“Ormai mi ero ormai assuefatto alla vita movimentata dell’Italia del Nord, ai mille divertimenti della costa riminese, alle belle fiche di ogni età che mi…”
Amarcord siculo
1.
Mancavo dal mio paese nell’Agrigentino da vent’anni. Me
n’ero andato a 18 anni, appena conseguito il diploma dell’istituto professionale alberghiero. Ero andato a fare il cameriere sulla costa romagnola, a Milano Marittima, dove un mio parente già lavorava come cuoco. Ripercorrevo in tal modo l’odissea di tanti ragazzi siciliani, mi ero buttato alle spalle un’infanzia e un’adolescenza di sofferenze e di stenti e, come la maggior parte di essi, non vi avevo fatto più ritorno. Nemmeno nelle feste comandate, sia perché quelli feriali sono i periodi di più intenso impegno lavorativo nelle località turistiche, sia perché non mi stuzzicava per nulla tornare alla noia ed alla malinconia dei luoghi natii. Certo c’erano gli affetti familiari, e soprattutto nei primi anni di lontananza ne avvertivo l’assenza. Ma, col passar del tempo, avevo messo radici e me la passavo piuttosto bene, avevo messo su una pizzeria, poi due, poi una gelateria, infine ero entrato in società nella gestione di un albergo sulla riviera e di una discoteca abbastanza accorsata. Ormai mi ero ormai assuefatto alla vita movimentata dell’Italia del Nord, ai mille divertimenti della costa riminese, alle belle fiche di ogni età che mi capitavano a tiro tutti i giorni. Una vita intensa e godereccia, mille miglia lontana da quella immobile della provincia siciliana.
In tutti questi anni avevo intrattenuto con i miei familiari rapporti epistolari, lettere e fotografie sempre più diluite nel tempo, e telefonici (una chiamata ogni quindici-venti giorni). Ma, ogni tanto, non mancavo di accreditare sul conto corrente di mio padre qualche generoso bonifico, che equivaleva alla sua pensione moltiplicata per dieci.
E’ incredibile come passi il tempo, eppure erano passati vent’anni: ero partito da Raffadali che era poco più di un ragazzo, disperato e squattrinato, con la classica valigia di cartone; vi tornavo ora da uomo fatto, esperto di vita, con un bel conto in banca e con una supercilindrata da benestante.
Era stata la morte di mio padre a giustificare il mio ritorno a casa. Quando era avvenuta io ero in Russia per accordi commerciali e i miei non erano riusciti a contattarmi. Trovai un telegramma al mio ritorno, dieci giorno dopo, e fui preso dal rimorso di non averlo potuto rivedere ancora vivo. Partii il più presto possibile, arrivai in aereo a Palermo e poi in taxi a Raffadali. In casa l’emozione per il mio ritorno sembrò superare il dolore per la dipartita del defunto, almeno a giudicare dai sentimenti che mi parve di cogliere in mia madre, mia nonna, mia sorella e nelle mie zie. Il paese non era molto cambiato, ricordavo abbastanza bene le strade e i quartieri, un po’ meno le persone, ma credo che pochi si ricordassero di me o fossero in grado di riconoscere in me quel Gero (diminutivo di Calogero) che di notte faceva chiasso con i suoi amici per le strade del paese, anche se ai funerali la mia presenza e la mia figura furono sicuramente l’argomento di maggiore curiosità.
Dopo una visita in cimitero mi ritirai in casa di mia madre. Mia madre continuava a singhiozzare, ma mi stringeva incessantemente le mani quasi a capacitarsi che ero io; mia sorella mi guardava con occhi gonfi di emozione e di orgoglio; le due sorelle di mio padre manifestavano invece un po’ di acida diffidenza e sembravano tacitamente rimproverarmi per una assenza tanto lunga. Notavo tuttavia che mia nonna non si preoccupava affatto di fingere la mestizia di circostanza e mi guardava con evidente compiacimento, sorridendomi ripetutamente e invitandomi ad appartarmi con lei. E, difatti, appena la casa piombò nella calma la seguii in camera sua.
Appena soli, mi abbracciò forte a sé e, a sorpresa, portò la sua mano verso le mie parti basse e mi strizzò i coglioni:
“Oh come ti facisti bello, Geruzzo mio. Te ne partisti che eri nu caruso, ora omo diventasti, e che omo!!!”
Nonna Sabella poteva avere un’ottantina d’anni e mostrava gli acciacchi dell’età, ma era ancora assai vivace e arguta; mi accarezzava le braccia e le gambe e si soffermava proprio sul rigonfiamento dei pantaloni, chiedendomi insistentemente delle mie donne. Sulle prime ero rimasto un po’ sconcertato, ma poi in un lampo mi erano tornate alla mente le immagini delle mie prime esperienze, di quella educazione sessuale che proprio lei mi aveva impartito.
La nostra era una casa piuttosto piccola con poche stanze; divenne ancora più piccola quando morì mio nonno materno e mia nonna venne a vivere con noi. Dovemmo arrangiarci: mia sorella dormiva nella camera dei miei genitori, io dormivo nel lettone di mia nonna. La nonna fu l’universo femminile che imparai a conoscere a partire dai 12-13 anni in avanti. A quel tempo la nonna aveva superato la sessantina, era vedova da sette-otto, ed io avevo cominciato a guardare di nascosto le sue parti più intime, le cosce ben tornite, il culo ancora sodo e prominente, le mammelle ampie e un po’ cascanti, la folta peluria in mezzo alle gambe. La spiavo mentre si spogliava prima di mettersi a letto e annusavo il suo odore sotto le coperte. Mi eccitavo da morire e mi tiravo le mie prime seghe mentre lei mi dormiva accanto o non appena si levava dal letto, sborrando il seme dentro un fazzoletto. Poi, col passare dei mesi, mi ero fatto più audace e mi avvicinavo sempre di più a lei nel letto, fino quasi a sfiorarla. Sentivo il calore del suo corpo e qualche volta la toccavo con apparente distrazione. La voglia di accarezzare e stringere quel corpo maturo, ma ancora tanto arrapante, e di sfregare contro il mio cazzo ingrifato cresceva in maniera imperiosa, ma difficilmente avrei trovato il coraggio di farlo, per il troppo timore che la personalità forte della nonna.
Ma il caso (o il destino) sbroglia spesso le situazioni più intricate. Eravamo andati a riposare insieme un pomeriggio d’estate e, dopo una mezz’oretta la nonna si alzò dal letto. Io pensai che la sua siesta era terminata ed io pensai bene di dare sfogo alla voglia che avevo accumulata masturbandomi in libertà. Me lo tirai per bene e mi lasciai andare ad una bella sborrata invocando a mezza voce il suo nome:
“Aaaahh sìì nonna bella apri ste belle coscione piglialo, piglialo è tutto tuo aaaahh ti vengo dentro”.
E giù un’eiaculazione fluviale, tanto abbondante che il fazzoletto non bastò a contenerla e tracimò sulle lenzuola.
Stavo ad occhi chiusi nella penombra della stanza e non mi ero reso conto che la nonna era andata al bagno, era rientrata nella stanza e stava per rimettersi a letto. Aveva assistito alla parte finale della mia masturbazione tra la sorpresa e la comprensione, ma non mi aveva interrotto. Ma, quando vide che avevo sporcato le lenzuola, ebbe un moto di stizza e non riuscì a trattenersi:
“Ma Gero, che combinasti?”.
Mi sentii all’improvviso scoperto in flagrante e mi destai scompostamente cercando di coprirmi alla meglio, in realtà combinando un guaio ancora più grande perché anche il liquido trattenuto dal fazzoletto si riversò sul letto creando una grande chiazza giallastra. Mia nonna si accomodò nel letto e, rivolgendosi a me con aria di rimprovero, mi apostrofò:
“Ma guarda qua che sporcaccione! Gero, Gero …… ma so cose da fare qua? Che vergogna!”.
Mi ero rincantucciato in un angolo del letto e trattenevo il respiro, rosso per la vergogna e timoroso per la punizione. Mi aspettavo che la nonna mi schiaffeggiasse, e invece vidi che cambiava decisamente tono:
“Povero Geruzzo, cominci a crescere e certe cose vengono da sole….. oh, ma quanta ne hai fatta! e come facevi a tenertela dintu? su, non stare accussì veni acca’ da nonna”.
Mi fece segno di avvicinarmi a lei e, lentamente, lo feci. Mi attirò la testa sul suo petto e sentii la morbidezza delle sue mammellone; poi infilò la sua mano destra in mezzo alle mie gambe e prese ad accarezzarmi il cazzetto e le palle:
“Pure chistu tiene ragione, solo che stu bene di dio non lo devi sciupare inguacchiando u liettu. Ma non ti preoccupare, ci pensa nonna a pulire ma, aggiu sentuto buono? pensavi a nonna quando te lo menavi? dimmelo, non ti scantare”.
Il suo atteggiamento materno e il tepore del suo corpo mi avevano ridato lo spirito e, sia pure sottovoce e con un po’ di imbarazzo, le risposi:
“Perdonami, nonna Sabella….. è vero, mi sono lasciato andare, non ce l’ho fatta più a tenermi …… so nu screanzato, ma è la verità: sei stata tu che me l’hai fatto arrizzare“.
A nonna le spuntò un bel sorriso di tenerezza e mi strinse ancor di più a lei, baciandomi sulla fronte:
“Geruzzo mio, nientemeno fu sta vecchietta che te lo fece arrizzare ah ah con tante belle figliole vai a pensare alla nonna!? mah certo, quacche cosa te la pozzo imparari”.
E, dicendo questo, si denudò il petto, tirò fuori le mammelle e mi introdusse un capezzolone in bocca:
“Ciuccia, ciuccia, bello di nonna”.
Si tolse la sottana e si sfilò la mutanda, prese la mia mano sinistra e la guidò tra i peli arricciati della sua fica. Incoraggiato da lei mi sentii autorizzato a introdurre due-tre dita dentro la fessura ad a perlustrarla: era la prima volta che toccavo una donna e che avevo accesso alle sue intimità. Notavo che, via via che suggevo avidamente il suo capezzolo e frizionavo freneticamente le labbra della sua fica, la nonna emetteva sospiri e gemiti di piacere:
“Uhhhmmm bravo Geruzzo vedi che ci sai fare? sì dài così continua bravo aaahh”.
Ad un certo punto vidi che cominciava ad agitare di più le sue gambe e che spingeva la mia mano tutta dentro la sua caverna infuocata gridando più concitatamente:
“Geruzzo sì dàii bello sìì così madonna mia che mi fai aahh aaaahhh”.
La vidi infine chiudere gli occhi, stringere le cosce imprigionando la mia mano dentro la fica spalancata e lasciar andare la testa sul cuscino con un ghigno di lieto abbandono, mentre la mia mano veniva inondata da umori caldi. La nonna aveva goduto e sborrato anche lei.
Si abbandonò per un minuto per assaporare meglio quel godimento mentre io, che nel frattempo mi ero arrapato all’inverosimile, mi deliziavo a toccarla e leccarla dappertutto, tra le mammelle, sulla pancia, sulle cosce, tirandola a me dalle belle chiappone. Poi si ridestò, mi abbracciò con grande passione e mi baciò in bocca esclamando:
“U sai, Gero, che mi facisti godere assai, oh amore di nonna mi fai sentiri cchiù giovane aaahhhh… ma vedrai quante cose ti vogghio imparari, devi diventare un maschio che i femmine se lo debbono litigare!”
Poi, sentendo che il mio cazzo si era indurito e premeva contro le sue cosce, sgranò gli occhi e disse:
“Oh, ma tu vuoi accominciare subito?! e allora vieni, vieni da nonna tua”.
E così dicendo, aveva allargato le cosce e mi avevo attirato dentro di lei, spingendomi dalle mie natiche. Era la mia prima vera scopata, non resistetti molto, in due-tre minuti versai il mio liquido dentro la ficona di nonna, che mi incoraggiava con parole appassionate:
“Su, Gero, vieni dentro la pancia di nonna …oohh, sììì oh che bello sentirti venire intu!”.
Da quel giorno dormire insieme a nonna equivaleva per me a scopare quasi tutti i giorni, provare le più diverse posizioni, imparare a far godere una donna. E più andavamo avanti, più diventavamo spregiudicati.
Avevo 15 anni quando glielo misi in culo: cosa che, mi spiegò, era piuttosto usuale nella campagna siciliana, dove il maschio si ispirava al mulo e considerava la sua donna al pari di una giumenta. In tutti quegli anni nonna non mi fece mancare niente: se lo faceva ficcare dappertutto, me lo spompinava, mi faceva versare lo sperma dovunque volessi. Faceva tutto con la dedizione di una maestra elementare che aveva assunto la missione di farmi diventare uomo con la U maiuscola. E non so fino a che punto la nostra intesa sessuale sfuggiva agli occhi dei miei, che comunque, per rispetto di lei, non ne fecero mai il benché minimo cenno.
Ripensavo velocemente ai turbamenti ed ai godimenti della mia adolescenza mentre la nonna continuava a stuzzicarmi i coglioni e a chiedermi insistentemente delle mie donne e delle mie avventure in continente. Voleva giustamente sapere se era stata una buona maestra. E intanto la sua manipolazione aveva dato i suoi effetti perché, sollecitato sia dalle mani di nonna sia dai miei ricordi di gioventù, il mio cazzo si era inalberato e premeva contro la cerniera dei pantaloni. Nonna Sabella guardava ammirata quell’enorme rigonfiamento, ad un certo punto sbottò:
“Ma Geruzzo, nun u vidi che u cavaddu si è imbizzarrito e che nun vole cchiù restari ind’a stadda? E vai, vai, fallo asciri fori!”.
E, senza aggiungere altro, mi aveva tirato giù la chiusura lampo, aveva armeggiato nei miei slip e l’aveva tirato fuori: “Uh madonna che bestione!!! Oh quant’è bello. Fammelo vasari”.
L’aveva preso avidamente tra le mani, si era chinata sul mio cazzo eretto ed aveva cominciato a baciarlo, a leccarlo e poi a succhiarlo. Incredibile, a 78 anni nonna Sabella mi stava facendo un pompino. Provai un qualche disagio, ma naturalmente la lasciai fare e, dopo qualche minuto, le riempii la bocca di sborra. Se la bevve tutta e, dopo averla deglutita, mi disse con gli occhi pieni di gioia:
“Grazie, Geruzzo della nonna, questa è manna che scenne da u cielu, ora pozzo anche muriri cuntenta”.
La abbracciai con affetto, persino con un po’ di commozione, la baciai e le dissi che non avevo mai dimenticato tutto quello che aveva fatto per me. Poi ci ricomponemmo e tornammo dagli altri, per non destare sospetti sulla nostra prolungata assenza.
(continua)
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