pancia in giâ.
Lei non fece nulla, se non tirare lentamente le ginocchia verso di seâ, assumendo una specie di posizione fetale, sempre con gli occhi chiusi e la faccia seminascosta nel cuscino.
Vederla lâ, nuda a letto, e la naturale reazione maschile del mattino, quella che gli inglesi chiamano la âmorning gloryâ, mi fece venire voglia di saltare sul letto e scoparla lâ, immediatamente.
Ma mi trattenni, e dissi â apri gli occhi e guarda -Francesca, forse per il tono che usai, aprâ finalmente gli occhi e alzâ appena la testa verso di me.
Io, con un sorriso, mi abbassai appena i boxer e le mostrai il cazzo, duro, che puntava dritto verso di lei.Lei non fece nulla, solo un piccolo sospiro, come di rassegnazione, anticipando quello che stava per accadere
â Scegli â le dissi invece â o ti alzi immediatamente, ti lavi e ti vesti come dico in pochi minuti, e mi prepari la colazioneâ o â mi interruppi- oâ? â sussurrâ lei
â O vengo lâ, ti scopo, ti inculo, ti sculaccio e ti vengo in facciaâ e poi ti alzi, ti lavi e ti vesti e mi prepari la colazione â risposi, sorridendo.
Francesca rimase ferma un secondo, poi vide il mio sorriso e, inaspettatamente, un accenno di sorriso le comparve sulle labbra
â alloraâ ti faccio la colazione? â
Io sorrisi a mia volta, e poi annuii â sâ, ottima scelta â e, mentre lei si alzava dal letto, aggiunsi â perâ prima dagli almeno il bacino del buongiorno â
Francesca si avvicinâ, lenta, mi guardâ, si accucciâ sulle ginocchia, mi prese il cazzo nella mano destra e ci appoggiâ sopra le labbra- Buongiorno â disse, guardando il cazzo â ben alzato â poi mi guardâ, alzandosi, e mi chiese â va bene cosâ? â va bene â risposi.
Mi rimisi a letto, concentrandomi per non saltarle addosso.
Presi lâipad, scaricai i quotidiani, iniziai a leggere mentre lei entrava in bagno.- Muoviti! â le urlai â lavati, truccati, mettiti gonna, camicia e scarpe chiare, senza intimo.
Non so se lo sapete, ma la sezione âNorme & Tributiâ del sole24ore ha un effetto terapeutico: fa ammosciare il cazzo in meno di un minuto, cosâ quando Francesca uscâ dal bagno, coperta solo da un piccolo asciugamano, e si diresse verso la sua camera, riuscii a non correrle dietro, grazie a una innovativa pronuncia delle sezioni unite della Cassazione della quale stavo cercando (inutilmente) di capire il senso.
Pochi minuti dopo Francesca si affacciâ alla camera
â Cosa vuoi per colazione? â Era bellissima.
E lo so che lo dico sempre, ma probabilmente lo era davvero, sempre bellissima.
Indossava un paio di scarpe color crema, non troppo sexy, seriose, potremmo definirle, che perâ le slanciavano le gambe fino a una gonna grigia, e una camicetta semplice, blu scuro, abbottonata fino al penultimo bottone.
Vederla cosâ, e sapere che non aveva nulla sotto, annullâ immediatamente ogni effetto di ogni entenza, anche della Cassazione.
â Caffâ americanoâ yogurt magro con un cucchiaino di miele e due di cereali, una fetta biscottata integrale e marmellata di frutti di bosco â
risposi, e tornai a leggere la sentenza della Cassazione. Dallâinizio, che avevo perso il filo.
â Se vuoi venireâ â pronto â disse lei, ricomparendo sulla porta, e distraendomi dai miei pensieri. Facemmo colazione. Aveva apparecchiato per due. Quando arrivai e mi sedetti, lei rimase in piedi, guardandomi dubbiosa. Avevo pensato di giocare, che so, farla mangiare a terra, o sotto il tavolo, o chissâ cosa, ma vederla lâ, cosâ, vestita e pettinata, truccata e profumata, in piedi davanti al tavolo, mi fece venir voglia solo di condividere del tempo con lei.
â Avanti, siediti â le dissi, indicando la sedia
Facemmo colazione, tranquillamente, lentamente, come succede nei giorni in cui non ci sono lavori, impegni, doveri o urgenze: musica di sottofondo, caffâ, cose buone ma sane da mangiare, spalmare, affettare.
Come una coppia normale, abituata lâuno ai silenzi e ai rumori dellâaltra, e viceversa, senza imbarazzi.
â Cosa vuoi fare oggi? â le chiesi
Lei mi guardâ, sospettosa.
â Quello cheâ quello che vuoi tu, no? â mi rispose, come a dire âche domande mi fai???â
â No, certo â risposi io â ma che ne diresti di uscire? Ti serve qualcosa? Andiamo a fare un poâ di shopping, due passi da qualche parteâ- ioâ come vuoiâ â poi aggiunse â mi servirebbeâ delle cose per ilâ bagnoâ e poiâ assorbenti, credoâ una spazzolaâ deiâ un pigiama? â mi chiese, cauta
â Fai una lista â risposi â cosâ vediamo cosa fare, se andare in centro, o a un centro commercialeâ â Francesca si irrigidâ.
Il ricordo dellâultima volta al centro commerciale le passâ come unâombra sul viso. Io non dissi nulla.
Finimmo di fare colazione â rimetti a posto tutto, poi aspettami per uscire â dissi alzandomi â vestita cosâ va benissimo â
â Maâ non ho nienteâ sotto â mi disse lei
â Lo so â risposi io, senza girarmi, andando verso la camera.
Mi lavai e vestii.
Il cazzo, ancora barzotto, reclamâ, ma io mi imposi di ignorare lui e, soprattutto, la donna con la gonna ma senza mutande sotto che mi aspettava di lâ. Jeans, camicia leggera, una giacca blu informale, un paio di scarpe scamosciate.
Porsi a Francesca una sciarpa di seta â mettila al colloâ per coprire il collare â spiegai.
Quando salimmo in macchina, sembravamo la tipica coppia benestante che esce il sabato mattina a fare un poâ di compere. In macchina accesi la radio, e subito iniziâ un notiziario. Commentai le notizie, e dopo qualche istante Francesca rispose ai miei commenti.
Era strano, per lei ma anche per me. Era come se avessimo vissuto in una bolla nelle ultime settimane, e per la prima volta fossimo tornati nella realtâ.
Arrivammo in centro, parcheggiai, scendemmo dalla macchina e io la presi sottobraccio, e iniziammo a camminare
â Dove andiamo? Cosa ti serve? Prendiamo un caffâ, prima? â chiesi
In piedi al bancone del bar â cosa prende, signora? â chiese il barista, un bel ragazzo, giovane con un accento strano, probabilmente rumeno o albanese, e Francesca si scosse, quasi, sentendosi rivolgere la parola in quel modo rispettoso e gentile
â un caffâ â rispose, guardandomi dubbiosa, e quando io annuii impercettibilmente, aggiunse â macchiato caldoâ e zucchero di cannaâ se ce lâha â
â Certo signora, immediatamente â rispose il barista, sorridendole e forse flirtando appena appena con lei, che sorrise di rimando, per poi girarsi subito verso di me, spaventata. Io feci finta di non aver notato nulla.
Camminammo per il centro
.Entrammo in diversi negozi, lei acquistâ diverse cose, che pagai
.Alla fine, avevo in mano tre o quattro pacchetti, e mentre camminavamo parlavamo, commentavamo le vetrine, i bar che avevano appena aperto o chiuso, il tempo, la gente che câ in giro il sabato.-
Ho fame â le dissi â â ormai â quasi lâunaâ che ne dici se mangiamo da qualche parte? La giornata â troppo bella per tornare a casaâ-
Lei mi guardâ appena e rispose â certo -, con un tono che tradiva il sollievo dello stare lontani da casa e il dubbio, sempre presente, che avessi in mente qualche cosa di brutto.
Il ristorante era mezzo pieno, carino, semplice ma curato, noi eravamo seduti a un bel tavolo vicino alla finestra e avevamo finito di mangiare, un antipasto in due, unâinsalata per me, un poâ di pasta per lei, e stiamo aspettando i caffâ.
Avevamo anche bevuto un bicchiere di vino a testa.
Sereni, chiacchieravamo.
â Francesca? â sentii dire da dietro la mia spalla
Mi girai. Un uomo, sui trentâanni.
Leggermente sovrappeso, stempiato, con un paio di occhiali tondi, con una specie di polo e i bermuda.
â Francesca? â ripetâ, guardandola e sorridendo, incerto
Lei non rispose, impietrita.
Mi cercâ con lo sguardo.
â Buongiorno â dissi, sorridente ma formale, accennando ad alzarmi presentandomi, mentre allungavo a mano per stringere la sua, che trovai molliccia e leggermente sudata
â Buongiornoâ sono Capatoâ Capato Antoninoâ â disse, guardando Francesca, che ancora restava ferma immobile
â Capato â ripetâ â ho lavorato per Francesca, nel suo studioâ tre anni faâ fino a tre anni faâ heheheâ poiâ sono andatoâ cioâ, mi hanno mandato via perchâ heheheâ-
Capato Antonino adesso era in imbarazzo. Si umettâ le labbra, spostâ il peso da un piede allâaltro, sorrise ma poi tornâ serio, non sapeva cosa dire, si passâ una mano umida sulla fronte
â e scusate volevo soloâ solo salutareâ arriv â
â Ma no ma no â dissi allâimprovviso, sorridente, alzandomi, appoggiandogli una mano sul braccio â si sieda, ci faccia compagnia! â
Francesca mi guardâ, impietrita.
â No ma io â balbettâ lui â non vorrei â
â Ecco, qua, si sieda â e lo spinsi praticamente sulla sedia, tra me e lei â ha giâ preso il caffâ? Un caffâ? Mi scusi! â
dissi, chiamando il cameriere â un altro caffâ qui, grazie! â
â E lei ha lavoratoâ no dai diamoci del tuâ posso darti del tu? â
â Ceâ certo â- E quindi tu hai lavorato per Francesca, tre anni fa? â lui annuâ, la guardâ appena, ma lei sedeva rigida, lo sguardo fisso sulla parete davanti a seâ
â Per quanto tempo? â
â due, due anni e mezzo â
â e cosa facevi? â
â ioâ io â rispose lui, e guardâ di nuovo verso di lei, e io vidi sotto il sorriso tremolante, sotto la fronte sudaticcia, sotto le mani che non sanno dove stare, sotto gli occhiali un poâ unti, vidi il risentimento.
Sono bravo, io, a interpretare le persone.
E in Capato Antonino, io, vidi rabbia e risentimento.
â Io ero arrivato in studio per fare pratica con lei â disse, accennando verso Francesca
â Ah, quindi lei â laureato? Complimenti! â dissi, e Capato, Capato Antonino, raddrizzâ le spalle con un moto dâorgoglio â sâ, sono laureato â- E quindi ha fatto la pratica con Francesca! Che bello! E comâera, come capo? â dissi, sorridente
E guardai Francesca, che mi guardâ a sua volta.
Conoscevo quello sguardo.
Câera qualcosa che la preoccupava.
â Ehâ deglutâ Capato â eraâ heheheâ diciamo che dopo nemmeno due settimane mi ha detto che io quel lavoro non avrei mai potuto farloâ eheehehâ â
â Ma no! Che cattiveria!!! Ma allora cosa ha fatto nello studio? â
â Ilâ ho fattoâ
â Lâassistente â intervenne Francesca, gelida, e per un attimo rividi tutta lâarroganza, la freddezza, la determinazione della donna che era â il dottor Capato â rimasto con noi due anni, e ha fatto lâassistente â
â Sâ, eccoâ annuâ lui â archivioâ anche centralinoâ fattorinoâ autistaâ â
â autista? â
â Sâ la dottoressa Francesca â disse indicandola â mi ha spesso fatto fare lâautista della sua macchinaâ una volta lâho anche accompagnata fino in Toscanaâ in vacanzaâ poi mi ha fatto tornare in trenoâ in seconda classeâ ehehe â rise; ma non troppo
Il cameriere ci interruppe, portando i caffâ.
Ci fu un silenzio imbarazzato mentre mescolavamo i caffâ, rotto solo dal âding dingâ dei cucchiaini che mescolavano.
Bevemmo i caffâ, sempre tutti e tre in silenzio.
Capato sorrise â beh ioâ mi ha fatto piacere vederviâ â e fece per alzarsi e tese la mano
â Siediti â dissi
â ma io â- aspetta un attimo â e lui sedette
â guarda â dissi, e allungai la mano verso Francesca.
Lei restâ ferma, rigida, la mascella contratta.
Con un movimento del polso le tolsi dal collo la sciarpa di seta, rivelando il collare.
Francesca rimase ferma, ma la sua guancia sinistra ebbe un tremito.
â Guarda â dissi rivolgendomi a Capato
Lui guardâ Francesca, poi deglutâ rumorosamente
â Sai cosâ? â gli chiesi
Lui annuâ, sistemandosi gli occhiali sul naso
â Ne avevi mai visto uno? â Scosse la testa
â Sai cosa significa? â Annuâ
â E cosa significa? â
â Cheâ cheâ â deglutâ â che leiâ â indicâ con il dito Francesca â lei â â si fermâ, mi guardâ
â Vai avanti â
â âunaâ sâ schiava? â sussurrâ, timoroso, e incassâ la testa tra le spalle, quasi aspettandosi uno schiaffo da Francesca.
Che invece rimase immobile.
Io guardai lui, e vedo vidi le goccioline di sudore sulle tempie.
Guardai lei, che tentava di restare impassibile, ma tremava appena.
â Diglielo â le dissi
Lei chiuse gli occhi.
Prese un respiro.
â Sâ â disse poi, guardando davanti a seâ â sâ. Sono una schiava. La sua schiava â
E poi, rivolta a me â ti prego. Andiamo via â
Io non la ascoltai nemmeno.
Capato era basito.
â Ne hai mai vista una dal vivo? Una schiavaâ o uno schiavo? â
â Sâ una volta, in un ufficioâ quello che faceva le pulizie avevaâ ilâ e indicâ il collare di Francesca
â E lo sai cosa fa uno schiavo, o una schiava? â Lui non riuscâ a rispondere. Scosse solo la testa.
Io sorrisi, poi lo guardai, serio â semplicemente, tutto quello che gli dici di fare â
Ci fu un altro momento di silenzio, poi mi rivolsi a lei â cosa fai, tu? â
Francesca tenne lo sguardo basso, fisso sul tavolo. Respirâ e contrasse la mascella.
â quello che tu mi dici di fare? â
â tutto? â chiesi io
â tutto â rispose lei, fredda
â qualsiasi cosa io ti dica di fare, farmi, o farti fareâ tuâ â lasciai la frase in sospeso
â âio la faccio â chiosâ lei, senza alzare gli occhi dal tavolo.
â vuoi provare? â chiesi, rivolto a Catapano, percependo un tremito da parte di Francesca
â Coâ coâ come? â
â â facile â dissi io, poi mi girai verso Francesca.
La guardai, e le dissi, lentamente
â obbedisci al dottor Capato â
Lei mi rivolse uno sguardo disperato, uno sguardo che diceva solo âti prego, noâ.
â Come si dice? â le chiesi
Francesca chiuse gli occhi.
Senza guardare, senza vedere nessuno, rispose â sâ, padrone â
â Hai visto? â facileâ prova â
â Cosaâ cosaâ-
â Quello che vuoi. Una cosa facile. Falle bere lâacqua, non so â
Capato mi guardâ. Annuâ. Prese fiato.
â Beviâ bevi lâacqua â
E Francesca di nuovo mi guardâ.
Come a dirmi davvero vuoi che succeda tutto questo.
E poi allungâ la mano, e senza distogliere i suoi occhi dai miei, bevette.
Io mi appoggiai alla sedia.
â â brava, vero? â dissi al mio nuovo amico
Lui mi guardâ, poi annuâ.
â Vuoi provare ancora? â
â Sâ â mi disse subito, quasi troppo in fretta.
Io sorrisi â accomodati â
Lui guardâ Francesca.
E io la vidi, la cattiveria, la vendetta, la rabbia emergere dentro di lui. Che prese fiato, aprâ la bocca
â Aspetta â
lo fermai, e lui si bloccâ â â solo per provare. Non la toccare, â mia. Non farle fare niente che la metta, o mi metta in imbarazzo â
Lui annuâ.
â Il potere. Basta questo, fidati â
Lui guardâ la tavola, in cerca di ispirazione â piega il mio tovagliolo â disse poi, e Francesca, lentamente, prese il tovagliolo che era accanto alla tazzina di Capato, lo piegâ e lo rimise dovâera.
â Bello, vero? Eccitanteâ Pensaâ puoi anche solo immaginareâ? â
Lui prima annuâ, e poi scosse la testa.
â Ma comeâ perchâ leiâ e tuâ comâ successo che â
â Fatti i cazzi tuoi, dottor Capato Antonino, vuoi? â risposi, duro.
E di nuovo lui fece di sâ con la testa.
â facciamo un gioco, Capato, vuoi? â
â facciamo finta che tu sia me. E abbia appena ricevuto la tua schiava, che â proprio la qui presente Francescaâ ti piace lâidea? â
â sâ â ripose lui â sâ â- e se perâ la potessi avere per, vediamoâ unâora, unâora solaâ cosa faresti? â
â ioâ â scosse la testa
Sorrisi â lo so cosa faresti â dissi, mettendogli una mano sul braccio â la scoperesti, vero? â
Lui ormai non sapeva piâ cosa fare o cosa dire.
Sudava, annuiva.
Francesca, in compenso, rimase seduta rigida come una statua di cera.
Le mani sul tavolo, le dita intrecciate.
Seguiva ogni mia parola muovendo appena la testa, lo vedo con la coda dellâocchio, come a dire no, no, no.
Perchâ lei mi conosce, e ormai capisce quando ho trovato un nuovo gioco e sa che, come un bambino, non avrâ pace finchâ non mi sarâ stancato del nuovo gioco.
E lei ha paura che, prima che io mi stanchi di questo, potranno succedere cose. Cose spiacevoli. Per lei.
â Banale â dissi â comprensibile, certo, ma banale â
â troppo facileâ ti aiuto io â
Silenzio.
â Facciamo che sâ, ce lâhai per unâoraâ ma non la puoi toccare, nâ lei puâ toccare te â sorrisi, malizioso â ecco, cosâ â piâ interessante, vero? Ci vuoleâ fantasia, diciamo â
â Ehâ sussurra lui-
â Cosa faresti? â
â Nonâ nonâ â
Io non dissi nulla.
Infilai una mano intasca, presi un pezzetto di carta e una penna.
Scrissi qualcosa, mentre sia Capato sia Francesca mi guardavano.
Piegai in due il bigliettino, e feci per darlo a lui.
Poi mi fermai.
â Hai 45 minuti per pensarci â dissi, alzandomi, e facendo cenno a Francesca di fare altrettanto.
Quando fui in piedi, mi rivolsi a lui, ancora seduto â hai 45 minuti per pensarci e per arrivare allâindirizzo che ti ho scritto â dissi, lasciando il biglietto sul tavolo â â casa mia. Quando arrivi, mi dici cosa hai pensato. Se mi convinci â
aggiunsi, guardando verso Francesca â te lo farâ fare. Mi raccomando. Non sprecare unâoccasione del genere in maniera banale â
E cosâ dicendo mi allontanai, mentre Francesca mi seguiva in silenzio.
Fuori, mi diressi verso il parcheggio.
â Ti prego, no â mi disse Francesca
â Oh, invece sâ non vedo lâora â
â No, ti prego, questo no â
Mi fermai, mi girai, la guardai.
â Questo sâ. E ti avviso, comportati bene. Perchâ se mi fai arrabbiare, tolgo anche il limite del non toccarti e non farsi toccareâ e secondo me il dottor Capato Antonino avrebbe delle bellissime idee, se solo gli permettessi di metterti addosso le sue mani molli e sudaticceâ â
Francesca rabbrividâ, e rimase ferma.
Io mi incamminai, e sentii il ticchettio dei suoi tacchi dietro di me.
â ti prego â la sentii sussurrare, e sorrisi.
CLICCA QUI PER ACCEDERE ALLE CAMS GIRL ITALIANE
â Ti prego no â furono le prime parole che mi disse Francesca.
A casa, appena rientrati, mentre io mi toglievo la giacca e lei era in piedi, accanto alla porta appena chiusa.
â Ti prego no â
Io appesi la giacca, e mi girai verso di lei.
Bella, elegante, con i capelli lunghi e neri raccolti dietro le spalle, era ferma immobile.
Mi guardava fisso.
Cercava di restare calma, ma vidi che deglutiva a fatica.
Bene, vediamo, pensai.
â No che cosa? â le chiesi
Lei scosse la testa: naturalmente sapevamo tutti e due a cosa si riferisse, ma la mia domanda indicava chiaramente che volevo divertirmi con lei.
Vidi nei suoi occhi un accenno di ribellione, il desiderio di mandarmi a quel paese e tutto, ma si trattenne.
â No⌠non voglio quel⌠quella persona⌠qui â
â Antonino? â
â SĂŹ. Lui â
â E perchĂŠ no? Mi sembra una cosĂŹ brava persona⌠e tu lâhai trattato male, vero? â
Francesca non rispose
â E secondo me devi un poâ farti perdonare⌠non credi? â
Lei tacque
â Non credi? â ripetei, questa volta in tono meno scherzoso
Lei abbassò gli occhi
â ti prego, no â sussurrò di nuovo
Io sospirai, come se fossi stanco di una lunga discussione.
Ma mi avvicinai a lei, le presi il mento tra le dita e la fissai
â nemmeno a me è molto simpatico, in realtĂ , in dottor Antonino⌠â
â e allora perchĂŠâŚ? â
â lo sai perchĂŠ. Dimmelo tu, perchĂŠ â
Lei mi guardò fisso.
Con una mano allontanò le mie dita dal suo viso, prese fiato e disse, a bassa voce
â perchĂŠ sei una persona cattiva. PerchĂŠ hai visto che questa⌠questa cosa⌠mi ferisce. E ti piace. PerchĂŠ vuoi vedermi umiliata, vuoi vedermi soffrire, vuoi vedermi star male⌠perchĂŠ sei solo una merda. Ti basta, o devo andare avanti? â
â no no, mi basta. Anche troppo, direi â
â però ho ragione, no? â sibilò Francesca
â però hai ragione â risposi, e mi diressi verso il soggiorno
Mi sedetti sul divano, e guardai lâorologio â sarĂ qui a momentiâŚ. â la guardai e le chiesi â allora, cosa devo fare? â
â mandalo via â rispose decisa
â e perchĂŠ dovrei rinunciare al mio divertimento? Lo ha detto tu, che lâho fatto solo perchĂŠ mi diverte⌠â
Francesca non rispose.
Fece due passi, fino a mettersi in piedi davanti a me.
Poi, lentamente, si inginocchiò.
Sempre lentamente, e tenendo lo sguardo fisso su di me, si mise a carponi.
â Padrone â disse infine â mandalo via. Farò tutto quello che vuoi â
Io la osservai, in silenzio.
Poi, lentamente, mi alzai e le camminai attorno, osservandola.
Mi fermai dietro di lei, dove la gonna tirava sul culo che, senza mutande sotto, aderiva perfettamente alle sue forme.
â Il problema è, cara mia â le dissi infine â che io posso giĂ farti fare tutto quello che voglio⌠â
Lei rispose senza girare la testa, parlando verso il divano vuoto â sĂŹ, ma lo farò meglio. Mandalo via. Ti prego â
Non risposi.
Presi il guinzaglio, mi sedetti di nuovo sul divano e fissai il guinzaglio al suo collare.
Poi presi un libro, unâanalisi, alquanto superficiale tra lâaltro, degli aspetti economici della conferenza di Postdam, e iniziai a leggere.
Restammo cosĂŹ.
Io seduto sul divano, con il libro aperto e il guinzaglio, mollemente tenuto tra le dita.
Lei a quattro zampe davanti a me, ferma.
Dopo qualche minuto, la posizione cominciò a diventare dolorosa, e iniziò a muoversi sulle ginocchia e a inarcare la schiena.
â Ferma â le dissi senza alzare la testa dal libro â non muoverti, nemmeno un muscolo â
Francesca si bloccò.
Dopo un tempo che sembrò infinito, a me per la inutile e fastidiosa prosopopea dellâautore del libro, per Francesca probabilmente per la scomoditĂ della posizione, suonò il citofono.
Mi alzai per andare ad aprire.
Francesca mi guardò.
â Chi è? â chiesi
â Sono⌠Antonino⌠â rispose una voce metallica
â Entra â risposi, schiacciando il pulsantino con la chiave
Francesca si girò â avevi detto â
â Non avevo detto niente â le risposi, brusco â e adesso prendi in bocca il guinzaglio e vieni qui â aggiunsi, battendomi una mano sulla coscia destra, come si fa quando si chiama un cane
Lei non si mosse.
â Hai tre secondi per ubbidire â dissi, a voce bassa â se non sei qui entro tre secondi, ti punirò come non puoi immaginare, e chiederò ad Antonino di aiutarmi⌠â
Francesca tremò.
Poi si avvicinò al divano, prese in bocca il guinzaglio e venne a mettersi accanto a me.
A terra, a quattro zampe.
â Brava â le dissi, e le diedi due carezze sulla testa, che lei cercò di evitare.
In quel momento suonarono alla porta.
Aprii.
â Buon⌠buongio⌠â disse Antonino, ancora piĂš accaldato e balbettante di quanto fosse al ristorante, ma si bloccò di colpo, quando vide Francesca, a terra, al guinzaglio, accanto a me.
â Buongiorno Antonino â lo salutai sorridendo â Francesca, saluta il dottore â
Francesca alzò lo sguardo, che aveva tenuto rivolto a terra fino a quel momento, e sussurrò â buongiorno dottore â e poi di nuovo abbassò la testa
Io guardavo Antonino.
Sembrava che stesse per avere un infarto, o per venirsi nei pantaloni.
O tutte e due le cose insieme, probabilmente.
â Antonino â gli dissi â devo darti una notizia. Ci ho ripensato â
Mentre dicevo cosĂŹ, sentii Francesca fremere accanto alla mia gamba
â Ci ho ripensato â ripetei â e tu sei un bravo ragazzo e tutto⌠ma, vedi, io sono piuttosto possessivo⌠e lâidea di condividere con te Francesca, anche senza che tu la tocchi⌠beh, non mi piace â
Lui mi guardava, non sapendo cosa dire, e poi di nuovo guardava Francesca, a terra.
â Quindi â continuai â temo che il nostro pomeriggio finirĂ qui⌠mi spiace, sarĂ per unâaltra volta⌠â
â Ce.. certo⌠no, naturalmente io⌠â balbettò lui
â Prima che tu vada⌠â lo interruppi â un piccolo gesto, per farmi perdonare di averti fatto venire qui inutilmente â sorrisi
â Francesca â dissi, con voce dura â girati â
Francesca mi guardò, poi, lentamente, girò su se stessa, con la faccia verso la stanza e il culo verso la porta.
â Adesso appoggia la faccia sul pavimento â
Francesca eseguĂŹ.
â Abbassati â dissi ad Antonino, che lentamente si piegò sulle ginocchia, accucciandosi davanti al culo di Francesca, coperto dalla gonna, tesa, che era anche risalita lungo le cosce â è senza mutande â aggiunsi, e Antonino emise un rantolo
â Alzati â gli dissi, e lentamente si alzò, sudato e rosso in faccia
Con un colpo al guinzaglio, feci girare Francesca â il dottore se ne sta andando. Salutalo â
â Arrivederci dottore â sussurrò Francesca
â Aaaa⌠arrive â stava dicendo Antonino, quando gli chiusi la porta davanti.
Lasciai cadere a terra il guinzaglio, e tornai in soggiorno.
Lei rimase ferma, davanti alla porta.
Capii che piangeva, silenziosamente, dai sussulti delle spalle.
Attesi.
Poco dopo, Francesca riprese in bocca il guinzaglio e tornò, camminando carponi, verso di me.
â Siediti â dissi, e lei si sedette sul divano, accanto a me
Presi in mano il guinzaglio, e iniziai a giocarci.
Poi la osservai, e scoppiai a ridere â cazzo! â dissi â ho temuto che gli venisse un infartoâŚ!!! â
Francesca provò a dire qualcosa, ma ebbe un singhiozzo di pianto ma fece anche una mezza risata, e quasi soffocò, e di nuovo rise.
â Dimmelo â le dissi, cercando di accarezzarle una guancia, mentre lei si discostava appena â dillo â ripetei
â Sei una merda. Mi fai schifo â mi disse infine, con tono duro e guardandomi con aria di sfida
â SĂŹ, immagino che tu lo pensi â risposi â e hai tutti i motivi per farlo â
Mi appoggiai al divano â ma torniamo a noi â
Lei non rispose
â Cosâè che hai detto, per convincermi a cacciare via il povero Antonino? â
â Che avrei fatto tutto quello che vuoi⌠â rispose stancamente lei
â Ma tu fai giĂ quello che voglio⌠quindi? â
â Quindi â rispose lei, rassegnata al mio piccolo, inutile e umiliante gioco â farò tutto quello che vuoi.. ma meglio â
â Tutto tutto? â le chiesi, guardandola e sorridendo
Lei ebbe un brivido, prima di rispondere â lo sai. Tutto quello che vuoi â
â Bene â risposi io â allora, chiedimelo â
Francesca si alzò dal divano, e poi si inginocchiò davanti a me.
Mise le mani dietro la schiena, mi guardò e disse â cosa vuoi fare, padrone? â
Io mi piegai in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e avvicinandomi al suo viso
â Voglio, voglio â sorrisi â voglio⌠e tu ti impegnerai per farlo âmeglioâ, come hai detto tu, anzi, meglio che mai â
Sorrisi, prolungando lâattesa
â Voglio â ripresi, alzando un dito della mano per ogni frase â voglio frustarti; voglio scoparti: voglio incularti, e venirti in bocca; voglio pisciarti addosso e in bocca, e voglio che ingoi la mia piscia, fino allâultima goccia. E voglio che tu faccia tutto questo felice, con gioia, e ringraziandomi ogni volta che potrai. Questo è quello che voglio â
Francesca non rispose, rimase ferma.
Solo una piccola lacrima scese dal suo occhio sinistro.
Io sorrisi â andiamo? â le chiesi, allungando un braccio e prendendola per mano.
Visualizzazioni:
4.145