“E, mentre io ero riuscito a allentare soltanto due bottoni della camicetta e lottavo con la zia che continuava ad allontanare le mie mani, vedevo mio cugino…”
Due cugini e le loro madri
1.
Io
e mio cugino Marco siamo praticamente cresciuti insieme, come due fratelli più che due cugini, e tali ci consideriamo. Figli di due sorelle che abitano vicino e che sono anch’esse molto intime, avendo pochi mesi di differenza di età e quindi frequentando la stessa scuola, ci siamo sempre divisi tutto: sogni, confidenze, amicizie, delusioni.
Abbiamo condiviso soprattutto i turbamenti dell’adolescenza, a cominciare dall’attrazione morbosa quanto segreta delle nostre madri o, meglio, delle rispettive zie. Per cui, quando restavamo da soli in casa, non esitavamo a frugare nella loro biancheria intima ed a masturbarci furiosamente, immaginando di possederle magari assieme. Accadeva anche che, nel masturbarci, finivamo per toccarci reciprocamente, in un’atmosfera di latente omosessualità, e ci sborravamo l’uno addosso all’altro, invocando ciascuno il nome della mamma dell’altro.
Le nostre madri erano (e sono) due belle gnoccone. Elena, la mamma di Marco, 49 anni, alta 1.70, mora con folti capelli neri lisci, robusta (almeno una 50 come taglia), con due seni da quinta misura che si tenevano su da soli, un culo da favola tondo e prosperoso molto spesso messo in risalto da gonne attillate, gambe sode, un viso da maialona.
Giuliana, mia madre, 51 anni, più o meno della stessa altezza della zia, anch’essa mora ma con capelli mossi quasi ricci, un po’ più robusta, una buona 52 di taglia, con due mammellone traboccanti che soffrivano a stare dentro le coppe dei reggiseni, con le forme arrotondate di una bella 50enne, con un’espressione procace da troia matricolata (è un po’ forte dire ciò della propria mamma, ma è la verità).
Io (Gianni è il mio nome) e mio cugino Marco siamo invece due 18enni alti 1.80, piuttosto magri, con una peluria diradata sulle guance e sul petto, con occhi cerchiati di nero per le troppe seghe, permanentemente arrapati.
Col passare degli anni, stanchi delle continue seghe, ci proponevamo di darci da fare per passare dai sogni alla realtà, e fantasticavamo su come scoparci le rispettive zie, convinti come eravamo che le nostre madri, a quel che avevamo capito origliando, erano sessualmente insoddisfatte.
Una occasione irripetibile venne l’estate di quell’anno: avremmo passato una ventina di giorni in una località balneare dividendo lo stesso appartamento e per giunta senza la presenza degli zii-papà, che per esigenze di lavoro ci avrebbero raggiunto solo nella terza settimana.
Non sapevamo ancora bene come fare, ma il nostro obiettivo era chiaro.
Finalmente partimmo per la tanto attesa vacanza. L’appartamento era composto da tre camere, una per noi ragazzi, una per i miei e una per mia zia Elena e suo marito. Considerato che mio padre e mio zio ci avrebbero raggiunto solo successivamente, le nostre madri preferirono stare insieme ed occupare una sola stanza.
I primi due giorni passarono senza che succedesse nulla, ci riempimmo gli occhi spiando le nostre prede in spiaggia o a casa durante le pennichelle pomeridiane. Quando le due donne si facevano la doccia, correvamo in bagno ad annusare i costumi appena tolti, e finivamo di far sbollire l’eccitazione con la classica sega omosex sotto la doccia.
Ma diventavamo sempre più nervosi ed impazienti. Il terzo giorno decidemmo di tentare qualcosa. Marco mi disse che l’unica strada era cercare di far ubriacare le nostre madri, che non reggevano il vino. Ci inventammo perciò una fantomatica vincita al “gratta e vinci” e organizzammo una cena di festeggiamento.
Per tutto il giorno cercammo di rendere il clima euforico, non lesinando alle nostre donne ammiccamenti e complimenti a doppio senso.
All’ora di cena ci sedemmo a tavola, naturalmente con gli abiti comodi della villeggiatura. Io indossavo un paio di pantaloncini con una maglietta a girocollo, Marco aveva un abbigliamento analogo, zia Elena portava una gonna lunga fino al ginocchio con una camicia bianca un po’ sbottonata (che lasciava intravedere il solco dei seni), mia madre Giuliana aveva invece un camicione lungo fino al ginocchio e abbottonato sul davanti (ma inevitabilmente aperto sul petto, sia per il caldo sia per la prorompenza dei suoi meloni).
La cena andò avanti in un clima molto allegro, quasi goliardico, fummo molto attenti a riempire di continuo i loro bicchieri cercando nel contempo di rimanere noi lucidi il più possibile.
Verso le 10 di sera zia Elena e mia madre erano già abbastanza brille ed euforiche, proprio come noi speravamo; ci accomodammo tutti sul divano ed io e Carlo alzammo il livello spinto delle battute e iniziammo ad abbracciarle con insistenza e a palparle in maniera sempre più disinvolta.
Ad un certo punto zia Elena esordì:
“Giuliana, ma non hai l’impressione che questi due birbanti ne stiano approfittando del fatto che stasera abbiamo bevuto un pò?”
“In che senso Elena?”
“Beh, a me sembra che facciano un pò i polipetti … sento le mani di Gianni dappertutto”
Sentendomi scoperto cercai di minimizzare, scherzandoci sopra:
“Ma dai zia, cosa vai a pensare! ti sembra possibile che due ragazzi come noi approfittino di due tardone come voi, e per giunta zia e madre” e scoppiai in una fragorosa risata.
La battuta si dimostrò efficace perché mia madre, forse un pò più brilla, rispose a tono e ridendo anche lei disse:
“Eh già! noi saremmo delle tardone ma piuttosto voi cosa volete approfittare, ragazzini di latte?… cosa sareste in grado di fare?”
Mio cugino Marco fu lesto a cogliere la palla al balzo e, cominciando a sbottonarle i primi bottoni, la apostrofò:
“Ah, è così? … allora vediamo cosa possono offrirci le tardone?”
Marco seguitava imperterrita ad aprire il camicione di mia madre che, presa dall’euforia, lo lasciava fare. Sulle prime mi sentii un po’ imbarazzato, ma poi, preso da un impeto di orgoglio ed eccitazione, iniziai anch’io ad allentare qualche bottone a zia Elena che però, essendo più lucida, mostrava qualche resistenza.
E, mentre io ero riuscito a allentare soltanto due bottoni della camicetta e lottavo con la zia che continuava ad allontanare le mie mani, vedevo mio cugino palpeggiare liberamente l’enorme seno di mia madre che, a giudicare dai capezzoli inturgiditi come due chiodi, dava chiari segni di eccitazione. In breve Marco riuscì a slacciare completamente il camicione di mia madre, mettendo in evidenza i suoi slippini bianchi velati in contrasto con la folta peluria nera del pube.
Quella vista scatenò la mia eccitazione e, con una forza e una decisione che non sospettavo di avere, sollevai la gonna a zia Elena e le scoprii tutte le cosce e il bassoventre, constatando che anche lei aveva un paio di slip bianchi in contrasto con il pelo nero.
Intanto mia madre, eccitatasi come non mai, diceva:
“Ma guarda questi due birbantoni! vogliono fare i porcelloni con le zie ma allora vi piacciono le tardone, vero?”
Zia Elena tentava ancora di resistere:
“Dai, smettiamola! quando si scherza si scherza … ma ora mi sembra che il gioco si stia facendo un pò troppo pesante”
Ma mia madre era partita e, in preda al desiderio, le rispose:
“Ma no Elena, dai che ci divertiamo….. vediamo cosa sono in grado di fare questi due pivellini?”
Io e Marco ci guardammo negli occhi e, facendoci l’occhiolino per dire che le cose si erano messe per il verso giusto, tirammo fuori i nostri piselli già a baionetta e li posizionammo davanti ai volti stralunati delle due donne.
Dopo una decina di secondi di incertezza, Marco avvicinò il suo pene alla bocca di mia madre e lo fece scivolare dentro, e lei senza battere ciglio iniziò un pompino fantastico che solo a guardare faceva venire la voglia; zia Elena, quasi a voler vendicare il figlio, afferrò di forza la mia asta e iniziò una specie di gara di spompinamento con la sorella.
Una scena incredibile, una sensazione indescrivibile. Ad un certo punto Marco tolse il pisello dalla bocca di mamma Giuliana ed iniziò a denudarla, le tolse il camicione, oramai completamente sbottonato, e slacciò l’enorme reggiseno, balzarono fuori due tette enormi tette, tanto che la mia asta e quella di Marco ebbero come un sussulto.
Carlo si riversò sopra quelle montagne di carne morbida e iniziò a palpeggiarle e a trastullarsi con le dita e con la bocca. Feci la stessa cosa con zia Elena e mi avventai prima sulle sue tette, poi in mezzo alle sue cosce in cerca della sua caverna pelosa, grondante di umori.
Il clima si era ormai surriscaldato e, in preda all’eccitazione più completa, esclamai:
“Beh, che ne dite di questi due pivellini? “
Allora mia madre:
“Come inizio non c’è male… ma voglio vedere fino a quando resisterete! “
A sua volta zia Elena:
“Dio che fame che avete! Sembra che ci desideravate da tanto… chissà quante seghe vi siete fatti pensando a noi”
A quel punto Marco non si trattenne:
“Ad essere sinceri fino a stamattina. Ci avete fatto penare tanto, ma ora la pagherete cara”
Le avevamo denudate e si erano allungate sul divano. Ci distendemmo su quei corpi carnosi e iniziammo quasi contemporaneamente a penetrarle: vedere i nostri cazzi profanare quelle caverne oleose e vogliose dava un’emozione sconosciuta.
Ad ogni colpo le due donne ansimavano e mugugnavano, erano calde e bagnate, sentivo il cazzo affondare in una spugna di carne infuocata; il mio sguardo, però, si posava insistentemente su mia madre e sulle sue enormi zinne che sobbalzavano sotto i colpi di mio cugino, e il suo sguardo spesso incrociava il mio in un misto di desiderio, perversione e vergogna.
Pompammo per un bel po’, dimostrando una discreta capacità di resistenza. Il primo a sborrare fu Marco che, tirato fuori il pisello, lo poggiò sulle tette di sua zia Giuliana e le schizzò quasi in volto; lei per ricambiare si abbassò e, ripreso il cazzo in bocca, lo ripulì per benino. Anch’io, vedendo la scena, lo tirai fuori e lo avvicinai alle labbra di zia Elena che, appena lo vide prossimo a sborrare, aprì la bocca e ingoiò tutto ripulendomelo splendidamente.
Una scopata fantastica! Ci sdraiammo esausti per terra e rimanemmo in silenzio per molti minuti, un pò per la spossatezza un pò per un riflesso di pudore. Era quasi mezzanotte e, piano piano, l’uno dopo l’altro ci alzammo e, arrancando nel corridoio, raggiungemmo le nostre camere.
Prima di addormentarci io e mio cugino ci scambiammo un cenno di intesa come per dire che ce l’avevamo fatta, ma che non sarebbe finita lì.
(continua)
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